La sentenza di Cassazione n. 19220/2013 interviene nuovamente sul delicato tema del consenso informato, affermando la responsabilità del medico che ometta di rendere adeguate informazioni, qualunque sia la qualità o il livello culturale del paziente (che nel caso di specie è un avvocato).
La pronuncia si inserisce in quell’orientamento giurisprudenziale costante (v. Cass., sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972; Cass., 9 febbraio 2010, n. 2847) che individua una lesione del diritto inviolabile all’autodeterminazione (art. 2 e 3 Cost., e art. 32 Cost., comma 2) nell’inadempimento, da parte del medico, dell’obbligo di richiedere il consenso informato del paziente. Costituisce, infatti, un dato acquisito, in dottrina e giurisprudenza, la qualificazione del consenso informato quale vero e proprio diritto della persona: esso trova fondamento non solo nella nostra Costituzione, ma anche in numerose norme internazionali, quali l’art. 5 della Convenzione di Oviedo del 1997 e l’art. 3 della Carta di Nizza del 2000 (v. Corte Cost., n. 438/2008).
Richiamata questa cornice di principi, la sentenza n. 19220/2013 si concentra su un aspetto importante: quello relativo alle modalità della comunicazione tra medico e paziente.
La pronuncia trae origine da un caso di malpractice medica che vede coinvolto un avvocato sottoposto ad un intervento oculistico dal quale gli deriva un rilevante deficit visivo. Nel ricorrere in Cassazione egli lamenta la mancata prestazione di un valido consenso informato, essendogli stato fatto sottoscrivere un semplice prestampato da una segretaria, nella penombra della sala d’aspetto, e senza essere stato edotto della possibilità di un esito negativo dell’intervento. In particolare, il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui statuisce che il consenso prestato fosse cosciente sulla base di un argomento di natura presuntiva: proprio l’attività di avvocato svolta dal paziente avrebbe dovuto renderlo consapevole della importanza connessa alla sottoscrizione del modulo del consenso informato “nell’economia del contratto di prestazione sanitaria” (e ciò sebbene tale foglio informativo non sia mai stato allegato agli atti e sia stato fatto sottoscrivere da una segretaria nella imminenza della operazione).
La Cassazione accoglie il ricorso in relazione a questa censura: la motivazione della sentenza impugnata, essendo fondata su un argomento di natura presuntiva, non sarebbe sufficiente a far desumere che il consenso prestato sia stato effettivamente informato, cioè frutto di un processo decisionale basato su un’informazione adeguata ed esplicita (anche alla luce delle circostanze del caso concreto).
E’ a questo punto del suo ragionamento che la Corte formula un’importante precisazione: se lo scopo dell’informazione che il medico è tenuto a fornire è quello di assicurare il diritto all’autodeterminazione del malato, allora deve ritenersi del tutto “irrilevante la qualità del paziente al fine di stabilire se vi sia stato o meno consenso informato”. In altri termini, la qualità personale del soggetto da informare non determina né il venir meno né l’attenuarsi dell’obbligo di informare. Semmai, la qualificazione professionale del paziente può incidere solo sulle modalità della comunicazione tra i soggetti della relazione terapeutica: le informazioni da trasmettere devono risultare adeguate al livello culturale del paziente, “con l’adozione di un linguaggio che tenga conto del suo particolare stato soggettivo e del grado delle conoscenze specifiche di cui dispone”.
La Cassazione, in sostanza, ribadisce l’informazione debba essere il più possibile “personalizzata”, e cioè adeguata rispetto al tipo di cure necessarie e alla peculiarità del singolo paziente, poiché solo in tal modo quest’ultimo è posto nelle condizioni di compiere una scelta effettiva e consapevole.
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