ISSN 2239-8570

La Cassazione risarcisce il danno morale da perdita dell’animale di compagnia, di Jacopo Mazzantini

Jacopo Mazzantini – Avvocato del foro di Firenze

Cass., sez. III, 25 Febbraio 2009, n. 4493

 

Nella sentenza 4493/2009 la Suprema Corte, confermando la impugnata sentenza del 30.09.2004 del giudice di pace di Roma, ha rigettato il ricorso proposto da una clinica veterinaria, ritenendola responsabile del decesso di un gatto in seguito a prestazioni sanitarie negligenti. La sentenza trae origine, in particolare, dal seguente caso: nel corso della degenza, era stata eseguita una trasfusione di sangue, non preceduta da alcun accertamento circa le condizioni dell’animale donatore. Quest’ultimo, dopo alcuni giorni dal prelievo, era deceduto, perché affetto da una malattia ematica. A distanza di pochi giorni anche il gatto era peggiorato ed, infine, era deceduto quando si trovava ancora ricoverato presso la clinica veterninaria.

Nelle proprie motivazioni la Corte:

a) ha individuato nell’assenza dei preventivi controlli sulla qualità del sangue utilizzato per la trasfusione una “negligenza specifica” ex art. 1176, co. 2;

b) a fronte della asserita violazione dell’art. 2236 c.c., ha confermato il costante orientamento secondo cui la limitazione di responsabilità professionale ai soli casi di dolo o colpa grave attiene esclusivamente alla perizia, per la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, con esclusione dell’imprudenza e della negligenza (si vedano, in proposito, Cass. 9085/06; Cass. 583/05; Cass. 5945/00);

c) ha affermato che anche la perdita di un animale può essere causa di risarcimento del danno morale, quale voce del danno non patrimoniale;

d) ha richiamato un precedente della medesima sezione III della Suprema Corte (v. Cass. 17144/2004), per statuire che il giudice di pace “nell’ambito del solo giudizio d’equità, può disporre il risarcimento del danno non patrimoniale anche fuori dei casi determinati dalla legge e di quelli attinenti alla lesione dei valori della persona umana costituzionalmente protetti”. Tutto ciò a patto che il danneggiato “abbia allegato e provato (anche attraverso presunzioni) il pregiudizio subito”.

La sentenza si pone, dunque, in contrasto con i principi affermati dalle note sentenze gemelle nn. 26972-26973 emesse, nel novembre 2008, dalla Corte di Cassazione a sezioni unite, nelle quali si precisava:

che “al di fuori dei casi determinati dalla legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale”;

– che, di conseguenza, già in passato non era “è stato ammesso a risarcimento il pregiudizio sofferto per la perdita di un animale (un cavallo da corsa) incidendo la lesione su un rapporto, tra l’uomo e l’animale, privo, nell’attuale assetto dell’ordinamento, di copertura costituzionale” (sent. n. 14846/2007)”;

– che, infine, “i limiti fissati dall’art. 2059 c.c., non possono essere ignorati dal giudice di pace nelle cause di valore non superiore ad euro millecento, in cui decide secondo equità. La norma, nella lettura costituzionalmente orientata accolta da queste Sezioni unite, in quanto pone le regole generali della tutela risarcitoria non patrimoniale, costituisce principio informatore della materia in tema di risarcimento del danno non patrimoniale, che il giudice di pace, nelle questioni da decidere secondo equità, deve osservare (Corte Cost. n. 206/2004)”.

La pronuncia in esame è destinata, così, a riaprire nuovamente il dibattito in ordine ai “confini” del danno non patrimoniale, senza, peraltro, aver giustificato il proprio distacco dai principi fissati dalle sezioni unite.

Ciò sorprende soprattutto alla luce dell’introduzione del vincolo delle sezioni semplici al precedente delle sezioni unite di cui al novellato art. 374, co. 3, c.p.c. (“Se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso”; comma così sostituito dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40).

Finalità principale della riforma era quella di accentuare il ruolo nomofilattico della Corte di Cassazione e di perseguire una uniforme interpretazione ed applicazione della legge, al fine di evitare contrasti all’interno della giurisprudenza di legittimità e garantire, in tal modo, una maggiore certezza del diritto.

E’ pur vero che, ai sensi dell’art. 27 (“Disposizioni transitorie”) del D.Lgs. 40/2006, tale riforma si applica “ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze e gli altri provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto”.

Ciò nonostante, una illustrazione, da parte della sezione III, delle ragioni dell’opposizione all’orientamento seguito dalle sezioni unite sarebbe stato comunque opportuno.

Pubblicato in Illecito civile

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