La Corte di Giustizia Europea ha respinto la golden share italiana.
Con tale espressione ci si riferisce ai poteri speciali che lo Stato, a seguito della privatizzazione di un’impresa pubblica, si riserva nei confronti di quest’ultima, a prescindere dal numero di azioni possedute. Le autorità comunitarie hanno sempre contestato tale istituto in quanto violerebbe i principi di libera circolazione dei capitali, fondanti il Trattato di Schengen.
Nello specifico, con decreto legislativo 10 giugno 2004, art. 2, il Governo italiano si sarebbe potuto opporre all’assunzione da parte di investitori di partecipazioni rilevanti che rappresentino almeno il 5% dei diritti di voto e alla conclusione di accordi o patti tra azionisti che rappresentino almeno il 5% dei diritti di voto; veto all’adozione di delibere di scioglimento della società, di trasferimento d’azienda, di fusione, di scissione, di trasferimento della sede sociale all’estero, di cambiamento dell’oggetto sociale, di modifica dello statuto che sopprimono o modificano i poteri speciali; nomina di un amministratore senza diritto di voto.
Secondo i giudici europei, i quali sposano le argomentazioni della Commissione, “le situazioni che consentono di esercitare il diritto di veto sono potenzialmente numerose, indeterminate ed indeterminabili e…lasciano alle autorità italiane un ampio potere discrezionale”. Pertanto, la condizione di incertezza in cui si troverebbero gli investitori, produrrebbe l’effetto di scoraggiare la loro attività nel mercato.
Di seguito è possibile leggere la sentenza per esteso:
CGE, 26 Marzo 2009, causa C-326/2007
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