ISSN 2239-8570

Le Sezioni Unite sull’irrilevanza dell’usura sopravvenuta: l’unità nella diversità, di Federico Pistelli


DOCUMENTI ALLEGATI

Con una presa di posizione, per certi versi, non risolutiva del problema e che, verosimilmente, non tarderà a suscitare opposizioni (per aver dato seguito ad un orientamento, invero, minoritario), la Suprema Corte di Cassazione nella sua composizione più autorevole ha affrontato la vexata questio della rilevanza giuridica della fattispecie della cd. usurarietà sopravvenuta (Cass., SS.UU., 19 ottobre 2017, n. 22972).

La genesi della questione deve essere collocata a circa un ventennio di distanza, quando il legislatore introdusse un limite normativo ai tassi di interesse praticabili nelle diverse operazioni di finanziamento (Lg. n. 108 del 1996). La via percorsa per reprimere il fenomeno del prestito ad usura si è caratterizzata per due scelte di fondo: l’introduzione di un duplice binario sanzionatorio, penalistico (art. 644 c.p.) e civilistico (art. 1815, comma 2, c.c.); la previsione di un meccanismo di individuazione di un tasso limite oggettivo, benché mutevole nel tempo, perché affidato a rilevazioni trimestrali del tasso mediamente praticato dagli istituti di credito per categorie omogenee di operazioni (TEGM – Tasso Effettivo Globale Medio), maggiorato da uno spread (TSU – Tasso Soglia Usura).

Fin dalle prime applicazioni successive all’entrata in vigore della normativa emerse con evidenza la centralità del problema dell’usurarietà sopravvenuta. Questa fattispecie si verifica in due specifiche ipotesi, riconducibili tuttavia ad una medesima ratio. In primo luogo, si pone come profilo di ius superveniens (analogo a quello, affrontato pochi anni prima, nel contesto delle fideiussioni omnibus prive di limite massimo garantito), ossia come questione di applicabilità, ai rapporti antecedenti l’intervento normativo, del nuovo limite di soglia. In secondo luogo ricorre anche nei rapporti nati sotto la vigenza della disposizione, qualora il tasso originariamente pattuito come lecito superi la soglia relativa a singoli trimestri (a causa di sensibili diminuzioni del tasso medio di mercato o di aumento di costi e commissioni nel contratto).

A favore della rilevanza della fattispecie si erano pronunciate la maggioranza delle decisioni di legittimità, nonché della dottrina sul tema; questo primo blocco omogeneo di pronunce differiva tuttavia in merito al trattamento giuridico che dovesse essere riservato al tasso divenuto solo successivamente sopra soglia. L’ostacolo più evidente era costituito dal dato della legge di interpretazione autentica (art. 1, comma 1, D.Lg. n. 394 del 2000), certificato – per così dire – dal superamento del vaglio della Corte Costituzionale (sentenza 25 febbraio 2002, n. 29): nel sancire l’applicazione delle norme novellate dalla legge antiusura al solo momento della pattuizione, sembrava di fatto chiudere il discorso alla configurabilità giuridica di un’usura non originaria. Messo dunque da parte l’apparato “rinforzato” delle sanzioni (la totale gratuità del mutuo), la giurisprudenza di legittimità aveva ritenuto che la clausola in forza del quale venivano richiesti interessi ulteriori rispetto alla soglia vigente per quel trimestre dovesse comunque predicarsi come nulla o altrimenti inefficace, con sostituzione ex lege del tasso limite (art. 1339 c.c.).

Nell’ottica di dar continuità all’orientamento che “nega la configurabilità dell’usura sopravvenuta”, la Suprema Corte sottolinea come il divieto imperativo di percepire interessi sopra soglia sia contenuto esclusivamente all’interno degli artt. 644 c.p. e 1815 c.c., i quali presuppongono una nozione di interessi usurari per come stabilito nell’art. 2 della legge 108/1996. Orbene, la legge di interpretazione autentica ha inteso circoscrivere alla fase genetica del rapporto non solo la sanzione, ma il vero e proprio campo di applicazione di queste disposizioni escludendo, di fatto, che un superamento successivo della soglia possa configurare un contrasto con un divieto imperativo di legge tale da comportare la nullità o l’inefficacia della clausola. Ciò non significa, allo stesso tempo, negare la configurabilità di altri strumenti di tutela del mutuatario, al ricorrere degli specifici presupposti della disciplina codicistica (come la nullità delle clausole vessatorie o la riducibilità degli interessi di mora, per il tramite della manifesta eccessività della clausola penale).

Il profilo più controverso esaminato dalle Sezioni Unite (3.4.2.) è però quello afferente al tema delle clausole generali e della precettività del dovere di buona fede e di solidarietà, quale fonte di integrazione degli obblighi contrattuali, che secondo taluni opererebbe come limite alla esigibilità di interessi divenuti successivamente usurari. Osserva infatti la Corte che il criterio della buona fede in executis opera in fase di “realizzazione dei diritti da esso [contratto] scaturenti”. Ciò vale a dire che una violazione della clausola generale non sarebbe riscontrabile nel mero esercizio di diritti che il contratto legittimamente riconosce al finanziatore, quanto nella “presenza di particolari modalità o circostanze” tali da rendere “scorretta ai sensi dell’art. 1375 c.c.” la pretesa di interessi divenuti successivamente superiori al tasso soglia (la giurisprudenza arbitrale ha qualificato, ad esempio, scorretta quella conseguente alla pattuizione di una clausola floor per un tasso molto vicino al limite di soglia).

Questa lettura sembra procedere nell’ottica di una valutazione “casistica” da parte del giudice di merito il quale, esclusa l’applicabilità dei rimedi della nullità parziale sopravvenuta e dell’inefficacia della pattuizione oltre soglia, è chiamato a valutare se la pretesa degli interessi da parte del mutuante contrasti, in ragione delle particolari modalità o circostanze del caso concreto, con il generale dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto.

 

 

[Precedenti – A favore della rilevanza dell’usura sopravvenuta in termini di nullità parziale o di inefficacia si veda Cass. 602-603/2013, Cass. 17150/2016, Cass. 9405/2017; per un’inefficacia ex nunc, con esclusione della rilevabilità d’ufficio, Cass. 1126/2000, Cass. 2149/2006, Cass. 17854/2007. A favore invece della irrilevanza giuridica, Cass. 26499/2009, Cass. 22204/2013, Cass. 801/2016. Nella giurisprudenza arbitrale, sull’applicabilità del rimedio di buona fede, ABF Collegio di Roma 52/2017, ABF Collegio di Napoli 4664/2016, ABF Collegio Napoli 1758/2015, ABF Collegio di Coordinamento 77/2014]

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