ISSN 2239-8570

La Dichiarazione Universale e la pretesa all’effettività dei diritti, editoriale di Giuseppe Vettori

1. Le ragioni della Dichiarazione universale

La fine della prima guerra mondiale aveva posto le premesse di un secondo conflitto per una serie di fatti noti. Il rilancio del nazionalismo e dei confini disegnati e imposti dai vincitori. La creazione di equilibri instabili fra i popoli. Il fallimento del Trattato di pace che doveva istituire quella Società delle Nazioni pensata come strumento sovranazionale di regolazione e soluzione dei conflitti.
Dopo la tragedia della seconda guerra mondiale gli errori del primo dopoguerra non furono ripetuti. Nacque l’ONU. Alcuni paesi europei dettero avvio ad accordi che consentirono poi la nascita del Mercato comune. Non si ebbe solo un ritorno alla democrazia. Si volle di più.
Memori del passato recente che aveva consentito un accesso al potere legittimo delle dittature, si decise di creare qualcosa di nuovo “ovvero una democrazia fortemente limitata da istituzioni non elettive” di matrice costituzionale, “ostile agli ideali di una sovranità popolare illimitata e alle democrazie popolari”(1) .
Ciò avvenne in modi diversi. Con la previsione all’interno dei singoli Stati di Corti Supreme di controllo del potere legislativo e di organi giurisdizionali indipendenti. Con la cessione di parte di sovranità degli Stati verso organismi internazionali. Con una politica di Welfare capace di liberare dalla morsa della povertà e scongiurare una politica di sostegno sociale, usata della destra fascista, in passato, per attrarre consenso verso la restrizione delle libertà civili (2).
La Dichiarazione universale dei diritti umani ha scandito e accompagnato questa fase storica. Le Nazioni Unite, nate un mese prima di Hiroshima, “non avevano impedito la bomba atomica ma generarono poi -forse a causa di quella bomba o a causa della scoperta dei lager nazisti – quell’atto supremo del nostro secolo”. “Vera rivoluzione capace di una profonda trasformazione della coscienza umana (3).
Tutto ciò deve confrontarsi con quello che è accaduto nell’ultimo decennio del 900 e in particolare con quello che sta accadendo oggi in Italia e in Europa attraversate da spinte di sovranismo e di riduzione degli spazi dei diritti fondamentali.
I due periodi vanno letti separatamente.

2. La fine del novecento

Nel 1989 la dissoluzione dell’URSS aveva determinato la proclamazione di oltre 25 Costituzioni e nel duemila la Carta di Nizza chiuse il ciclo storico che doveva preparare l’allargamento dell’Unione europea attorno ad un nucleo di diritti e valori comuni.
La Chiesa Cattolica, sempre cauta sul tema, con la Centesimus annus (1991) di Giovanni Paolo II, prese una posizione forte, riconoscendo i diritti fondamentali come “strutture antropologiche” che l’ordine giuridico deve riconoscere e difendere come forme oggettive, “create dalla operosità di milioni di uomini che agendo individualmente o in gruppi hanno dato vita ad un grande movimento per la difesa della persona”. Dunque strutture dotate di oggettività che per alcuno “fanno penetrare il Discorso della Montagna nei processi di trasformazione sociale e consente ai poveri, i miti, i minorati di divenire soggetti di diritto” (4).
In realtà la cautela sul punto era d’obbligo perché diritti e tutele sostanziali esigono molto di più di una proclamazione solenne. Impongono di far combaciare “la forma con la sostanza (5). Ed è questo ora come allora il tema di fondo di ogni discussione sui diritti. Oggi più di sempre se esaminiamo il presente.

3. Forma e sostanza nella attuazione dei diritti oggi

Il contesto sociale dal dopoguerra al nuovo millennio ha subito profonde modificazioni. La cornice del Welfare State ha retto sino agli anni 80 per ripiegarsi poi di fronte alla crisi dello Stato nazionale e dell’economia globale, sotto la spinta di un ritorno del liberismo economico.
La crisi della crescita e della redistribuzione assieme ad una grave e persistente depressione economica ha reso, per alcuni, meno pressanti i diritti sociali e per molti altri ha mutato la percezione della loro difesa e le modalità delle forme di rappresentanza politica. Basta riflettere su ciò che sta accadendo in Europa.
Se alla fine del millennio si è assistito a mobilitazioni contro gli esiti delle politiche neoliberistiche e dopo il 2008 si sono moltiplicati i movimenti contro l’austerità. “Gli ultimi anni sono stati caratterizzati dalla riapparizione del lato oscuro della politica che stava, da almeno un decennio, riemergendo in tutta Europa (6). Sino a mettere in discussione, oggi, al centro del vecchio continente, in Polonia, Ungheria, Repubblica ceca e slovacchia, i presupposti stessi dello Stato di diritto e dell’indipendenza della magistratura.
Alla base esiste, da tempo, un malcontento verso la globalizzazione neoliberista sia a destra che a sinistra, ma con caratteri molto diversi.
Contro lo sfrenato sviluppo del mercato si sono coalizzati “operai e colletti bianchi, studenti e disoccupati, anziani e giovani”, ma anche una destra populista che si oppone ai tratti culturali della globalizzazione con posizioni razziste e anti immigrazione che confluiscono in forme di nazionalismo sfrenato. Ciò non stupisce perché “i movimenti sociali si sviluppano parallelamente sia a sinistra che a destra” (7), ma colpisce la diversa composizione dei fronti opposti.
Da una parte i giovani precari, in tutta l’Europa meridionale, che per provenienza culturale e di classe non possono certo essere definiti degli esclusi o perdenti, i pensionati e dipendenti pubblici, gli operai licenziati per i continui fallimenti delle imprese medie e grandi, i professionisti in balia delle grandi imprese. Insomma una società “dei due terzi” in passato protetta da un sistema di economia di mercato e di sicurezza sociale, ma colpita dalle politiche di austerità (8). Movimenti che richiedono il ripristino delle tutele sociali e” sfidano con indignazione l’ingiustizia dell’intero sistema”, senza atteggiamenti antidemocratici, ma sperimentando forme nuove di partecipazione, attenzione ai beni comuni, modelli diversi di decisone politica, in Spagna, in Portogallo, in Grecia, sino a lambire l’Inghilterra e gli Stati Uniti.
Dall’altra parte quella che è stata definita una “grande regressione” a partire dalle spinte che hanno condotto alla Brexit, alle politiche di Trump, al Front National in Francia, all’AFD in Germania, all’alleanza in Italia fra movimento 5 stelle e Lega, alla destra austriaca, sino alle politiche antidemocratiche al centro dell’Europa, in Polonia, Ungheria e paesi vicini (c.d. gruppo di Visigrád). Accomunate tutte da alcuni tratti eterogenei che riguardano categorie tradizionalmente protette (imprenditori e dipendenti qualificati in determinati settori) o cittadini che si identificano con una comunità nazionale, ma non solo. La ricchezza ha giocato un ruolo nella vittoria di questi movimenti in Inghilterra (Brexit) e in America (Tea Party e i seguaci di Trump) e soprattutto ha assunto un peso determinante una leadership personale che prevale e in certi casi esclude la partecipazione.
Un populismo che “mobilita dall’alto per acclamare una figura autoritaria o ratificare le iniziative politiche del loro leader” (9). Che “non rafforza il popolo nella sua totalità, bensì un singolo capo” (10) il quale spesso si fa promotore di politiche di protezione sociale sottratte alla sinistra “che viene percepita come sostenitrice del libero mercato e priva di un’alternativa concreta” (11).
Come tutto ciò evochi un male oscuro del passato è evidente (12), come è evidente che le Istituzioni europee non hanno dato risposte appaganti. Ciò che era necessario è noto. Dall’unificazione del comando politico all’esigenza di un’uniformeregime fiscale, dalla ridefinizione di molte regole dei commerci, sino (13) alla creazione di un comune modello sociale europeo (14).
E’ chiaro che tutto ciò può essere realizzato con una forte azione politica. Ma il diritto ha un suo ruolo fondamentale nel fissare priorità, limiti e strumenti di azione e la Dichiarazione Universale indica ancora la direzione.

4. La dichiarazione universale e la promessa di effettività dei diritti

La Carta ONU sin dal 1948 si preoccupa di affermare (nell’art. 8) che ogni diritto deve essere munito di effettività tramite una tutela sostanziale e questo monito è stato ripreso da tutte le Carte fondamentali del novecento. Nella Convenzione europea dei diritti fondamentali ( CEDU) del 1950 (che ha ora 47 Stati aderenti) l’art. 13 riprende quel principio. La Carta dei diritti fondamentali del 2000, resa pienamente efficace dal Trattato di Lisbona del 2009, ripete questa esigenza di effettività nell’art. 47. Non solo.
La nostra Corte costituzionale ha riconosciuto di recente che la corretta applicazione degli art.2 e 24 della Carta fondamentale esige la piena effettività dei diritti riconosciuti dalla legge ed ha disapplicato una norma consuetudinaria internazionale che attribuiva agli Stati un’immunità per i crimini di guerra, riconoscendo, così, un risarcimento ad un internato nei lager nazisti.
Le Corti europee di Lussemburgo e di Strasburgo hanno assicurato tale effettività ai diritti fondamentali riconosciuti dalle Carte e la giurisprudenza in Europa ha svolto una funzione altrettanto efficace per la tutela sostanziale di ogni diritto (15).
Dunque la pretesa ad una tutela effettiva voluta dalla Carta ha trovato nei giudici e nelle sentenze strumenti di tutela sostanziale, ma quella pretesa ha anche altri destinatari chiamati a far coincidere la forma con la sostanza.
Il legislatore (1 e 117 cost) e una Scienza libera (33 cost). Poteri e Istituzioni tutti chiamati al rispetto di norme costituzionali interne e sovranazionali. Basta qui qualche cenno.
Il potere legislativo senza una cornice di regole costituzionali scivola nell’arbitrio. Di più. Rischia di far coincidere legalità e legittimità appiattendo l’una qualità sull’altra sino a divenire forza senza legittimità. Questo sta accadendo nell’azione politica sovranista che si reputa svincolata dalle forme e soggetta solo al popolo. Spetta a tutti esigere il rispetto delle garanzie fondamentali e la scienza giuridica ha il compito preciso di far valere la sua voce nel modo più forte ed efficace.
La cultura e una società civile vigile deve sollecitare una mobilitazione capace di fissare le priorità di un processo democratico, tramite appunto la pretesa all’effettività. La quale indirizza verso tutele adeguate ad un ordine fondato su norme pensate come un antidoto all’astrattezza e capaci di arricchire gli obblighi positivi degli Stati e favorisce l’attuazione e l’evoluzione delle forme, come mostra con chiarezza la giurisprudenza europea (16).
Le sfide attuali sono evidenti. Ne indico tre.
La ripetuta esigenza di simmetria fra diritti e doveri non fa fare nessun passo avanti ma serve, molto spesso, solo come abili per ridurre la tutela dei diritti sociali. L’idea che i diritti siano condizionati alle esigenze di bilancio ha condotto alle politiche di austerità e alla modifica dell’art.81 della Costituzione, ma va superata Nell’uso delle risorse disponibili deve esistere una priorità per i diritti fondamentali e non una loro riduzione. Il diritto ad un esistenza libera e dignitosa è il fulcro della nostra Cotituzione ( art. 36),ad esso va data una effettività spesso gravemente elusa. Le modalità devono essere individuate bilanciando il diritto/dovere al lavoro con l’inclusione e la dignità di ogni persona (17).
Ciò che accadrà ce lo diranno i mesi e gli anni a venire. Ma è certo che queste sfide esigono un forte impegno dei movimenti e dei partiti della una sinistra democratica in Italia e in Europa.

 

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Note:

(1) J-W. Muller, L’enigma democrazia. Le idee politiche nell’Europa del Novecento, Torino, 2012, p. XV ss.

(2) J-W. Muller, L’enigma democrazia. Le idee politiche nell’Europa del Novecento, op.cit. p. XV ss.

(3) Così  E.Balducci, La lunga marcia dei diritti dell’uomo, Testimonianze, n326, 1990 p, 15 ss.

(4) Sul punto v. ancora  E.Balducci, La lunga marcia dei diritti dell’uomo, op.ci. p, 15 ss

(5) Così ancora E.Balducci, op. loc. cit.

(6) Della Porta, Politica progressista, cit., p. 45.

(7) Della Porta, Politica progressista, cit., p. 47.

(8) Della Porta Social Movements in Times of Austerity: Bringing Capitalism Back Into Protest Analisys, Polity, Cambridge, 2015 e Ead., Politica progressista, cit., p. 50, dove il richiamo alla definizione a Peter Glotz sulla “società dei due terzi”.

(9) Roberts, Populism and Social Movements, in (eds) Della Porta, Diani, Oxford Handbook on Social Movements, Oxford, 2015, pp. 681-682.

(10) Della Porta, Politica progressista, cit., 56.

(11) Ead., Democracy in Social Movement, London, 2009; Ead., Politica progressista, cit., pp. 55-58, dove si afferma che si fa “sempre più fatica a mobilitare le masse con gli appelli neoliberistici del centro-sinistra, che è a tutti gli effetti il grande sconfitto politico degli eventi recenti” mentre si consolida la sinistra radicale. Sicché “affrontare queste sfide richiede senza dubbio pazienza, ma impone anche la creazione di spazi di incontro e di apprendimento attivo, attraverso le pratiche della lotta, come avveniva nei movimenti progressiste del passato”.

(12) Stolzi, Politica sociale e regime fascista:un’ipotesi di lettura, in Quaderni fiorentini, 2017, p. 241.

(13) Habermas, Si può ancora fare politica contro le false idee sull’Europa, in La Repubblica, 28 ottobre 2017.

(14) S.Giubboni, Stato sociale e integrazione europea: una rivisitazione teorica, in Quaderni fiorentini, 46, I, Milano 2017, p, 553 ss.

(15) Mi permetto il richiamo a G.Vettori, Effettività delle tutele, in Enc.dir., Annali, X, Milano 2017, p.381 ss.

(16) V. ancora G.Vettori, op. cit. p.387 ss.

(17) Th. Casadei, Oltre lo Stato sociale? Il dibattito di lunga durata sul “reddito di cittadinanza”, in Quaderni fiorentini, 46,I,Milano, 2017, p.141 ss.

 

 

 

 

 

 

 

 

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