Le Sezioni Unite, chiamate a risolvere una «questione di massima di particolare rilevanza», si pronunciano sulla natura giuridica della divisione, rivisitando le concezioni giuridiche tradizionali.
La vicenda trae impulso dalla richiesta, da parte della curatela fallimentare di uno dei coeredi, di una divisione ereditaria, in via giudiziale, di una comunione nascente da una successione legittima, avente a oggetto la proprietà su un fabbricato abusivo. La domanda è stata respinta dai giudici di merito, sia di primo sia di secondo grado, in quanto essi hanno ritenuto che la divisione ereditaria fosse annoverabile tra gli atti inter vivos – per cui sono necessarie le menzioni urbanistiche – e non mortis causa, per i quali invece è possibile l’esenzione dalle dichiarazioni edilizie; pertanto, lo scioglimento della comunione ereditaria non poteva essere disposto, dacché l’immobile era stato costruito in assenza di concessione edilizia. Inoltre, hanno sostenuto che la divisione non rientrasse tra gli atti per i quali è possibile applicare le esenzioni, dalle prescritte dichiarazioni, previste dal comma 5° dell’art. 46 D.p.r. 380/2001 e 40 L. 47/85; giacché, da una parte, nella locuzione «atti derivanti da procedure esecutive immobiliari» rientrerebbero solo le vendite esecutive, e non lo scioglimento di comunioni, perché atto autonomo rispetto al processo di esecuzione; dall’altra, tale esonero costituirebbe norma eccezionale, insuscettibile di interpretazione estensiva o analogica.
Il Primo Presidente rimette gli atti alle Sezioni Unite, ponendo principalmente due questioni di diritto. Con la prima si chiede se gli atti di scioglimento delle comunioni siano ricompresi tra gli atti tra vivi, per i quali l’art. 40, comma 2, L. 47/1985, commina la sanzione della nullità al ricorrere delle condizioni ivi previste. Con la seconda, si chiede se la divisione ereditaria sia un atto inter vivos, al pari della divisione ordinaria, e come tale soggetta alla nullità urbanistica, al ricorrere dei presupposti di legge; oppure un atto mortis causa, per il quale non sono necessarie le dichiarazioni edilizie.
Riguardo alla prima domanda, i dubbi si pongono poiché la norma non prevede esplicitamente «lo scioglimento delle comunioni»; e ciò a differenza dell’art. 17 della stessa L. 47/85, sostituito dall’art. 46 del T.U. sull’Edilizia, nei quali vi è indicata testualmente la “divisione”.
In merito, nonostante il dato letterale, i giudici ritengono che la divisione sia compresa all’interno del campo di applicazione dell’art. 40, 2° comma, L. 47/85, e pertanto sia inclusa tra gli atti per i quali sono necessarie le menzioni urbanistiche. Ciò in quanto il Legislatore ha utilizzato una formula ampia e, sia sul piano della interpretazione letterale (logico-semantica) sia della interpretazione teleologica, le divisioni non si possono ritenere escluse dall’ambito di applicazione della norma; quest’ultima risulta comprensiva di tutti gli atti inter vivos aventi a oggetto diritti reali relativi ad edifici, qualunque effetto giuridico abbiano, eccettuati solo gli atti espressamente esclusi.
Quanto alla seconda problematica, si precisa, anzitutto, che la natura della divisione ereditaria, quale atto tra vivi o a causa di morte, è estremamente rilevante, giacché le menzioni urbanistiche – sia in relazione alla L. 47/85 sia in riguardo al D.p.r. 380/2001 – sono richieste solo per gli atti inter vivos, e non per quelli mortis causa o per quelli, comunque, non autonomi rispetto al fenomeno successorio (oltre alle altre eccezioni previste dalla legge).
Sul punto, la Cassazione in passato ha più volte ritenuto che la divisione ereditaria fosse un negozio equiparabile a un atto mortis causa, in quanto conclusivo della vicenda successoria e, dunque, non autonomo rispetto alla successione. (Cass. 15133/2001; 2313/2010).
Le argomentazioni a supporto di questa tesi venivano essenzialmente ricondotte, da un lato, all’art. 757 cod. civ., che assegna efficacia retroattiva, al momento dell’apertura della successione, alle attribuzioni scaturenti dall’atto divisionale, come se ciascun singolo erede acquistasse direttamente dal de cuius, e non dagli altri condividenti, e la comunione non fosse mai medio tempore esistita. Dall’altro, si è ritenuto che, se non si considerasse la divisione ereditaria un atto mortis causa, si avrebbe una disparità di trattamento con la divisione testamentaria (art. 734 cod. civ.): in questa ultima ipotesi, il testatore potrebbe attribuire all’erede un diritto su un bene abusivo, senza che rilevi la disciplina urbanistica; mentre, irragionevolmente, nel caso della divisione da parte degli eredi, non si potrebbero assegnare diritti su beni abusivi. Conseguentemente, si deduce che la divisione non ha efficacia traslativa, ma ha natura puramente dichiarativa (Cass. 9659/2000; 7231/2006; 17061/2011; 26351/2017). Pertanto, tali atti di scioglimento dovrebbero ritenersi esclusi dalla applicazione della normativa urbanistica, la quale prescrive l’obbligo di menzione solo per gli atti inter vivos.
I giudici di legittimità, nella loro più autorevole composizione, evidenziano, anzitutto, che – sebbene la comunione ereditaria abbia delle peculiarità rispetto alla comunione delle cose comuni – la diversità di origine della comunione non muta la natura e gli effetti del fenomeno divisorio, che è da considerarsi sempre unitario, come si può evincere anche dall’art. 1116 cod. civ., che estende l’applicazione delle norme sulla divisione dell’eredità alla divisione ordinaria.
Ciò premesso, per quanto concerne la presunta natura di atto mortis causa della divisione ereditaria, si nota che il contratto di divisione produce i suoi effetti in ragione della volontà degli eredi, e non in forza della apertura della successione o della volontà del de cuius. La circostanza che un negozio si inserisca nella vicenda successoria non implica che esso debba essere qualificato necessariamente mortis causa. Invero, una volta che la successione si è perfezionata con le accettazioni dell’eredità da parte dei delati, il fenomeno successorio si è esaurito, rimanendo a esso estranee le vicende negoziali successive. Pertanto, l’atto di scioglimento della comunione ereditaria costituisce un negozio inter vivos, allo stesso modo della divisione ordinaria.
Quanto alla supposta disparità con la divisione testamentaria, si dà atto che, in tale ipotesi, non sorge alcuna comunione ereditaria all’apertura della successione, giacché la divisione tende proprio a evitare l’instaurarsi della comunione; oltre al fatto che, a differenza dell’altra, essa costituisce necessariamente un atto mortis causa, in quanto proviene direttamente dalla volontà del testatore.
Quanto alla retroattività, si ritiene che sostenere la natura dichiarativa della divisione in ragione della retroattività, confonde l’efficacia “legale” dell’atto (retroattiva), con la natura dell’atto stesso (costitutiva-traslativa). Invero, quanto alla vis retroactiva, essa opera solo sul piano dell’effetto distributivo proprio della divisione (il c.d. “apporzionamento”), ossia solo per quanto riguarda l’acquisto della titolarità dei beni assegnati; ma essa non cancella gli altri effetti della comunione e le situazioni attive e passive acquisite dal condividente o dai terzi durante lo stato di comunione. Quanto alla natura dell’atto, seppur sul piano economico lo scioglimento della comunione non comporti alcun incremento, sul piano giuridico, nella divisione vi è un effetto costitutivo, sostanzialmente traslativo, perché ogni condividente perde la (com)proprietà sul tutto (che prima aveva) e acquista la proprietà individuale ed esclusiva sui beni a lui assegnati (che prima non aveva).
Si evidenzia, inoltre, che la retroattività non collide con la natura costitutiva dell’atto, bensì è solitamente sempre connessa a una fattispecie costitutiva, e mai dichiarativa: non possono retroagire gli effetti di un atto che si limita a dichiarare o accertare la situazione giuridica già esistente.
Infine, i giudici, sul piano interpretativo, precisano che il legislatore, quando ha voluto, ha escluso la divisione ereditaria dalle prescrizioni urbanistiche normalmente necessarie, come è stato, infatti, nell’art. 30 del T.U. Edilizia. Se ciò non è stato ripetuto nell’art. 46 del medesimo decreto, significa che opereranno i principi generali: ossia, che la menzione urbanistica sia necessaria.
A questo punto, i giudici estendono i risultati raggiunti anche alla divisione giudiziale, in quanto la regolarità edilizia del fabbricato costituisce condizione dell’azione sotto il profilo della “possibilità giuridica”; nonché ammettono una divisione ereditaria parziale (anche giudiziale), con il consenso di tutti i condividenti (come si evince dall’art. 762 cod. civ.), ma anche senza il consenso unanime ove si richieda giudizialmente lo scioglimento della comunione escludendo fabbricati abusivi.
Come ultimo punto, la Corte ritiene che la divisione, quando è disposta in una procedura esecutiva immobiliare – sia endoesecutiva, se espropriazione individuale, sia endoconcorsuale, se procedura concorsuale –, vada ricompresa tra gli atti sottratti alla comminatoria di nullità di cui al comma 5 dell’art. 46 D.p.r. 380/2001 e dell’art. 40 L. 47/85. Tra le varie argomentazioni a sostegno, si richiama la speciale legittimazione ad agire per lo scioglimento della comunione che è riconosciuta al creditore procedente; nonché si fa leva sul nuovo testo dell’art. 600 cod. proc. civ., per il quale il giudizio divisorio è la via ordinaria, indicata dalla legge, per attuare l’espropriazione dei beni indivisi. Quindi, la divisione del bene è strutturalmente funzionale all’espropriazione forzata della quota e dunque rientra tra gli «atti derivanti da procedure esecutive». Inoltre, si precisa che le norme inerenti all’esenzione in oggetto non possono definirsi eccezionali, in quanto sono dettate per la medesima ratio per cui è prevista la invalidità, dacché prevedere in tale ipotesi una nullità finirebbe per avvantaggiare il proprietario, anziché i creditori. Né derogano ai principi generali dell’ordinamento, poiché la possibilità di espropriare i fabbricati abusivi è coerente con i principi della Carta Costituzionale (artt. 3 e 24 Cost.).
In conclusione, le Sezioni Unite ritengono che la divisione – ordinaria ed ereditaria, anche giudiziale – sia un negozio inter vivos, costitutivo, sostanzialmente traslativo, e come tale rientrante tra quelli in cui la normativa edilizia richiede le dichiarazioni urbanistiche, a pena di nullità; tuttavia, ove si tratti di una divisione disposta nell’ambito di procedure esecutive immobiliari, lo scioglimento delle comunioni rientra nell’esenzione, dalle menzioni urbanistiche, dettata del 5° comma degli artt. 46, D.p.r. 380/2001 e 40 L. 47/85.
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