ISSN 2239-8570

La rilevanza giuridica della volontà sulla fine della vita non formalizzata nel testamento biologico, di Antonio Gorgoni

Ricercatore di Diritto Privato – Università di Firenze

Cass., 16 ottobre 2007, n. 21748 

La Cassazione, con la sentenza 16 ottobre 2007, n. 21748[1], affronta, con rigore ermeneutico, il problema del valore delle decisioni sulla fine della vita assunte dal soggetto quando era capace di intendere e di volere e non formalizzate nel “testamento biologico” (o “di vita”)[2].Il dubbio sull’irrilevanza della volontà espressa oralmente prima del fatto invalidante nasce dal principio di intangibilità della vita umana, principio che diviene ancora più pregnante quando il soggetto non può più ribadire il rifiuto ad un trattamento che lo mantiene in vita[3]. Sembra agevole ritenere, infatti, che nell’incertezza sull’attuale volontà del paziente il quale, con il passare del tempo, potrebbe aver ritrattato l’iniziale rifiuto, il medico sia obbligato a proseguire le tecniche salva vita.Il Supremo Collegio dimostra, invece, penetrando l’essenza di principi fondamentali quali il consenso informato e la dignità, che il rifiuto delle cure o delle pratiche mediche anche quando cagioni la morte, è assistito da una solida base giuridica, smentendo così l’idea, sostenuta da qualche tribunale[4], del vuoto normativo. La sentenza, dunque, è importante e coraggiosa in quanto chiarisce che è sempre il paziente, con la sua volontà, a governare il rapporto con il medico anche quando, a causa di una malattia o di un trauma, non è più padrone del proprio corpo[5].Prima di esaminare i passaggi più significativi della motivazione è utile ricordare la vicenda. Una giovane donna, in seguito ad un incidente stradale avvenuto nel 1992, riportava un grave trauma cranico-encefalico che determinava l’insorgere dello stato vegetativo permanente. La vittima, prima del fatto invalidante, non aveva espresso per iscritto la propria volontà in ordine ai trattamenti medici che avrebbe desiderato ricevere ove si fosse trovata in stato di totale ed irreversibile incoscienza; essa, tuttavia, secondo il tutore, nominato in seguito all’interdizione, aveva manifestato oralmente, in più occasioni, la propria contrarietà ad un’esistenza in stato di incoscienza.Il caso solleva due questioni: in primo luogo se il tutore possa esprimere, in virtù del potere di cura dell’incapace[6], il consenso all’interruzione dell’idratazione e dell’alimentazione artificiale, previa autorizzazione giudiziale, ed inoltre se quest’ultima possa essere concessa sulla base della prova, fornita dal legale rappresentante, del rifiuto dell’alimentazione forzata espresso dalla paziente prima che insorgesse lo stato vegetativo permanente. Il Supremo collegio si pronuncia positivamente su entrambi gli interrogativi, ma è sulla risposta al secondo di questi che interessa concentrare l’attenzione. Il fulcro dell’argomentazione a sostegno sta nella rilevanza giuridica del consenso informato, principio che ha “come correlato non solo il diritto di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di rifiutare eventualmente la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale”. Questo principio opera – e qui si riscontra la novità della sentenza – anche quando la volontà del paziente, sui tipi di trattamento che non vuole, è stata espressa nel passato[7].Il problema, allora, nel caso di specie, consiste nel risalire all’opinione che il paziente aveva in merito ad un’esistenza vissuta in stato vegetativo permanente, e segnatamente nel capire se egli la riteneva meritevole ovvero contraria alla propria percezione della dignità umana.E’ evidente l’estrema delicatezza di quest’operazione conoscitiva, la quale deve giungere, per il principio di salvaguardia della vita umana, ad un esito che non lasci alcun dubbio circa la volontà pregressa del paziente o, come si esprime la Cassazione, circa “la sua autentica e genuina voce”.La difficoltà si incontra nel ricostruire, in modo “chiaro, univoco e convincente” – così si legge della sentenza – l’opinione che il rappresentato aveva della vita in stato di incoscienza, in modo da far emergere l’identità del paziente, “il suo modo di concepire… l’idea stessa di dignità della persona”[8], essendo, al contrario, irrilevante, il giudizio che il tutore ha sulla condizione di chi si trovi in stato vegetativo permanente. Occorre provare, continua la sentenza, la volontà presunta del paziente tenendo conto dei suoi “precedenti desideri e dichiarazioni” non scritte, ma anche inferendo tale volontà “dalla personalità, dallo stile di vita, dalle inclinazioni, dai valori di riferimento, dalle convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche” e dai convincimenti sulla vita incosciente[9].Si tratta, dunque, continua la Suprema Corte, di ricostruire, dalle dichiarazioni e dalla personalità del paziente, la decisione ipotetica che questi avrebbe assunto ove fosse stato capace, ripristinando così il rapporto con il medico che, per essere legittimo, deve essere governato in ogni sua fase dal consenso. Quest’ultimo, tuttavia, non può essere desunto sulla base della condizione pietosa in cui si trovi la persona (ad es.: di stato vegetativo permanente o di incurabilità della malattia), perché, se così fosse, la morte procurata con l’interruzione del trattamento medico avverrebbe per volontà altrui[10] e non del paziente[11].L’accertamento della volontà contraria a vivere in stato di incoscienza non è, tuttavia, sufficiente a giustificare l’interruzione dell’alimentazione forzata. Deve sussistere anche, secondo la Cassazione, l’ “irreversibilità dello stato vegetativo permanente” secondo standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, irreversibilità tale da escludere la minima possibilità di un recupero della coscienza. Due presupposti sono, pertanto, necessari affinché l’interruzione dell’idratazione e dell’alimentazione artificiale possa essere effettuata: la volontà inequivocabile del paziente e l’irreversibilità dello stato vegetativo permanente.Si può osservare che l’aver attribuito rilievo preminente alla volontà dell’interessato nella scelta riguardante la fine della propria vita ha rappresentato il vero punto di svolta in un ambito così delicato in cui il volere del paziente necessita, per potersi realizzare, della collaborazione del medico. Gli effetti positivi di quest’impostazione emergono sotto molteplici profili che si andranno brevemente ad esaminare.Innanzi tutto, il fatto che la ratio decidendi sia stata correttamente incentrata sul consenso del paziente alle pratiche mediche ha permesso di superare quelle ricostruzioni giudiziarie fuorvianti che hanno legato, in ogni caso, l’interruzione dell’idratazione e dell’alimentazione artificiale alla qualificazione di tale pratica[12]. E’ di tutta evidenza, invece, che quando sussiste il rifiuto delle cure, espresso o ricostruito valutando i predetti elementi, è irrilevante conoscere se l’alimentazione forzata sia un trattamento medico (in quanto tale suscettibile di originare accanimento terapeutico), oppure un trattamento vitale di base sempre dovuto “giuridicamente, deontologicamente ed eticamente”[13]. Piuttosto, il rifiuto delle cure, anche se ricostruito dal rappresentante legale, impedisce al medico di intraprendere o di proseguire qualsiasi iniziativa riguardante il corpo del malato[14], in quanto, altrimenti, egli viola la sfera corporea del soggetto.Il consenso informato, che costituisce la legittimazione e il fondamento del trattamento medico-chirurgico (voluntas aegroti suprema lex), ha, per la sentenza in esame, i propri riferimenti giuridici nella Costituzione (artt. 2, 13 e 32), in numerose leggi speciali a partire dalla legge n. 833/1978 istitutiva del servizio sanitario nazionale (art. 33), nel codice di deontologia medica (art. 35), ma anche nella Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e la biomedicina (art. 5) e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 3). Nella sentenza, infatti, il consenso informato è definito “diritto fondamentale del cittadino europeo”.Anche la giurisprudenza, da parte sua, ricorda sempre la Cassazione, ha valorizzato il consenso informato, condannando il medico che aveva effettuato un intervento senza aver prima fornito un’informazione completa. Vi sono, infatti, numerose pronunce[15] in cui si è ritenuto insussistente il consenso qualora l’informazione sulla natura e sulle modalità dell’intervento, nonché sulle possibilità e probabilità dei risultati conseguibili, sia mancata o sia stata parziale. In questi casi è del tutto irrilevante la perfetta riuscita dell’intervento chirurgico; il paziente, infatti, avrà ugualmente diritto al risarcimento del danno poiché questo coincide, in tale fattispecie, con l’ “antigiuridicità in se stessa della condotta”[16].E’ evidente allora che se il medico viola la legge qualora intervenga su un paziente non informato, quindi impossibilitato a scegliere consapevolmente, parimenti accade qualora il medico decida di non rispettare la volontà del paziente di interrompere i trattamenti in atto. Il medico compie, in entrambi i casi, un atto illegittimo perché opera in assenza del consenso, presupposto della sua attività.Può, tuttavia, ugualmente insorgere il dubbio che il medico incorra in responsabilità penale se, a seguito dell’interruzione del trattamento, il paziente muoia. Anche su quest’aspetto la sentenza in commento fa chiarezza distinguendo opportunamente tra eutanasia[17] e rifiuto delle cure.La prima consiste in “un comportamento che intende abbreviare la vita causando positivamente la morte”. Il medico, con un proprio comportamento attivo, interrompe il nesso causale tra la malattia e la morte cagionando il decesso del paziente (c.d. eutanasia pietosa attiva). Questa condotta, caratterizzata dal movente altruistico della compassione per le sofferenze altrui, integra, in presenza del consenso della vittima, il reato di omicidio del consenziente (art. 579 c.p.)[18].Il rifiuto delle cure o del trattamento vitale esprime, invece, la “scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale”[19]. Il medico, pertanto, se interrompe l’alimentazione forzata non anticipa con un suo atto il momento della morte, ma si astiene doverosamente da una pratica che il malato non vuole più. Doverosamente perché l’obbligo di cura si fonda sul consenso, pertanto, in assenza di questo, non sorge alcun obbligo a carico del medico, il quale non è responsabile della morte per omessa cura (art. 40 co. 2 c.p.).Occorre allora abbandonare l’espressione “eutanasia indiretta omissiva” (o “eutanasia passiva consensuale”) perché “equivoca e fuorviante”[20] in quanto altera la sostanza delle cose. Ci troviamo in realtà di fronte – come ha chiarito la Cassazione – al rifiuto delle cure[21] che, in quanto correlato al principio del consenso e di autodeterminazione in ordine agli interventi altrui sul proprio corpo, è legittimo e deve essere rispettato dal medico.Non può sfuggire, tuttavia, la maggiore delicatezza del caso in cui il medico si confronti con una volontà non scritta ma soltanto riferita dal rappresentante legale, rispetto a quello in cui il paziente, pienamente capace di intendere e di volere, rifiuti le cure o i trattamenti medici[22]. Nel primo occorre accertare l’esistenza della volontà del paziente, espressa quando era capace legale, contraria a ricevere il trattamento salva vita e dimostrare che tale volontà era autentica, ossia consapevole, ponderata, ferma e non, invece, espressa sotto l’influenza di paure o a causa di reazioni istintive di fronte a certi accadimenti[23].E’ evidente l’estrema difficoltà di questa prova; tuttavia, non si deve escludere a priori la possibilità che essa sia raggiunta, altrimenti si finisce per ammettere trattamenti medici non voluti dal paziente, in aperto contrasto con il principio del consenso. Ciò non significa certamente che una pratica salvavita possa essere interrotta qualora sussista il dubbio, anche minimo, sulla volontà del paziente perché, in tale ipotesi, deve operare il principio in dubio pro vita. Come affermato dalla Cassazione, la volontà della persona, espressa prima di perdere coscienza, deve essere “chiara, univoca e convincente”[24]. Caratteri, questi, che non possono dirsi esistenti ove residui nel giudice, chiamato ad autorizzare il rappresentante legale a prestare il consenso all’interruzione del trattamento, una sia pur piccola incertezza sulla reale volontà dell’infermo.La Cassazione, in conclusione, ha correttamente fatto emergere il valore vincolante della volontà della persona di determinare la fine della propria vita con il rifiuto delle cure o delle pratiche mediche, senza, tuttavia, aprire una breccia nel principio di salvaguardia della vita umana. Si è riusciti così ad avvicinare il diritto al cittadino debole, e ciò porta a condividere il giudizio del Prof. Rodotà secondo il quale la sentenza n. 21748/2007 “è esemplare: per la capacità di leggere il diritto per quello che è, e non per quello che si vorrebbe che fosse o non fosse; per il rigore dell’argomentazione; per l’assunzione di responsabilità propria del giudice che, di fronte a questioni difficili, non le sfugge, rifugiandosi in artificiose costruzioni e negando così quella giustizia che i cittadini chiedono[25].


[1] Pubblicata su Guida al dir., 2007, n. 43, p. 29 ss., con commento di G. M. Salerno, riguardante il noto caso Engalro. I precedenti sono: Trib. Lecco, 2 marzo 1999; App. Milano, 31 dicembre 1999, in Foro it., 2000, I, c. 2022 ss., con note di G. Ponzanelli, Eutanasia passiva: sì se c’è accanimento terapeutico, e di A. Santosuosso, Novità e remore sullo stato vegetativo permanente; Trib. Lecco, 15 luglio 2002; App. Milano, 17 ottobre 2003, in Familia, 2004, p. 1167 ss., con nota di G. Ferrando, Stato vegetativo permanente e trattamenti medici: un problema irrisolto; Cass., ord. 20 aprile 2005, n. 8291, in Fam. e dir., 2005, 5, p. 581 ss., con nota di G. Cassano, Scelte tragiche e tecnicismi giuridici: ancora in tema di eutanasia; Trib. Lecco, 20 dicembre 2005, in Nuova giur. civ. comm., 2006, p. 470 ss. (e ivi anche Cass., n. 8291/2005), con nota di A. Santosuosso e G. F. Turri e App. Milano, 16 dicembre 2006.Quanto alla giurisprudenza straniera si segnalano due interessati casi, il secondo dei quali richiamato dalla sentenza della Cassazione n. 21748/2007 in commento: Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, sent. 25 giugno 1990, in Foro it., 1991, c. 66 (solo massima) con note di A. Santosuosso, Il paziente non cosciente e le decisioni sulle cure: il criterio della volontà dopo il caso Cruzan, e di G. Ponzanelli, Nancy Cruzan, la Corte suprema degli Stati Uniti e il “right to die” e Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, sent., 26 giugno 1997, in Foro it., 1999, c. 76, con nota di G. Ponzanelli, La Corte suprema esclude la garanzia costituzionale del “right to assisted suicide”.

[2] La dottrina preferisce l’espressione “dichiarazioni anticipate di trattamento”, le quali non sono espressamente disciplinate nel nostro ordinamento, pertanto si discute sul loro valore giuridico. Tali dichiarazioni sono contenute in un “documento con il quale una persona, dotata di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidera o non desidera essere sottoposto nel caso in cui, nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso informato” (definizione data da Comitato Nazionale per la bioetica nel documento “Dichiarazioni anticipate di trattamento”, 18 dicembre 2003). La finalità di tale atto è colmare lo iato nel rapporto tra il medico e il paziente, determinatosi a causa della sopravvenuta incapacità dell’individuo. Il punto critico della volontà espressa a distanza di tempo, anche lunga dal fatto invalidante, è la sua possibile non attualità in relazione agli sviluppi, nel frattempo verificatisi, della tecnologia medica o della ricerca farmacologica. Questa circostanza, connaturata al testamento di vita, implica, quale conseguenza necessitata, in prospettiva de iure condendo, che la volontà in esso contenuta non debba essere assolutamente vincolante per il medico. Questi, infatti, non dovrà eseguire meccanicamente i desideri del paziente bensì calarli nel contesto medico-scientifico esistente al momento in cui essi sono destinati a realizzarsi. Qualora siano sopravvenuti fatti che rendano la volontà espressa in passato non più attuale, il medico dovrà disattenderla altrimenti, il rapporto medico paziente, contraddistinto da un dialogo costante ed aggiornato, si altera in senso deteriore, con pregiudizio per la tutela della vita (in tal senso cfr. Corte Suprema tedesca, 18 marzo 2003, citata da S. Patti, La fine della vita e la dignità della morte, in Pers. fam. e success., 2006, p. 395). L’art. 9 Convezione di Oviedo e l’art. 38 u.c. Cdm, sul testamento biologico, introducono, infatti, una “sorta di vincolatività attenuata” (così L. Balestra, Efficacia del testamento biologico e ruolo del medico, in Testamento biologico, Riflessione di dieci giuristi, a cura della Fondazione Veronesi, Milano, 2006, p. 100; per una sintesi sulle tre fasi del dibattito sul testamento biologico cfr. G. Alpa, Il principio di autodeterminazione e le direttive anticipate sulle cure mediche, in Trattato Sacco, Le persone fisiche e i diritti della personalità (di Alpa-Resta), Torino, 2006, p. 243 ss.). Anche il legislatore francese, che con legge 22 aprile 2005, n. 370 (modificativa del Code de la Santé publique e del Code de l’action sociale et des familles) ha introdotto il testamento biologico, non gli ha attribuito un valore assolutamente vincolante; esso costituisce solo uno dei parametri di cui il medico deve tener conto. L’art. 7 stabilisce riferendosi alle “directives anticipées, che “A condition qu’elles aient été établies moins de trois ans avant l’état d’inconscience de la personne, le médecin en tient compte pour toute décision d’investigation, d’intervention ou de traitement la concernant.

[3] Il legislatore italiano ha identificato la morte con la “cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo (art. 1 l. 29 dicembre 1993, n. 578). Di conseguenza la persona in stato vegetativo permanente, che conserva le attività biologiche quali la respirazione, la digestione e il ritmo sonno-veglia, non è giuridicamente morta.

[4] In tal senso cfr.: App. Milano, 31 dicembre 1999, cit.; App. Milano, 17 ottobre 2003, cit. e, sul caso Welby, cfr. Trib. Roma, ord., 16 dicembre 2006, in Fam. e dir., 2007, 3, p. 292 ss., con nota critica di R. Campione, “Caso Welby: il rifiuto di cure tra ambiguità legislative ed elaborazione degli interpreti. In quest’ultima ordinanza si afferma, erroneamente che “in Italia manca una disciplina specifica che dia attuazione al principio di autodeterminazione per la fase finale della vita umana regolamentando il rapporto tra il medico e il paziente”. Questa asserzione non è riferibile anche al rifiuto delle cure.

[5] Il diritto all’integrità fisica (art. 5 c.c. e 32 Cost.), che si esercita anche attraverso il rifiuto delle pratiche mediche, rientra tra i diritti della personalità, quindi in una categoria, prima dottrinale e poi legislativa, che richiama una “particolare tipologia di diritti soggettivi (dotati di caratteristiche tendenzialmente omologhe, come l’assolutezza, l’imprescrittibilità e l’inalienabilità) e…uno specifico modello di tutela civile degli interessi della persona” (cfr. amplius, anche in prospettiva storica, G. Resta, I diritti della personalità nell’ottica del giusprivatista, in Trattato Sacco, cit., p. 361 ss.). Per una prima introduzione alla categoria dei diritti della personalità cfr: D. Messinetti, voce Personalità (diritti della), in Enc. dir., 1983, p. 355 ss.; P. Rescigno, voce Personalità (diritti della), in Enc. giur., 1991, e V. Zeno Zencovich, voce Personalità (diritti della), in Digesto, 1995, p. 430 ss.

[6] Dal combinato disposto degli artt. 424 e 357 c.c. si ricava chiaramente che anche il tutore dell’interdetto ha la cura di quest’ultimo, così come, secondo la dottrina (F. Ruscello, Amministrazione di sostegno e consenso ai trattamenti medici, in Fam. e dir., 2005, 1, p. 87 ss.; U. Roma, Amministrazione di sostegno, cura personae e consenso al trattamento medico, in Fam. e dir., 2007, 7, p.725 ss. e G. Bonilini, L’amministrazione di sostegno, Padova, 2007, p. 204 ss.) e la giurisprudenza prevalente (così anche Cass., n. 21748/2007), l’amministratore di sostegno ha la cura del beneficiario se ha ricevuto tale incarico dal giudice (arg. ex artt. 405 co. 4, 405 co. 5 n. 6, 408 co. 1, 410 co. 1 c.c. e art. 44 disp. att. c.c.). Certamente nel concetto di cura rientra la salvaguardia della salute del soggetto sottoposto a misura di protezione, ma se non si è dubitato che il tutore (o l’amministratore di sostegno) possa esprimere il consenso informato, previa autorizzazione giudiziale, ad operazioni chirurgiche o a terapie mediche quando il rappresentato non sia in grado di esprimerlo validamente a causa del proprio handicap, sono sorte incertezze, invece, sulla legittimità del consenso del legale rappresentante all’interruzione di un trattamento vitale qual è l’idratazione e l’alimentazione artificiale. Su quest’ultimo punto si è pronunciato il tribunale di Lecco, decr. 2 febbraio 2006, cit., il quale ha dichiarato inammissibile il ricorso diretto ad ottenere l’autorizzazione giudiziale, in quanto il consenso all’interruzione dell’alimentazione forzata è un “atto personalissimo” e, in quanto tale, non suscettibile di essere prestato dal tutore né dal curatore speciale. Oltretutto, continua il Tribunale, gli atti personalissimi che ammettono una sostituzione sono tassativamente indicati dalla legge (ad es. artt. 119, 245, 264 co. 2, 273 e art. 13 l. n. 194/1978). La soluzione del tribunale non è condivisibile perché determina una disparità di trattamento, incostituzionale per violazione del principio di uguaglianza, tra il paziente capace di agire, che può rifiutare la cura, e chi è interdetto il quale resterebbe soggetto alla volontà del medico. E’ solo attraverso l’esercizio del potere di cura, comprensivo anche della possibilità di rifiutare cure o trattamenti medici, che l’incapace può realizzare il diritto fondamentale a non essere sottoposto ad atti medici indesiderati, realizzando così la propria idea di vita dignitosa (cfr. le perspicue considerazioni di A. Santosuosso, cit., p. 482-483, che slega i diritti personalissimi dal limite del potere rappresentativo per connetterli al potere di cura). Il problema sta, come vedremo, nella difficoltà e delicatezza della ricostruzione, ad opera del tutore e del curatore speciale (dato il potenziale conflitto di interessi tra il primo e il rappresentato), della volontà del rappresentato. La Cass. in commento, giustamente, non accoglie la tesi del tribunale di Lecco e ritiene, in base al “principio di parità di trattamento tra gli individui, a prescindere dal loro stato di capacità”, che il curatore speciale possa esprimere il consenso all’interruzione dell’alimentazione forzata. Trae argomento, tra le varie norme, anche della Convenzione di Oviedo del 4.4.1997, (la cui ratifica è stata autorizzata dalla l. n. 145/2001, ma attualmente manca il deposito degli strumenti di ratifica), la quale, secondo la Cass., oltre ad avere “una funzione ausiliaria sul piano interpretativo” delle norme di diritto interno, contiene principi già penetratati nel nostro ordinamento. L’art. 6 co. 3 della Convenzione stabilisce che “Quando, secondo la legge, un maggiorenne non ha, a causa di un handicap mentale, di una malattia o per un motivo similare, la capacità di dare il consenso ad un intervento, questo non può essere effettuato senza l’autorizzazione del suo rappresentante, dell’autorità o di una persona o di un tutore designato dalla legge”. Nel rapporto esplicativo alla Convenzione, si dice, come ricorda la stessa Cass., che l’espressione “per un motivo similare” fa riferimento agli stati comatosi “in cui il paziente è incapace di formulare i propri desideri o di comunicarli”.

[7] Sul rilievo giuridico della volontà manifestata in un momento diverso da quello in cui insorge il bisogno di cure cfr. le considerazioni di S. Rodota’, Tecnologie e diritti, Bologna, 1995, p 169 ss.

[8] Nella sentenza in commento c’è un altro passaggio significativo sulla dignità, considerata dalla dottrina valore-principio cardine del sistema italiano (artt. 3 co. 1, 36 co. 1, 41 co. 2 Cost.) ed europeo (art. 1 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), che dimostra come essa possa fungere da strumento volto ad ampliare e a consolidare l’autodeterminazione del soggetto sulla fine della via, così da far emergere l’identità della persona. La Cass. afferma, infatti, che deve essere rispettata la posizione di chi, “legando indissolubilmente la propria dignità alla vita di esperienza e questa alla coscienza, ritiene che sia assolutamente contrario ai propri convincimenti sopravvivere indefinitamente in una condizione di vita priva della percezione del mondo esterno”. La dignità, quindi, in questo caso, specifica il principio del consenso ai trattamenti medici, nel senso che questo può riguardare anche l’interruzione di pratiche essenziali per restare in vita, confermandone conseguentemente il valore giuridico (già S. Rodota’, op loc. cit., aveva affermato che “il riconoscimento della vita, come valore fondamentale, non può essere disgiunto dall’attenzione rivolta all’atro valore guida in questa materia, quello della dignità umana”). Per un’interessante analisi sul modo in cui la dignità può essere ricostruita [secondo il modello “soggettivo” – dove la dignità non può circoscrivere la libertà del soggetto – o “inderogabile e oggettivo” – dove la salvaguardia della dignità è principio assoluto che non tollera limitazioni neppure da parte del suo titolare (così la giurisprudenza tedesca e francese) – ] cfr: G. Resta, La disponibilità dei diritti fondamentali e i limiti della dignità (note a margine della Carta dei diritti, in Riv. dir. civ., 2002, II, p. 801 ss.; G. Vettori, Diritto dei contratti e “Costituzione” europea. Regole e principi ordinanti, Milano, 2005, p. 29 ss. e G. Alpa, La persona nella dimensione costituzionale, in Trattato Sacco, cit., p. 155 ss.

[9] Nella Raccomandazione del Consiglio d’Europa, n. 1418, adottata il 25/6/1999, non si esclude che il rappresentante legale possa esprimere il rifiuto dei trattamenti medici, purché sia assicurato che egli “non assuma, in luogo dell’interessato, decisioni fondate su dichiarazioni precedenti del paziente o su presupposti di volontà che questi non abbia mai espresso direttamente o chiaramente” (corsivo mio).

[10] L’eutanasia passiva non consensuale integra il reato di omicidio, anche se il medico ha soltanto anticipato di poco la morte, in base alla regola secondo cui non impedire la morte per omissione delle cure equivale, ai sensi dell’art. 40 co. 2 c.p., a cagionarla. 

[11] La prova è certamente difficilissima ma non diabolica perché, se fondata sulla molteplicità degli elementi indicati dalla Cassazione, può consentire il raggiungimento di conclusioni univoche.

[12] App. Milano, 31 dicembre 1999, cit.

[13] Il Comitato nazionale per la bioetica ha ritenuto, nel parere L’alimentazione e l’idratazione di pazienti in stato vegetativo permanente, 30 settembre 2005, che tale l’alimentazione forzata deve essere considerata un trattamento vitale di base e non un trattamento medico in senso stretto. Di conseguenza essa, per il CNB, non può determinare accanimento terapeutico, tant’è che l’organismo ne ha un beneficio; la sua sospensione darebbe luogo ad “abbandono del malato”. Il parere, tuttavia, è accompagnato da una Postilla critica di M. Barni e da una Nota integrativa di dissenso in cui si dice che l’alimentazione e l’idratazione artificiali sono trattamenti medici che, con il consenso del paziente, e previa apposita sedazione, possono essere interrotti. La Cass., con la sentenza in commento, prende posizione anche su tale questione, affermando che l’idratazione e l’alimentazione artificiali con sondino nasogastrico “costituiscono un trattamento medico”. Questo, tuttavia, “in sé”, non realizza “una forma di accanimento terapeutico”, salvo che l’organismo, nell’imminenza della morte, “non sia più in grado di assimilare le sostanze fornite” ovvero ove subentri “uno stato di intolleranza, clinicamente rilevabile, collegato alla particolare forma di alimentazione.

[14] Naturalmente, afferma la Cassazione, che a fronte del rifiuto della cura da parte del diretto interessato “c’è spazio – nel quadro dell’ ‘alleanza terapeutica’ che unisce il malato e il medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene rispettando i percorsi culturali di ciascuno – per una strategia di persuasione” nel prendere una decisione diversa nell’ottica di una forte solidarietà verso il soggetto debole.

[15] Nell sentenza in commento si richiamano alcune pronunce tra le quali: Cass., 25 novembre 1994, in Foro it., 1995, I, c. 2913, con nota di E. Scoditti, Chirurgia estetica e responsabilità contrattuale; Cass., 15 gennaio 1997, n. 364, in Foro it., 1997, I, 771 con nota di A. Palmieri, Relazione medico-paziente tra consenso «globale» e responsabilità del professionista e Cass., 14 marzo 2006, n. 5444, in Danno e resp., 2006, 5, p. 564 ss. Cfr. anche Trib. Viterbo, 27 settembre 2006, n. 1081, in cui il medico è stato condannato al risarcimento del danno non patrimoniale in quanto l’omessa informazione sulle modalità dell’operazione (la paziente avrebbe avuto un dito mutilato in luogo del dito “a martello”) ha impedito l’esercizio del diritto, costituzionalmente garantito, di scegliere se sottoporsi o meno all’intervento.

[16] Secondo D. Messinetti, Il pluralismo della nozione giuridica di danno (un ritorno all’antigiuridicità della condotta?), Relazione in corso di pubblicazione svolta al Convegno di Siena 19-21 Settembre 2007, “La funzione deterrente della resposnsabilità civile alla luce delle riforme straniere e dei Principles of European Law Tort”, quando vengono lesi valori personali, “il criterio formativo della nozione di danno è, decisamente, quello della antigiuridicità in se stessa della condotta”. In tali casi, la prestazione pecuniaria, diversamente dall’ipotesi in cui il diritto violato può essere ricondotto al suo valore monetario, “può avere solo un significato nascosto, simbolico, indiretto…. Il danno è costituito dal fatto stesso che non sia stato ottemperato l’enunciato prescrittivo della condotta”.

[17] F. Mantovani, voce Eutanasia, in Enc. del dir., 1990, p. 422 ss; F. Romano, L’eutanasia, in Giur. di merito, 1996, p. 28 ss.; F. Giunta, Diritto di morire e diritto penale. I termini di una relazione problematica, in Riv. it di dir. e proc. penale, 1997, 1 p. 125 ss.; Id., Il morire tra bioetica e diritto penale, in Pol. del dir., 2003, 4, p. 553 s; P. Cendon, Prima della morte. I diritti civili dei malati terminali, in Pol. del dir., 2002, 3, p. 361 ss. e F. Vigano’, Esiste un diritto a essere lasciati morire in pace? Considerazioni in margine al caso Welby, in Dir. penale e proc., 2007, 1, p. 46 ss.

[18] Nel nostro ordinamento, l’eutanasia pietosa attiva consensuale è, nonostante la presenza del consenso, illecita (art. 579 c.p.). A favore di questa soluzione cfr. le considerazioni (di principio, di ordine pratico e di opportunità) svolte lucidamente da F. Mantovani, cit., p. 426-427. Di diverso avviso è, invece, F. Romano, op. loc. cit., il quale auspica una regolamentazione normativa sul tipo di quella vigente in Olanda la quale indica una serie di requisiti in base ai quali il medico che pratica l’eutanasia viene considerato non punibile.L’eutanasia attiva può essere anche non consensuale e, in tale caso, il medico che la pratica integra il reato di omicidio doloso, se del caso attenuato dal motivo “di particolare valore morale o sociale” (art. 62 n.1 c.p.).

 [19] La legge francese n. 370/2005, cit. supra nota 1, salvaguarda il diritto di morire con dignità e allo stesso tempo offre al medico direttive sulle quali fare affidamento ove sia pronunciato un rifiuto delle cure salvavita, ovvero sia chiesta l’interruzione di un trattamento necessario per sopravvivere. La legge distingue chiaramente tra laisser mourir e donner la mort, ossia rispettivamente tra la condotta del medico che consente alla patologia di seguire il suo corso naturale, sino alla morte del paziente e l’azione che cagioni direttamente il decesso del malato. In quest’ultimo caso non è la malattia ma la condotta del medico a cagionare la morte. Anche la dottrina italiana ha distinto tra la condotta del medico che aiuta il paziente “nel morire” (che è legittima) e quella che aiuta il paziente “a morire” (che è punita dal codice penale).

[20] Così F. Mantovani, Diritto penale. Delitti contro la persona, Padova, 1994, p. 123.

[21] G. Alpa, cit., p. 248.

[22] Qui il problema attiene all’accertamento dei requisiti di validità che la volontà di rifiutare le cure deve avere. Essa deve essere: personale, reale, informata, autentica, valida e attuale (cfr. amplius F. Mantovani, voce Eutanasia, cit., p. 428). Qualora la volontà abbia tali caratteri, il medico deve interrompere il trattamento, altrimenti, continuando quest’ultimo, egli tiene una condotta illegittima. Si può osservare, allora, in relazione al caso Welby che questi aveva il diritto all’interruzione dei trattamenti medici (ventilatore polmonare e alimentazione forzata), praticatigli, tuttavia, con grave ritardo rispetto alla richiesta. Il medico che ha proceduto è stato, infatti, dichiarato non punibile rispetto al reato di omicidio del consenziente in quanto sussisteva, secondo il Gup del tribunale di Roma, la scriminante dell’adempimento del dovere ai sensi dell’art. 51 c.p. (sent. 23 luglio 2007, depositata il 17 ottobre).

[23] La Corte d’Appello di Milano, decr. 16 dicembre 2006, cit., ha ritenuto che alle dichiarazioni sul rifiuto di una vita in stato di incoscienza, rese da E. Englaro a terzi con riferimento a fatti accaduti ad altre persone, non potesse attribuirsi il valore di una “personale, consapevole ed attuale determinazione volitiva, maturata con assoluta cognizione di causa”. Per la Corte, la situazione di forte emotività in cui si trovava la Englaro (per aver visitato un amico in coma), la sua giovane età, non davano certezza sul fatto che ella fosse matura rispetto alle tematiche della vita e della morte, né che avesse potuto immaginare la situazione in cui si sarebbe trovata.

[24] In dottrina non si dubitava che la volontà di rifiutare la cura avesse piena rilevanza giuridica. Si auspicava, tuttavia, il compimento di un’indagine volta ad individuare “garanzie e limiti” di tale volontà (cfr. G. Vettori, cit., p. 48). La Cassazione ha assunto questo compito: in ordine al “limite” essa ha posto la distinzione tra rifiuto delle cure ed eutanasia, facendo chiaramente intendere che solo quest’ultima è illegittima. Quanto alle garanzie, che divengono ancor più importanti quando il soggetto è incapace, queste si realizzano nel procedimento giudiziale durante il quale occorre raggiungere la certezza di quale fosse la volontà sulla fine della vita. Solo in tal caso il giudice potrà autorizzare il rappresentante legale a prestare il consenso all’interruzione dell’alimentazione forzata.

[25] Così S. Rodota’, Chi decide sul morire, in La Repubblica, 25 ottobre 2007, p. 26, (corsivo mio nel testo). La Cass., con la sentenza in commento, ha valorizzato non la “volontà di potenza”, espressione dello scientismo tecnologico, ideologia che “costituisce l’uomo sovrano della norma e padrone dei suoi fini”, ma due principi costituzionali fondamentali strettamente legati tra loro: il consenso ai trattamenti invasivi del proprio corpo e la dignità umana (L. Mengoni, Diritto e tecnica, in Riv. trim. dir. e proced. civ., 2001, pp. 7-8). Sullo scientismo tecnologico cfr. L. L. Vallauri, Corso di filosofia del diritto, Padova, 1981, p. 245 ss.

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