ISSN 2239-8570

Dichiarazione giudiziale di paternità e danno non patrimoniale, di Antonio Gorgoni

La Cassazione, con la sentenza n. 26205/2013, conferma e precisa il proprio precedente (Cass. n. 5652/2012), affermando che l’inosservanza dei doveri genitoriali, esistenti fin dalla nascita del figlio (art. 30 Cost.), lede il diritto di quest’ultimo di ricevere assistenza morale e materiale (art. 147 c.c., ma si veda ora il nuovo art. 315-bis c.c. introdotto dalla l. n. 219/2012).

Questo diritto, argomenta la Suprema Corte, ha un fondamento costituzionale nell’art. 30, comma 1, Cost. coordinato con l’art. 2 Cost., ma anche nell’art. 24, comma 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE e nella Convezione di New York del 1989 ratificata dall’Italia. L’endiadi diritto a essere educato e mantenuto postula l’idea di rapporto. Più specificamente, essa «contiene e presuppone il diritto di condividere fin dalla nascita con il proprio genitore la relazione filiale, sia nella sfera intima e affettiva, di primario rilievo nella costituzione e sviluppo dell’equilibrio psicofisico di ogni persona, sia nella sfera sociale, mediante la condivisione e il riconoscimento esterno dello status conseguente alla procreazione».

Questa duplice dimensione del diritto di essere educato e mantenuto, interna ed esterna alla persona, è «essenziale per la costruzione dell’identità personale». Un genitore che non provveda al riconoscimento, disattendendo così ai propri doveri, arrecherà quasi certamente un danno alla prole. Danno che consiste «nelle ripercussioni personali e sociali derivanti dalla consapevolezza di non essere mai stati desiderati e accolti come figli».

Si può notare come nella fattispecie concreta siano presenti i due elementi di struttura del danno non patrimoniale, secondo la lettura costituzionale dell’art. 2059 c.c. (Cass. Sez. un. n. 26972/2008): 1) la grave lesione di un diritto previsto dalla Costituzione, cagionata dalla condotta omissiva del padre; 2) il danno risarcibile ai sensi dell’art. 1223 c.c., richiamato dall’art. 2056 c.c., quale conseguenza immediata e diretta dell’evento lesivo.

Ai fini della sussistenza della responsabilità aquiliana da illecito endofamiliare, occorre valutare anche l’elemento soggettivo della colpa. A tal proposito, la Cassazione ritiene essenziale la consapevolezza del concepimento da parte dell’uomo risultato essere successivamente il genitore. Consapevolezza che «non s’identifica con la certezza assoluta derivante esclusivamente dalla prova ematologica, ma si compone di una serie di indizi univoci, generati dall’indiscussa consumazione di rapporti sessuali non protetti all’epoca del concepimento». 

Questo passaggio della motivazione merita una sottolineatura. Si vuol dire che la responsabilità civile non sorge solo quando si è certi di aver concepito un figlio; è sufficiente, invece, il ragionevole dubbio ingenerato da più circostanze di fatto collegate tra loro. Nella vicenda concreta era stata fornita la prova non solo della relazione intima, ma anche delle reiterate richieste di aiuto indirizzate all’uomo (ritenuto il padre) dalla donna, dai servizi sociali e dal parroco. Era perciò indiscutibile che egli fosse consapevole della probabilità della propria paternità.

Ebbene, secondo la Suprema Corte, questo tipo di consapevolezza obbliga il supposto genitore a compiere un’indagine tecnica per scoprire la verità. Altrimenti diventa censurabile l’«attendere con inerzia la richiesta di riconoscimento giudiziale». Una condotta del genere è senz’altro colposa, giacché priva il figlio della figura genitoriale.

Vi sono altri due aspetti trattati nella sentenza: l’interruzione del nesso causale e il concorso del fatto colposo dei danneggiati (i figli) e della madre (art. 1227 c.c.). Entrambi sono giustamente esclusi dalla Cassazione.

L’interruzione perché il padre non aveva né allegato né provato la conoscenza della concomitante relazione intrattenuta dalla donna con un altro uomo all’epoca del concepimento. Il concorso perché il danno non patrimoniale irreversibile, cagionato ai figli, è tutto riconducibile alla condotta gravemente omissiva del padre. Il quale, soltanto attraverso il riconoscimento, avrebbe potuto limitare il vulnus esistenziale.

Si aggiunga che fino alla maggiore età, l’unica legittimata ad agire è la madre (art. 273 c.c.), la cui inattività processuale non può certo pregiudicare in alcun modo i figli. Dal diciottesimo anno di età è decisivo il fatto che non vi siano limitazioni legali all’esercizio dell’azione (art. 270, comma 1, c.c.).

La Suprema Corte conferma, infine, la sentenza d’appello anche con riferimento al criterio di quantificazione del risarcimento. I giudici del merito – essa costata – hanno fatto ricorso, in via analogica, ai parametri equitativi adottati nel distretto per il danno da perdita parentale, assumendoli nella soglia minima. Il tutto con motivazione congrua.

In conclusione la Cassazione, con la sentenza segnalata, costruisce più solidamente il diritto di proporre la domanda di danno non patrimoniale in aggiunta alla domanda volta alla dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità.

 Cass. Sez I, 22.11.2013, n. 26205

Pubblicato in Famiglia e successioni, Illecito civile

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Newsletter a cura di Giuseppe Vettori