ISSN 2239-8570

Assegno divorzile e nuova convivenza: la parola alle Sezioni Unite, di Chiara Sartoris


DOCUMENTI ALLEGATI

Con la presente ordinanza la I sezione della Corte di Cassazione individua una questione di massima di particolare importanza ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c.: chiede alle Sezioni Unite di stabilire se l’instaurazione, da parte di un coniuge divorziato, di una nuova famiglia, sia pure di fatto, determini o meno la decadenza dall’assegno divorzile di cui beneficia. La sezione I ritiene, infatti, sussistano varie ragioni per un possibile ripensamento dell’orientamento favorevole alla decadenza.

L’ordinanza origina da una sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio che, in primo grado, aveva disposto l’obbligo per l’ex marito di versare all’ex moglie un assegno mensile pari a euro 850,000, oltre all’obbligo di contribuire al mantenimento dei figli minori. Successivamente, avendo la donna instaurato una stabile convivenza con un nuovo compagno (da cui era nata una figlia), i giudici d’appello ritengono decaduto il suo diritto a percepire l’assegno. La beneficiaria decide, allora, di ricorrere per Cassazione con quattro motivi, di cui quello centrale è il secondo, essendo volto a sollecitare un ripensamento dell’orientamento secondo il quale l’instaurazione di una nuova famiglia, da parte dell’ex coniuge beneficiario, sciolga ogni connessione con il tenore e il modello di vita caratterizzanti la pregressa convivenza matrimoniale e determini la decadenza dall’assegno divorziale. A dire della ricorrente, l’interpretazione del descritto automatismo, ispirato a una interpretazione estensiva dell’art. 5, comma 10, della legge n. 898/1970, relativo all’ipotesi delle nuove nozze, non varrebbe anche per la instaurazione di una convivenza di fatto.

A sostegno delle proprie argomentazioni, la donna dà dimostrazione del suo contributo alle esigenze familiari in costanza di matrimonio, avendo rinunciato a un’attività professionale per dedicarsi interamente ai figli, anche dopo la separazione, differentemente dal marito, che era diventato amministratore e proprietario di successo di una di una prestigiosa impresa commerciale. Oltretutto, stante la non più giovane età, la donna non si troverebbe ormai nelle condizioni di poter reperire un’attività lavorativa, considerato anche il fatto che essa vive con i figli e ha avuto un’altra figlia dal nuovo compagno; il quale svolge l’attività di operaio con un reddito lavorativo di poco più di mille euro al mese, sul quale graverebbero anche il mutuo per l’acquisto della casa familiare e il mantenimento dei figli del precedente matrimonio.

Nell’illustrare la questione da sottoporre alle Sezioni Unite, la I sezione rileva l’esistenza di due orientamenti diversi sulla interpretazione dell’art. 5, comma 10, della legge n. 898/2020 e prende le distanze da quello più recente favorevole all’applicazione dell’automatismo di quella regola anche per l’ipotesi di instaurazione di una convivenza di fatto. Quest’ultimo indirizzo interpretativo si fonda su due elementi: da un lato, il riconoscimento di piena dignità alla famiglia di fatto, quale formazione sociale tutelata ai sensi dell’art. 2 Cost. (cfr. Cass., n. 6855/2015; Cass., n. 2466/2016; Cass., n. 29317/2019; Cass., n. 22604/2020); dall’altro, il principio di auto-responsabilità, inteso nel senso che l’individuo che compie la scelta di dar vita a una nuova famiglia deve mettere in conto i possibili esiti di tale scelta, compreso il venire meno dell’assegno divorzile, in quanto la nuova convivenza, al pari delle nuove nozze, reciderebbe ogni legame con la precedente esperienza matrimoniale e con il relativo tenore di vita. Sicché, secondo siffatto modo di ragionare, ben sussisterebbero tutti i presupposti per un’applicazione analogica dell’art. 5, comma 10, della legge n. 898/1970 alla famiglia di fatto. Fermo restando che l’automatismo di quella regola rimarrebbe pur sempre mitigato dalla valutazione discrezionale che compete al giudice circa i caratteri della singola nuova famiglia di fatto, primi tra tutti, la stabilità e la durata.

Ebbene, la I sezione è incline, invece, a suggerire un ripensamento del descritto orientamento, reputando non convincente l’argomento del canone di auto-responsabilità, la cui portata necessiterebbe di essere chiarita. Ad avviso dei giudici, quest’ultimo non troverebbe applicazione solo per il futuro, cioè rispetto alle scelte di vita che gli ex coniugi compiono successivamente al divorzio, ma si proietterebbe anche nel passato, in relazione ai presupposti del maturato assegno divorzile. Secondo i principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite n. 18287/2018, l’assegno divorzile oggi ha pacificamente una natura composita, da identificarsi in una funzione non meramente assistenziale (necessità per il beneficiario di mantenere il pregresso tenore di vita matrimoniale), ma anche perequativo-compensativa (riconoscimento al coniuge economicamente più debole il contributo fornito alla formazione del patrimonio familiare e personale dell’altro coniuge). Si rileva che, in base alla descritta impostazione, le Sezioni Unite hanno espresso una peculiare declinazione del principio di auto-responsabilità, nella quale trova valorizzazione e considerazione l’idea per cui «il beneficiario possa godere dell’assegno divorzile non solo perché soggetto economicamente più debole, ma anche per quanto da egli ha fatto e sacrificato nell’interesse della famiglia e dell’altro coniuge, il tutto per un percorso in cui le ragioni assistenziali nella loro autonomia perdono forza, lasciando il posto a quelle dell’individuo e della sua dignità».

In questa mutata prospettiva, ad avviso della I sezione, il principio di auto-responsabilità «merita una differente declinazione più vicina alle ragioni della concreta fattispecie ed in cui si combinano la creazione di nuovi modelli di vita con la conservazione di pregresse posizioni, in quanto, entrambi, esito di consapevoli ed autonome scelte della persona». Ne consegue che tale principio non possa escludere radicalmente il diritto all’assegno divorzile, là dove il beneficiario abbia instaurato una stabile convivenza di fatto con un terzo. Naturalmente, compete al giudice del merito «accertare l’esistenza di ragioni per un’eventuale modulazione dell’assegno ove la nuova scelta di convivenza si riveli migliorativa delle condizioni economico-patrimoniali del beneficiario (…)».

La Corte svolge poi due ulteriori argomentazioni a sostegno della propria posizione.

Da un lato, chiarisce che la illustrata impostazione sarebbe perfettamente compatibile anche con la disciplina del diverso istituto dell’assegno di mantenimento, il quale è destinato a cessare nel caso in cui il coniuge separato che abbia instaurato una convivenza more uxorio con un terzo, assolvendo a una differente funzione, rispetto alla quale assume rilievo il pregresso tenore di vita matrimoniale. Dall’altro lato, non vi sarebbero ragioni ostative all’orientamento prospettato neppure nella legge n. 76/2016, che riconosce anche ai conviventi di fatto, quando la convivenza venga meno, il diritto agli alimenti ex art. 433 c.c. a favore della parte economicamente più debole, ove versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al suo mantenimento.

Per le ragioni illustrate, dunque, la Corte chiede alle Sezioni Unite di stabilire se sia percorribile l’opzione interpretativa suggerita, volta a sostenere la perdurante affermazione del diritto all’assegno divorzile negli effetti compensativi suoi propri, nonostante l’instaurazione di una nuova convivenza di fatto da parte del beneficiario, attraverso la valorizzazione obiettiva del contributo dato dall’avente diritto al patrimonio della famiglia e dell’altro coniuge.

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