ISSN 2239-8570

Contratto di advisoring e nullità per mancanza di forma, di Chiara Sartoris


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La sentenza esamina una questione tanto interessante quanto mai esplorata dalla Corte di Cassazione: si tratta di stabilire a chi spetta la legittimazione a far valere la nullità di un contratto di advisoring tra una banca e una pubblica amministrazione comunale, ove risulti privo del requisito di forma scritta.

Al fine di impostare correttamente la soluzione al quesito, la Cassazione chiarisce, preliminarmente, il rapporto che sussiste tra il requisito di forma scritta richiesto per la generalità dei contratti della pubblica amministrazione e il medesimo requisito previsto per i contratti di intermediazione finanziaria. In tali ipotesi, vengono, infatti, in considerazione due regimi diversificati di forma e di nullità consequenziale del contratto.

Per i contratti stipulati dalla pubblica amministrazione, l’art. 17 del r.d. 2240/1923 pone un vincolo di forma ad substantiam, quindi a pena di nullità. Si tratta di una fattispecie di nullità assoluta, rilevabile d’ufficio dal giudice ed eccepibile anche dalla controparte della pubblica amministrazione, salvo che sulla validità del contratto non si sia formato un giudicato.

Al contrario, i contratti di intermediazione finanziaria devono essere redatti in forma scritta, ai sensi dell’art. 23, comma 3, T.U.F., e la violazione di tale requisito è sanzionata con una nullità relativa o protettiva, che può essere fatta valere dal solo cliente, cioè appunto dalla parte debole (e quindi, quando cliente sia una pubblica amministrazione, solo da quest’ultima).

In considerazione di ciò, la Cassazione affronta il problema della concorrenza tra i diversi regimi rimediali predisposti dall’ordinamento quando una delle parti del contratto di advisor sia una pubblica amministrazione. Il tema risulta particolarmente complesso ove si consideri che si tratta di chiarire il rapporto tra due rimedi entrambi speciali: il primo perché attiene alla disciplina tipica dei contratti della pubblica amministrazione, il secondo perché detta una disciplina speciale afferente all’istituto della nullità di protezione.

Si osserva che la normativa in tema di contratti pubblici è, di solito, invocata dalla banca ricorrente in quanto opzione a sé più favorevole, potendo quella nullità essere eccepita dalla controparte della pubblica amministrazione. Viceversa, il contraente pubblico – come sostenuto anche dai giudici di merito nel caso di specie – aderisce alla tesi della nullità di protezione, in quanto parte debole di un contratto asimmetrico, invocando la prevalenza della disciplina speciale del T.U.F..

La Cassazione nella sua decisione disattende le posizioni dei giudici di merito e ricostruisce il rapporto tra i due rimedi nel senso della prevalenza del regime della forma scritta ad substantiam propria dei contratti della pubblica amministrazione. Sicché, nei casi in cui una pubblica amministrazione sia parte di un contratto sottoposto agli obblighi di forma del T.U.F., non potrebbe trovare applicazione l’art. 23, comma 3, T.U.F. e il relativo regime della nullità di protezione, poiché non sussisterebbero i presupposti per invocare la finalità protettiva di quella nullità.

Nel concorso tra le due discipline dovrebbe prevalere la ratio sottesa alla regola di forma scritta ad substantiam propria dei contratti della pubblica amministrazione. Questa, infatti, è mira a tutelare non gli interessi pubblici, sia pure settoriali, di un determinato ente pubblico, bensì “gli interessi generali della collettività che soverchiano quelli dell’ente pubblico che è parte in causa, quale strumento di garanzia del regolare svolgimento dell’attività amministrativa e di tutela delle risorse pubbliche, in attuazione dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento della P.A., a norma dell’art. 97 Cost.” (in tal senso, cfr. Cass., n. 1702/2006; Cass., n. 6555/2014).

Queste considerazioni sarebbero alla base anche di quell’orientamento giurisprudenziale secondo cui i contratti stipulati dalla pubblica amministrazione, pure nei casi in cui essa agisca iure privatorum, devono risultare da atti formali, redatti per iscritto dall’organo rappresentativo esterno dell’ente pubblico, munito dei poteri necessari per vincolare quest’ultimo.

Siffatta impostazione – si osserva – giustificherebbe anche il regime della nullità assoluta previsto per il difetto di forma scritta: ossia quello di una nullità rilevabile d’ufficio dal giudice e insanabile, “senza possibilità di ravvisarne la stipulazione per facta concludentia o in modo implicito da singoli atti (…) o di desumere la forma scritta dall’emanazione di una delibera autorizzativa che è atto interno, di natura preparatoria, inidoneo ad impegnare l’ente (…)” (cfr. Cass., n. 4532/2008; Cass., n. 1167/2013; Cass., 21477/2013; Cass., n. 1236/2015).

La Cassazione precisa, peraltro, che, al fine di integrare il requisito della forma scritta ad substantiam, non occorre che il vincolo negoziale sia consacrato in un unico documento contrattuale sottoscritto da entrambe le parti, ma basterebbe uno scambio di missive contenenti proposta e accettazione, ambedue sottoscritte, secondo le regole della formazione del contratto tra assenti.

La ricostruzione sopra illustrata, infine, oltre a essere suffragata da numerose pronunce di legittimità (cfr. Cass., 7747/1993; n. 15993/2014; Cass., n. 5919/2016), trova anche riscontro nel dato normativo, in particolare, nell’art. 17 del r.d. 2240/1924, in tema di contratti a trattativa privata con la pubblica amministrazione.

In conclusione, alla luce delle esposte considerazioni, la Cassazione, nel caso di specie, accoglie il ricorso della banca sotto il profilo analizzato e demanda al giudice del rinvio il compito di accertare in concreto se, nella formulazione del contratto di advisoring in esame, sia stata effettivamente osservata la forma scritta ad substantiam.

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