ISSN 2239-8570

Criteri ed oneri probatori per la determinazione del maggior danno da inadempimento nelle obbligazioni pecuniarie (nota a Cass. Sez. Un., 16 luglio 2008, n. 19499), di Filippo Busoni

Cass. Sez. Un., 16 luglio 2008, n. 19499

Avvocato e Dottore di ricerca in Diritto Civile

Sommario: 1. Il caso. 2. Il problema. 3. I precedenti. 4. La decisione. 5. I criteri accessori. 6. Le questioni processuali. 7. Maggior danno e lucro cessante.

1. Il caso.Il caso riguarda, per quel che interessa, una domanda di restituzione di somme di denaro percepite dall’INPS. Il Tribunale di Roma, innanzi al quale si è svolto il giudizio d’appello, ha accolto la richiesta condannando quest’ultimo istituto alla ripetizione dei contributi indebitamente ricevuti “oltre agli interessi legali e rivalutazione monetaria, secondo gli indici ISTAT dei prezzi al consumo” dalla data di notifica del ricorso sino al soddisfo. La pronunzia è stata motivata con l’argomento che la qualità imprenditoriale, assunta dal creditore, può far presumere che questi se avesse tempestivamente avuto le somme dovute le avrebbe reinvestite nell’attività produttiva, neutralizzando così gli effetti indotti dalla svalutazione monetaria. Avverso tale sentenza l’INPS è ricorsa in sede di legittimità per denunciare la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1224, comma 2, e 2697 c.c. sostenendo che il provvedimento impugnato avrebbe errato nel riconoscere la rivalutazione monetaria in mancanza di una espressa prova, da parte dell’imprenditore, in merito ai maggiori danni subiti a causa dell’indisponibilità del denaro determinata dall’inadempimento.2. Il problema.Le Sezioni Unite sono, dunque, state chiamate a pronunziarsi sulla prova che il creditore di una somma di denaro  deve offrire per poter ottenere il maggior danno da svalutazione monetaria, comunemente quantificato nella differenza che intercorre con quanto attribuito a titolo di interessi legali moratori non convenzionali ed il valore effettivo della moneta al momento del pagamento.E’ noto che quando l’obbligazione ha ad oggetto una somma di denaro (1) occorre tener presente come il valore nominale (2) della moneta si distingua rispetto al suo potere d’acquisto (3), invariabilmente legato al decorrere del tempo(4). Cosicché in caso d’inadempimento il rispetto del principio secondo il quale il risarcimento deve corrispondere al danno effettivamente subito (5), obbliga a considerare come con il ritardato pagamento la moneta possa aver ceduto parte del proprio potere d’acquisto(6), non compensato dalla mera corresponsione degli interessi legali (7).Per soddisfare quest’esigenza, in base al primo comma dell’art. 1224 c.c., sulla somma che il debitore inadempiente dovrà versare verranno calcolati, e salva diversa pattuizione, gli interessi moratori da determinare nella misura del saggio legale. Qualora, come sovente accade, i danni subiti dal creditore, a causa del ritardo non risultino coperti dalla predetta liquidazione soccorre il secondo comma dell’art. 1224 c.c., secondo il quale al creditore che dimostri di aver subito un maggior danno spetterà un risarcimento ulteriore. Tra i maggiori danni si collocano, appunto, anche quelli derivanti dalla svalutazione monetaria. Di quest’ultimo aspetto si è occupata la sentenza in commento stabilendo a quale parte spetti l’onere di dimostrare il verificarsi della svalutazione monetaria, in qual modo ed in quale misura questa debba esser calcolata.3. I precedenti.All’interno dell’amplissima casistica giurisprudenziale possiamo ricordare alcuni passaggi fondamentali, peraltro già menzionati nel provvedimento che si annota.Secondo una prima pronunzia (8) del massimo organo di legittimità – alla quale viene attribuito il merito di aver scorto nella perdita di valore della moneta un fattore di danno – la svalutazione monetaria verificatasi durante la mora del debitore non giustifica, in sé, alcun risarcimento automatico che possa essere attuato con la rivalutazione della somma dovuta e nella misura della svalutazione stessa, ma può essere causa di maggiori danni a condizione che il creditore, il quale intenda ottenere il risarcimento ex comma 2 dell’art. 1224 c.c., assolva l’onere di allegare e dimostrare (valendosi, senza limitazione alcuna, di ogni possibile mezzo di prova) il pregiudizio patrimoniale risentito. Peraltro il giudice cui venga proposta la relativa domanda può utilizzare, in mancanza di altre specifiche prove, oltre che il notorio acquisito alla comune esperienza, presunzioni fondate su condizioni e qualità personali del creditore e sulle modalità di impiego del denaro coerenti – secondo i criteri della normalità e della possibilità – con tali elementi. La Corte, dunque, pur riaffermando l’assoluta preminenza del principio nominalistico negò l’automatica presunzione di danno e giunse ad affermare che quello da svalutazione può essere provato in via presuntiva tenendo conto delle condizioni e delle qualità personali del creditore.A distanza di qualche anno le sezioni Unite (9) si trovarono nuovamente a fare il punto sull’argomento, giungendo a rafforzare la regola delle c.d. presunzioni personalizzate (10) o “criteri personalizzati di normalità”. Premura della Corte fu, infatti, quella di evitare generalizzazioni e tentare di rispecchiare il più possibile l’effettiva incidenza dell’inadempimento nel patrimonio del creditore, il quale era chiamato a dimostrare, anche per presunzioni e sulla scorta della categoria di appartenenza, come avrebbe impiegato il denaro non percepito e quale vantaggio ne avrebbe ricavato (11).Quest’ultimo criterio è quello che è risultato assolutamente prevalente sino alla data odierna.4. La decisione.La Corte, nella decisione che si annota, prende le distanze dalla giurisprudenza maggioritaria ed adotta il criterio della risarcibilità del danno da svalutazione in via generalizzata e presunta adeguando così il rigore interpretativo alle esigenze mutate di giustizia sostanziale.Le ragioni del proprio indirizzo sono sostanzialmente due: la semplificazione probatoria e la disincentivazione all’inadempimento. La prima di queste richiama l’esigenza di conformare lo svolgimento dei processi al novellato art. 111 della Cost.. Con la seconda i giudici perseguono una soluzione che muove da un dato di comune conoscenza, ossia quello secondo il quale il tasso del rendimento lordo dei titoli di stato – la più comune e sicura forma d’investimento – negli ultimi decenni è stato superiore al tasso dell’interesse legale; cosicché al debitore risulta più conveniente non adempiere, lucrando in tal modo la differenza tra quanto è agevolmente in grado di ricavare dal denaro non versato e quello che dovrà al creditore quando adempirà la propria obbligazione.Ecco dunque che la Corte accoglie un’interpretazione che – salva diversa prova contraria – si risolve nel riconoscere al creditore pecuniario un maggior danno da commisurarsi nella differenza tra il tasso di rendimento netto (dedotta l’imposta) dei titoli di stato di durata non superiore ai dodici mesi (o tra il tasso di inflazione se superiore) e quello degli interessi legali, se inferiore.La Corte rivendica come la soluzione prescelta sia coerente con la lettera dell’art. 1284, comma 1, cod. civ., nel testo novellato nel 1996, laddove vincola espressamente il Ministro del tesoro a determinare il saggio d’interesse “sulla base” del rendimento annuo lordo dei titoli di Stato non ultrannuali e “tenuto conto” del tasso d’inflazione registrato nell’anno: la differenza tra le due espressioni è invero significativa del primario rilievo che il legislatore ha conferito al parametro di riferimento costituito dal rendimento dei titoli di Stato ai fini dell’apprezzamento della normale redditività del denaro.In conclusione secondo le Sezioni Unite deve ritenersi superato il ricorso alla suddivisione dei creditori in categorie dalle quali presumere l’utilizzo tipico del denaro e dunque la sua redditività.Il secondo aspetto sul quale si incentra la decisione è quello del danno effettivo. Principio che viene perseguito affidandolo alla prova specifica che ciascuna parte interessata avrà l’onere di fornire; la Corte sostiene infatti che per il debitore sarà possibile dimostrare che il creditore non ha subito un maggior danno o che lo ha subito in misura inferiore rispetto alla differenza sopra indicata, in relazione al mero remunerativo uso che avrebbe fatto della somma dovuta se gli fosse stata tempestivamente versata. Similmente il creditore che domandi, a titolo di maggior danno, una somma superiore a quella differenza sarà tenuto ad offrire la prova del danno effettivamente subito.Per esigenze di efficienza processuale il meccanismo delle presunzioni viene, dunque, fatto prevalere  rispetto al criterio della vicinanza della prova.5. I criteri accessori.Come noto, in caso di inadempimento, le obbligazioni pecuniarie sottostanno ad una disciplina che si discosta da quella ordinaria (12), ed infatti, limitandoci ad osservarla sotto il profilo dei danni, abbiamo visto che l’art. 1224 c.c. attribuisce il diritto alla percezione degli interessi legali anche in difetto della prova della loro esistenza, facendo salvo il diritto al risarcimento ulteriore qualora vi sia la dimostrazione del maggior danno. Tra le questioni controverse sulle quali la sentenza prende posizione vi è quella del cumulo tra le due voci (13). Ebbene, le Sezioni Unite dopo aver indicato il parametro di riferimento, per determinare la percentuale di perdita del valore d’acquisto della moneta hanno ammesso la possibilità della sommatoria dei due nocumenti ma nei limiti della differenza tra la misura di quest’ultimo tasso e quello degli interessi legali se inferiore.Può non essere inutile ricordare come la decorrenza degli interessi e del maggior danno debba individuarsi nel momento della costituzione in mora(14), che nelle obbligazioni pecuniarie liquide ed esigibili inizia con la data di scadenza del termine di pagamento(15). Si consideri, infine, come, attesa l’autonomia dei diritti indicati dall’art. 1224 c.c. rispetto al credito dell’obbligazione principale, la decorrenza della prescrizione sia disgiunta, cosicché la sua interruzione per il debito capitale non comporta anche quella dei diritti accessori(16).6. Le questioni processuali.Come si accennava, occorre tener presente che la domanda di risarcimento del maggior danno rappresenti una domanda autonoma e quindi non possa esser ritenuta inclusa in quella ove si chiede la corresponsione degli interessi (17), mentre la modifica di quest’ultima è inammissibile comportando una mutatio e non una semplice emendatio libelli(18). Per quanto i giudici ribadiscano soventemente l’autonomia della domanda di maggior danno, si mostra una certa cautela nell’ammetterne la richiesta in un separato giudizio rispetto a quello ove è stata sancita la condanna al pagamento del capitale e degli interessi legali (19).La sentenza annotata può infine promuovere spunti di riflessione sull’ammissibilità di una richiesta di risarcimento del maggior danno da svalutazione monetaria contenuta in un ricorso per decreto ingiuntivo (20), posto che il criterio adottato dalle Sezioni Unite potrebbe farlo ritenere, al pari degli interessi legali, liquido ed esigibile.7. Maggior danno e lucro cessante.A nostro giudizio la svalutazione monetaria costituisce parte del danno emergente. Ciò non esclude che tra i maggiori danni indicati dal secondo comma dell’art. 1224 c.c., e dei quali dovrà esser fornita una rigorosa prova, possano trovarvi collocazione quelli dovuti a titolo di lucro cessante. Si pensi, ad esempio, al caso in cui il creditore dimostri come a causa della mancata disponibilità del denaro dovutogli abbia perduto un lucroso affare.In giurisprudenza possono trovarsi però alcune pronunzie che collocano la svalutazione monetaria all’interno dei confini del mancato guadagno (21), mentre altre sentenze affermano che il lucro cessante debba identificarsi negli interessi legali(22).Seppur la questione non possa esser approfondita in questa sede, è risultato opportuno accennarla posto che essa può indurre implicazioni di non poco rilievo soprattutto in considerazione di una recentissima decisione, ancora delle Sezioni Unite(23), secondo la quale deve escludersi la corresponsione del lucro cessante nel calcolo dell’indennità dovuta ai sensi dell’art. 2041 c.c..Peraltro qualora il maggior danno indicato dall’art. 1224 c.c. venisse identificato con i danni dovuti a titolo di lucro cessante emergerebbero, con evidenza, problemi di coordinamento tra quest’ultima sentenza e quella che si è annotato.______________________________________________________________________________________ NOTE(1)  ASCARELLI, Obbligazioni pecuniarie, in Comm. Scialoja e Branca (Art. 1277-1284), Bologna – Roma, 1959; DI MAJO, Obbligazioni pecuniarie, in Enc. Dir., XIXX, ad vocem, Milano, 1979; INZITARI, Obbligazioni pecuniarie, in Dig. Disc. priv. Sez. Civ., ad vocem, Vol. XII, Torino, 1995, 469 e ss.; UCCELLA, Rivalutazione, in Dig. Disc. priv. Sez. Civ., ad vocem, Vol. XVIII, Torino, 1998, 68 e ss.; P. GALLO, Svalutazione in Dig. Disc. priv. Sez. Civ., ad vocem, Vol. XIX, Torino, 1999, 241 e ss.; QUADRI, Le obbligazioni pecuniarie, in Tratt. Rescigno 2, Vol 9, Torino, 1999, 517 e ss.; C.M. BIANCA, l’obbligazione, Dir. Civ. 4, Milano, 1993, 141 e ss..(2) In base a quanto stabilito dall’art. 1277 c.c. i debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento e per il suo valore nominale; “Il principio nominalistico è in senso ampio il principio di rilevanza giuridica del valore nominale del denaro. In senso specifico esso è la regola secondo la quale le obbligazioni pecuniarie si eseguono in conformità del loro valore nominale” C.M. BIANCA, op. ult. cit., 147; INZITARI, La moneta, in Tratt. Galgano, VI (moneta e valuta), Padova, 1983, 3 e ss. spec. 81.(3) GALGANO, Dir. Civ. e Comm., II, t. 1, Padova, 1990, 46.(4)  “Poiché le obbligazioni pecuniarie non sempre si estinguono istantaneamente, può capitare spesso che il debitore si liberi consegnando al creditore una somma di denaro corrispondente all’ammontare del debito pecuniario determinato in base all’unità monetaria legale e che tale somma abbia all’atto del pagamento un potere d’acquisto inferiore a quello che la medesima aveva all’atto della nascita del debito” BRECCIA, Le obbligazioni, in Tratt. Dir. priv. a cura di Iudica e Zatti, Milano, 1991, 281.(5)  Secondo dottrina maggioritaria il rischio della perdita del potere d’acquisto della moneta graverebbe sul creditore: C.M. BIANCA, l’obbligazione, cit., 148; BRECCIA, cit., 282.(6)  In base al principio nominalistico “il debito pecuniario si estingue secondo la sua misura nominale all’atto della nascita dell’obbligo e non secondo il suo potere di scambio effettivo nel momento del pagamento” BRECCIA, Le obbligazioni, cit., 282.(7)  Allo scopo di temperare la rigidità del principio sancito dall’art. 1277 c.c., come noto, è stata elaborata la distinzione tra debiti di valuta, nei quali l’ammontare della prestazione pecuniaria è determinato o determinabile sin dall’origine, ed i debiti di valore per i quali la determinazione del dovuto è fissata, secondo una valutazione discrezionale, in corrispondenza al danno effettivamente subito nel momento della sua liquidazione. Quest’ultima è la tipica espressione delle obbligazioni risarcitorie per le quali “se al momento del danno era sufficiente una determinata somma pecuniaria al fine di compiere una tale reintegrazione e se al momento della liquidazione del risarcimento (che può essere tardiva, soprattutto se vi sia una fase contenziosa e occorra attendere la pronuncia del giudice) la somma necessaria è aumentata a causa della perdita di potere d’acquisto della moneta, di tale misura dovrà tenersi conto nel fissare l’entità dell’obbligazione risarcitoria” op. ult. cit., 289. Si noti che i debiti di valore, sin da Cass. 18.04.66 n. 963, in Foro it. 1967, I, 345, non si trasformano in debiti di valuta neppure se il danneggiato ha provveduto ad eliminare le conseguenze del fatto illecito.(8)  Cass. sez. un., 04 luglio 1979 n. 3776, in Resp. civ. e prev. 1979, 720.(9)  Cass. sez. un., 05 aprile 1986, n. 2368, in Giust. civ. 1986, I, 1595.(10)  C.M. BIANCA, la responsabilità, in Dir. Civ. 5, Milano, 1994, 209.(11)  Op. ult. Cit., 209.(12)  In tal senso P. GALLO, Svalutazione in Dig. Disc. priv. Sez. Civ., ad vocem, cit., 245.(13)  Inizialmente la giurisprudenza ammetteva il cumulo degli interessi moratori ed il maggior danno da svalutazione, mentre in un secondo e più recente momento era giunta a negare tale possibilità rilevando come i due commi dell’art. 1224 fossero tra loro alternativi: Cass. 23.01.1995 n. 725, in DVD Juris data, conforme a Cass. S.U. 16.12.1994 n. 10796 in Giur. it., 1995, I, 1, 1696. (14) Ed invero si afferma che il principio nominalistico opera proprio sino all’atto di costituzione in mora, dopo il quale il creditore non è più tenuto ad accettare il mero pagamento di quanto nominalmente pattuito DI MAJO, Obbligazioni pecuniarie, in Enc. Dir., cit., 292.(15)  Per i vari profili si veda Cass. 13.05.2004 n. 9092 per la quale “L’art. 1182, comma 3, c.c., secondo cui l’obbligazione avente per oggetto una somma di danaro deve essere adempiuta al domicilio del creditore, si applica esclusivamente nel caso in cui l’obbligazione abbia per oggetto una somma già determinata nel suo ammontare ovvero quando il credito in danaro sia determinabile in base ad un semplice calcolo aritmetico e non si renda necessario procedere ad ulteriori accertamenti, mentre quando la somma deve essere ancora liquidata dalle parti, o, in loro sostituzione, dal giudice, mediante indagini ed operazioni diverse dal semplice calcolo aritmetico, trova applicazione il comma 4 dell’art. 1182, secondo cui l’obbligazione deve essere adempiuta al domicilio che il debitore ha al tempo della scadenza. Ne consegue fra l’altro che, difettando il necessario presupposto della liquidità, in quest’ultimo caso non sono dovuti gli interessi corrispettivi ex art. 1282 c.c., e, trattandosi di obbligazioni chiedibili, la mora del debitore si determina non già (come invece per le obbligazioni portabili), ai sensi dell’art. 1219, comma 2, n. 3, c.c., alla scadenza del termine in cui il pagamento deve essere eseguito (mora ex re), bensì, ai sensi del comma 1 del medesimo articolo, mediante richiesta formulata per intimazione o atto scritto, solo da tale momento pertanto decorrendo gli interessi moratori”.(16)  Cass. 29.01.1980 n. 687, in Foro it. 1980, I, 1691. La prescrizione viene individuata nella misura quinquennale. Per ulteriori apsetti V. UCCELLA, Rivalutazione, in Dig. Disc. priv. Sez. Civ., ad vocem, cit., 85.(17)  Cass. 29.12.1988 n. 7096, in DVD Juris Data.(18)  Cass. 16.05.1990 n. 4234, in DVD Juris Data.(19)  Cass. 03.12.1996 n. 10805, secondo la quale “Il creditore che, senza riserva alcuna per il risarcimento del maggior danno ai sensi dell’art. 1224 comma 2 c.c., chiede e ottiene la condanna del debitore al pagamento di un’obbligazione pecuniaria e al risarcimento del danno da ritardo nella misura degli interessi legali (art. 1224 comma 1 c.c.), non può poi agire in separato giudizio per il risarcimento del predetto maggior danno fondato sullo stesso ritardo perché l’accoglimento della sua domanda, proposta nel primo giudizio, contiene l’accertamento – definitivo, se passato in giudicato (art. 2909 c.c.) – che fino al momento in cui le parti hanno potuto allegare altri fatti il danno patrimoniale è quello chiesto e liquidato nella misura presunta dal legislatore”. Si veda anche Cass. 02.03.1994 n. 2059, ove si esclude la possibilità di promuovere un giudizio successivo nonostante la riserva svolta nel primo, di contrario avviso sul punto Cass. 04.03.2003 n. 3187, in Dir.&. Giust. 2003, 12, 95.(20)  Sino ad oggi l’ipotesi era fermamente negata sul noto presupposto che fosse inammissibile nel procedimento ingiuntivo la richiesta di qualsiasi bene diverso dal pagamento di una somma liquida di denaro, da una determinata quantità di cose fungibili o da una cosa mobile determinata cui l’ingiungente abbia diritto, Cass. 30.05.1987 n. 4821, in DVD Juris Data.(21)  “In tema di obbligazioni pecuniarie, il risarcimento al creditore del maggior danno a norma dell’art. 1224 comma 2 c.c., ed in relazione alla sopravvenuta svalutazione monetaria, a titolo di lucro cessante, e, cioè, per la perdita di guadagni od altre utilità che avrebbe tratto ove il debito fosse stato esattamente pagato, non può essere fondato sulla mera circostanza della qualità di imprenditore commerciale del creditore medesimo, occorrendo che questi deduca e dimostri, sia pure senza limitazioni di prova, ed anche in via presuntiva, il verificarsi del suddetto pregiudizio, alla stregua di specifiche possibilità di porre a frutto la somma dovutagli nell’ambito della propria attività” (Cass. 09.07.1982 n. 4088, in DVD Juris Data).(22)  “Nelle obbligazioni pecuniarie, gli interessi legali, che, in base all’art. 1224, comma 1 c.c. decorrono di diritto a carico del debitore in mora, rappresentano il lucro cessante presunto che il creditore avrebbe ricavato dall’impiego della somma dovutagli e vanno tenuti distinti dal risarcimento del danno maggiore, che può spettare al creditore stesso ai sensi del capoverso della norma citata, in quanto tale risarcimento non assorbe detti interessi, bensì si aggiunge ad essi” (Cass. 06.06. 1981 n. 3661, conforme a Cass. 28.01.2000 n. 943).(23)  Cass. S.U. 11.09.2008 n. 23385, in Guida al Diritto, n. 402008, 32 e ss, la cui massima recita: “L’articolo 2041 del Cc va interpretato nel senso che deve ritenersi escluso dal calcolo dell’indennità richiesta per la diminuzione patrimoniale subita dall’esecutore di una prestazione in virtù di un contratto invalido, quanto lo stesso avrebbe percepito a titolo di lucro cessante se il rapporto negoziale fosse stato valido ed efficace”.

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