ISSN 2239-8570

Il tortuoso percorso delle direttive anticipate: è veramente il malato a decidere?, di Luciano Bagnoli

Luciano Bagnoli – Direttore Dipartimento Emergenza Urgenza, Azienda Sanitaria di Firenze

 

I medici hanno sempre poco partecipato al problema e al momento del fine-vita dei pazienti. La loro opera si concludeva nel momento del “Non c’è più nulla da fare”. A quel punto entravano in scena altre figure: le “pie donne” della casa  che bagnavano le labbra al morente e il prete che stava vicino con le preghiere, somministrava la Comunione e l’Estrema Unzione che sostituivano allora quello che oggi sono la morfina, la nutrizione enterale o parenterale, l’idratazione.

La scomparsa di queste figure o dei loro ruoli ha aperto una grossa falla in quella fase del fine-vita che tuttora non si sa da chi debba essere tamponata. I medici chiedono la volontà e il consenso dei parenti, questi ultimi chiedono ai giudici le relative autorizzazioni, i giudici chiedono ai medici parere e consulenza. Si crea così un cerchio senza uscite.

 

 

1, Autodeterminazione e interesse della comunità

 

Fino ad oggi è considerato comunque punto fermo il diritto all’autodeterminazione nella scelta di accettare o rifiutare un esame o un trattamento; questo diritto  non può essere discusso  e non viene  in effetti mai discusso nella sua legittimità se non nei casi regolati da leggi che identificano quelle situazioni  in cui il trattamento è reso obbligatorio nel nome della sicurezza degli altri, come avviene per un Trattamento Sanitario Obbligatorio in campo psichiatrico o in caso di malattia diffusiva o epidemica. Ne discende che non si interviene mai in modo coercitivo nell’interesse presunto del singolo paziente. E’ però anche vero che negli ultimi tempi alcune norme non hanno sempre rispettato questi principi; ad esempio l’obbligo di portare il  casco in moto  o le cinture di sicurezza in auto sono norme intervenute in modo  coercitivo  nell’interesse del singolo soggetto e non di altri estranei o della collettività se non per motivi di carico economico sulla stessa.

 

L’ingresso di fattori economici in relazione  ai conti pubblici nella indicazione di norme a protezione della integrità fisica rappresenta un evento importante che può portare anche a  valutare quali prestazioni garantire e quali negare in base alla distribuzione delle risorse disponibili nel superiore interesse della collettività. Questo aspetto rappresenta una variabile in grado di determinare scelte  di cui sono male immaginabili le conseguenze. Un esempio è la richiesta di alcune organizzazioni di cittadini in Israele di interrompere il trattamento con Ventilazione Meccanica  per il generale Sharon, in coma da tre anni, per  potere così  liberare risorse  logistiche assistenziali per altri cittadini. E’ terreno difficile a percorrere perché si rischia di normare  i limiti dell’assistenza e di conseguenza i soggetti che ne abbiano diritto e per quale livello di cura.

Queste considerazioni portano a dover valutare se  la vita umana sia un patrimonio individuale o della comunità,  problema che diviene ancora più evidente quando il soggetto perde la capacità di autodifesa o autodeterminazione, basti pensare ai portatori di gravi handicap, ai neonati, ai pazienti privi di coscienza

 

 

2. L’intenzione del medico e il suo obbiettivo

 

D’altra parte l’agire del medico è sempre mirato ad ottenere il miglior risultato per il paziente, ma quale è il miglior risultato? Si dà qui per scontato che la formazione, la convinzione del medico sia unidirezionale: egli ha il compito e l‘intenzione di curare per proteggere la vita e non di porle termine. Questo è così vero che tutte le procedure di fine vita, anche se attivate, passano  attraverso la metodica della sedazione profonda per “lenire” la sofferenza.  Ma lo stesso risultato di porre termine alla vita  invece che con la morfina si otterrebbe con altri farmaci che mancano però della indicazione “buona , favorevole, accettabile” di “curare” il malato, per lo meno nell’aspetto della sofferenza.   Attualmente in queste situazioni si utilizza con una indicazione terapeutica la morfina  di cui si conoscono bene  gli effetti, cioè  di arrivare con quelle dosi all’arresto del respiro, su cui poi non si interviene  con farmaci antagonisti che ne annullerebbero le conseguenze.

Tutto questo ricorda qualcosa di “sacrificale”. Il medico che appare eseguire un volere e una scelta del malato in effetti ritorna su quella scena da cui si era astenuto nei tempi passati e diviene adesso attore quasi sacerdotale di un evento così misterioso e magico come la morte. Questa  è stata  a lungo  considerata un doloroso passaggio verso una

 

nuova vita, anche se in una forma diversa, quindi si pensava che  qualcosa continuasse e poco senso avrebbe avuto non permetterlo. “Lasciatami andare ” sembra abbia detto Giovanni Paolo II. Viene il dubbio che oggi spesso si sia ridotta la fiducia nella prospettiva futura e  si cerchi quindi di trattenere il più possibile il malato in questa vita

Si è  recentemente posto l’accento sul problema se la nutrizione e l’idratazione siano o meno trattamento. Credo non ci siano dubbi che lo siano. Nessun medico farebbe posizionare un sondino naso gastrico o tanto meno una PEG in un paziente cosciente  per nutrirlo  contro la sua volontà, come nessun medico potrebbe costringere un paziente a porgere il braccio per farsi posizionare un accesso venoso per una fleboclisi. Già questo dice che la nutrizione è un trattamento. Certo che sarebbe  necessario spiegare bene al paziente che   l’astensione dal trattamento di questo tipo, soprattutto della componente dell’idratazione, comporterebbe gravi sofferenze, facilità alle piaghe da decubito, alle infezioni.

D’altra parte la dipendenza da attrezzature oggi va aumentando visto anche il progresso dell’ingegneria clinica. Basti pensare alla dialisi sia essa extracorporea che peritoneale, oppure alla dipendenza dalla  somministrazione di ossigeno con cannule nasali e apparecchi che forniscono ossigeno, fissi o mobili (tenuti accanto al letto o su trolley quando i pazienti escono di casa). Molti pazienti convivono in simbiosi con questi trattamenti sostitutivi spesso attivando meccanismi psicologici di dipendenza nei confronti delle macchine e del personale sanitario che le gestisce o le fornisce. Quindi il problema non è cosa sia o non sia trattamento, ma se quel trattamento sia accettato o meno.

 

 

3. Informazione e consenso

 

Il consenso o il dissenso del paziente condizionano l’intervento medico in modo assoluto. Ma entrambe queste situazioni richiedono una informazione corretta e completa. Già su questo campo si apre un ampio spazio di manovra. Come si informa? Non è solo un problema di correttezza scientifica, ma anche di quale rapporto di empatia si stabilisca. La informazione può essere neutra? O l’autorevolezza, la capacità di convincimento, la convinzione stessa di chi informa, la sua partecipazione affettiva incidono in modo determinante?

 

Va anche tenuto presente che il medico trova più facilità nel momento in cui deve decidere se iniziare o meno un trattamento per mantenere la vita  che in quello in cui  ne  decide la sospensione, infatti l’astenersi dal fare è più facile dell’interrompere ed entrambe queste azioni  sono ancora più facili rispetto a  fare qualcosa di attivo che causi  o permetta la morte.

 La volontà di scelta del paziente è determinante, ma è un punto fermo e irrinunciabile che  il consenso possa essere negato in qualunque momento, e la stessa cosa vale per  il dissenso. Sono frequenti casi di pazienti che ritrattano il loro dissenso al trattamento una volta che la riflessione, il consiglio di persone affettivamente legate o con ascendente culturale o spirituale, o l’evoluzione stessa  del  quadro  clinico portino  a considerazioni e decisioni diverse. E’ chiaro che se il paziente riceve un trattamento che gli fa perdere coscienza questa possibilità viene meno; questo deve quindi richiedere  da parte del medico  molta attenzione, riflessione, considerazione.

A maggior ragione queste osservazioni sono valide e attuali per le Direttive Anticipate. Ogni momento della vita, ogni situazione clinica è diversa. Lo stesso quadro a età diverse ha soluzioni diverse, in aree geografiche diverse ha prospettive  diverse, e così è anche se trattato da professionisti diversi. Deve essere tenuto presente come esempio che un aneurisma dell’aorta addominale in rottura ha rischi diversi rispetto a un aneurisma dell’aorta toracica,  che la relativa mortalità negli ultimi 10 anni è crollata, che è diverso se l’evento avviene in un piccolo ospedale in qualche parte sperduta o alle porte di un ospedale di eccellenza. E questo vale per tutte le situazioni, per tutti i momenti della vita. Una scelta fatta in un momento difficile della vita personale non è spesso altrettanto valida quando la vita diviene piena di soddisfazione ed attese o viceversa.

Ma anche la volontà chiaramente espressa merita a volte una considerazione particolare. Il caso più eclatante è quello del suicida che lascia un biglietto, scritto in quell’esatto momento,  in cui afferma la propria decisione  di volere morire. C’è qualcosa di più chiaro nell’affermare di non volere essere curato e trattato? Eppure sempre viene trattato e curato, salvato dalle acque del fiume, staccato dalla corda che gli stringe il  collo, sottoposto a lavanda gastrica, trasfuso se si è tagliato i polsi e operato se si è sparato, spente le fiamme se si è dato fuoco. La motivazione che viene addotta è sempre la stessa:  

 

“se compie un gesto di tal genere non deve essere padrone, in quel momento, delle sue facoltà mentali” . Verrà infatti visitato dallo psichiatra e seguito dai Centri di Igiene Mentale.  Ne discende che la scelta di porre fine alla vita non è sempre una scelta soltanto del soggetto ma essa viene vagliata, accettata, condivisa o contrastata da altre figure (parenti, medici, magistrati, a seconda delle situazioni).

 Al di là della scelta personale espressa nel momento reale  ci sono problemi particolari ma frequenti come quelli  rappresentati dai malati di Alzheimer o comunque incapaci di intendere e di volere, spesso con difficoltà o incapacità  deglutire.(quale differenza con lo stato vegetativo?)  e con i pazienti con attività cerebrale residua a livello sottocorticale, ma ancora più compromessi in funzioni vitali per la impossibilità a respirare; essi sono connessi  a un ventilatore e sedati in coma farmacologico, nutriti con sondino o per via venosa. Anche se ci sono Direttive  Anticipate, dopo quanto tempo si stacca la spina? Se e quando chi lo decide? Il paziente? Il familiare? Il giudice? Il medico? E’ esperienza frequente che la motivazione che porta  a chiedere la sospensione del trattamento non sia la sofferenza del malato, incosciente e magari in coma profondo, ma quella dei parenti duramente provati dal dolore, questo sì ben avvertito, nell’assistere  una  persona cara sospesa in un terreno non definito fra vita e morte.

 

 

4. Il grande problema del fine-vita

 

Si sente oggi sempre più il bisogno di “normare” i comportamenti della medicina nel “fine vita”. Il problema più importante è dove porre il limite all’interruzione delle funzioni vitali. Purtroppo se non si norma con attenzione la procedura c’è il rischio che il limite venga interpretato in modo individuale magari basandosi su direttive anticipate che non potranno che essere generiche. I medici bene sanno come ogni caso sia diverso dall’altro e che le aspettative siano solo basate su leggi di probabilità.

Qualunque decisione in tali casi è molto difficile. La strada attuale  porta a decidere il medico o meglio i medici. Un sistema proposto in Inghilterra, e che ha aspetti interessanti, è quello di una riunione fra  i medici per  analizzare scientificamente, per quanto possibile,  la situazione clinica del paziente  e le possibilità future; si valuta  l’ esistenza di una volontà espressa da parte del paziente, si parla   con i parenti per capire la storia personale, le idee del paziente, il contesto culturale sociale,  etico, della famiglia intesa

 

come ambiente anche del paziente,  e se ne ascolta la posizione anche con l’aiuto del medico di famiglia. I risultati di queste informazioni vengono poi discussi con altre figure non mediche, meglio se con conoscenze sanitarie come infermieri, studenti in medicina, volontari dell’assistenza, e viene presa una decisione comune. Si comunica poi la decisione alla famiglia per raggiungere una condivisione. Questo comportamento ha il vantaggio di non far prendere  la decisione a una figura sola,  di evitare che in  giorni diversi, a medici diversi appartengano scelte diverse,  di condividere  fra più persone il peso della scelta, di ascoltare e capire le attese e la posizione dei familiari, di non far gravare su di loro la responsabilità di una scelta così difficile.

La trasformazione del concetto di “accanimento terapeutico” in  quello di “trattamento futile” è stato sicuramente un importante passo avanti in quanto sostituisce a una espressione di spessore etico una definizione che è basata su conoscenze e dati scientifici per lo meno in termini di probabilità di successo e sopravvivenza. Al momento esiste una legge che stabilisce che la morte si configura come assenza di qualunque attività encefalica corticale e sottocorticale. Già la sostituzione di questo concetto a quello di morte cardiaca suscitò molte discussioni e forse non ci si sarebbe mai posto il problema se non si fossero rese disponibili le tecniche di trapianto d’organo. E’ questo un esempio di come la definizione di morte risponda anche a valutazioni di ordine sociale. Dobbiamo oggi guardarci dalla possibilità che sulla nuova definizione (perché di nuova definizione si tratta nel momento in cui si decida che quella vita non è vita) non intervengano condizioni di significato economico, organizzativo, emotivo dei familiari o della comunità.

 

 

Pubblicato in Persona e diritti

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