ISSN 2239-8570

Sui diritti “presi sul serio”. Contributo ad una riflessione sulle riforme possibili, a cura di Giuseppe Vettori

di Giuseppe Vettori – Professore Ordinario di Diritto Civile, Antonio Gorgoni – Ricercatore di Diritto Privato, Nicoletta Vettori – Dottoranda di Ricerca in Diritto Pubblico

 

Indice: 1. Religione, Politica e Diritti (di  Giuseppe Vettori). 2. I diritti di “ultima generazione” (di Nicoletta Vettori). 3. Il divorzio in Europa e le prospettive di riforma in Italia (di Antonio Gorgoni). 4. I diritti e l’Europa: la lunga marcia della Carta dei Diritti (di Giuseppe Vettori).

 

1. RELIGIONE, POLITICA E DIRITTI di Giuseppe Vettori

 

Da più parti arrivano segnali forti per ripensare gli intrecci fra politica e religione . Segni simbolici di deferenza ostentata e pregevoli spunti di riflessione sui rapporti fra Stato e Chiesa , laicità e fede, ruolo pubblico o ruolo privato del messaggio evangelico (1).

Sul banco degli imputati compare  il cattolicesimo democratico che si era consolidato su alcune linee di pensiero tutte poste in discussione. Un’idea forte di laicità dell’azione politica, la preferenza per una Chiesa che non detta imperativi al legislatore ma parla piuttosto alle coscienze, un dialogo privilegiato con la sinistra. Tutto ciò è ritenuto incongruo per due motivazioni chiare. Sarebbe assurdo escludere dalla vita politica il magistero della Chiesa in un momento in cui occorre ridefinire le modalità primarie della convivenza civile (dalla famiglia, valore della vita in ogni suo percorso e fase) mentre non avrebbe alcun senso lo “stereotipo dei cattolici democratici in dialogo con la sinistra e di quelli conservatori in dialogo con la destra”(2).

La proposta alternativa  è chiarissima. Non di laicità abbiamo bisogno ma di “integrazione inedita di fede e ragione”. Non serve  un dialogo privilegiato dei cristiani con forze di destra o di sinistra, ma un nuovo laboratorio che affondi ex novo un percorso  della nostra storia politica.

Accolgo volentieri questo invito alla riflessione muovendo da una consapevolezza forte.

Il presente è qualcosa da ricostruire nella nostra mente facendo parlare il passato perché non si può isolare i due momenti senza farne delle entità assolute, e a Firenze la storia ci afferra con prepotente forza evocativa almeno in due periodi. La fine del Quattrocento e la seconda metà del novecento.

 

1. Dio e politica nella Firenze del quattrocento.

 

“Alla fine del Quattrocento (3), al culmine del Rinascimento, l’uomo più importante e prestigioso di Firenze non era Lorenzo de’ Medici, il Magnifico, e, neppure Michelangelo o Machiavelli, ma un “fraticello” di Ferrara”, capace di farsi “promotore dell’ideale repubblicano” contro il  dominio dei Medici, e di ripristinare una moralità perduta nella città. Come ciò sia potuto accadere  è oggetto di giudizi molto diversi che ci porterebbero lontano. Si può solo ricordare un fatto oggettivo (4).

Il Savonarola muoveva la sua azione dall’analisi di  una contraddizione evidente in quegli anni, fra il messaggio cristiano e lo stato di vita , miserevole, della Chiesa e della gran parte delle figure civili più rappresentative, ma  la sua finalità finì per divenire esplosiva quando  cercò di risolvere  il conflitto fra precetti morali e regole civiche nell’arena politica (5).

La cacciata di Piero dei Medici (6), il transito periglioso di Carlo VIII, l’avvento della Repubblica posero al centro della vita pubblica fiorentina il Frate che aveva oramai acquisito quella fama e credibilità necessarie per affermare il suo progetto di smantellare la tirannia  per trasformare Firenze e farne uno strumento per il risveglio culturale di tutta la Chiesa. Fra il 22 e il 24 dicembre 1494 si istituì il Consiglio grande di cui facevano parte oltre tremilacinquecento persone, ” quasi la metà degli uomini adulti”, istituzione  che sarà la “colonna portante del governo fiorentino per quasi diciotto anni”, fino alla fine della repubblica e al ritorno dei Medici (1512). Il 19 marzo 1495 si garantì con una legge il diritto di appello contro il giudizio della Signoria a cui era prima consentito comminare, con una maggioranza di due terzi (le sei fave), pene gravissime sino alla morte. Fu abolito  l’uso   “di ricorrere ad un parlamento, ovvero alla facoltà ..di convocare tutti i cittadini con diritti politici ..allo scopo di tenere un referendum popolare”.. strumento che era servito per ” manipolare il popolino, bandire e distruggere nemici politici, insediare al potere i vincitori,..schiacciare un opposizione crescente, serrare i ranghi e imporre il proprio apparato di controllo”(7). Tutti i provvedimenti furono ispirati o sostenuti con forza dal Savonarola che tuonava sulla centralità dello spirito anche nel reggimento dello Stato contro l’idea di Cosimo che a ciò non fosse sufficiente un orazione o un paternostro.

Dio e politica, dunque. Un intreccio che si fece sempre più stringente negli anni a seguire sino a divenire deflagrante e portare alla rovina del frate e di gran parte delle sue sane e robuste riforme civiche.

L’inizio della fine cominciò quando si fece più stretta la immedesimazione dei suoi progetti con una annunciata volontà di Dio di cui si affermò  voce e messaggero. Quando nel marzo del 1498 un francescano, per accertare le verità di Savonarola, lanciò la sfida di una prova del fuoco, migliaia di seguaci del Frate domenicano si offrirono di entrare nel rogo, ma ciò che accadde in quei giorni fu proprio “l’inizio della fine”(8). La lunga trattativa per i dettagli dell’ordalia, i dubbi dei più autorevoli fiorentini e dello stesso Savonarola, i lunghi preparativi e la processione per la città dei due gruppi di frati, le sottili dispute teologiche sul modo in cui si doveva affrontare il fuoco, la interminabile attesa di una folla enorme, il temporale che improvviso indusse la Signoria, esasperata, a mandar via i francescani e che fu inteso dai domenicani come un segno della disapprovazione di Dio per la prova. Tutto ciò assunse  toni di estrema rilevanza.  Nel “giro di poche ore la mancata ordalia trasformò la parte più vulcanica del sentimento popolare di Firenze in un odio e in un disprezzo furenti per il frate e i suoi seguaci” che di lì a poco ebbero una tragica sorte (9).

Il giudizio di Machiavelli su tale vicenda è discusso da sempre (10).

Il Segretario non  nega l’importanza della religione nel reggimento dello Stato (11) ed esalta anzi la virtù che può essere mediata e nutrita dal sentimento religioso, ma  imputa  gravi colpe alla Chiesa romana (12) e da per scontata la “superiorità dell’antiqua virtus  sulla vita cristiana quale è insegnata dalla Chiesa”. Ciò senza alcuna acrimonia o laicismo, come diremmo oggi, ma teorizzando una precisa autonomia della politica come esito di una constatazione ancor più grande: “Il riconoscimento de facto che fini altrettanto ultimi, altrettanto sacri, possono contraddirsi reciprocamente, che interi sistemi di valori possono entrare in collisione senza che sia possibile un arbitrato razionale” (13).

Ciò può spiacere a chi è stato educato in un sistema monista, religioso o morale, ma può essere invece un antidoto forte contro ogni fanatismo connaturale a chi ha davanti a sé una sola meta e un solo ideale da realizzare con qualsiasi mezzo e a qualsiasi condizione. Come è stato lucidamente osservato, insomma, il pensiero di Machiavelli è “un antidoto efficace al fanatismo dei sostenitori di un’unica visione del bene” che non comportava affatto la separazione tra politica ed etica ma solo la “scoperta di un conflitto insanabile fra valori egualmente ultimi”(14).

 

2. La seconda metà del novecento e il cattolicesimo democratico

 

La seconda metà del secolo scorso  è iniziata con alcune  novità  di cui accenno solo un  elenco sommario.

Durante il dibattito per la formazione del testo costituzionale si rinunziò ad un espresso riferimento alla divinità perché, dopo attenta e meditata riflessione, cattolici  e laici concordarono di  non votare su Dio. Ciò aprì la via all’approvazione dell’articolo 7 e alla definizione della Chiesa e dello Stato come due ordini indipendenti e sovrani.

Negli anni sessanta il concilio Vaticano II ha segnato una ” sconvolgente inversione di tendenza”. Una lettura negativa della storia…aveva individuato la Chiesa “come una cittadella assediata, impegnata in una guerra di trincea, nella quale l’immobilismo sembrava la migliore- se non l’unica- forma di resistenza possibile”. La visione nuova del  cristianesimo vissuto  dentro le contraddizioni del tempo, ha portato a rivelare  la Chiesa come  autentica  comunità del popolo di Dio in cammino nella storia (15).

Già a partire dalla fine degli anni sessanta questi fatti hanno agevolato la rottura di un mondo diviso in  blocchi: cattolico, laico, comunista. ” Per molti l’essere cattolico iniziò a non significare più molto, dal punto di vista delle posizioni culturali e politiche” (16) pur nei diversi modi di interpretare quegli anni. La  lucida dirompente opera apolitica di Don Lorenzo Milani  rivelò le ipocrisie e le insopportabili disuguaglianze di quei tempi. Altri maturarono la percezione  che la miseria e le diseguaglianze andavano “conosciute e aggredite nelle loro condizioni socio-economiche, con un rapporto più direttamente e autenticamente politico”(17) capace di modificare dall’interno ogni istituzione.

Prese  corpo in quegli anni un’idea forte che rifiutò sia il carattere troppo pragmatico dell’agire politico e sia il ruolo troppo ideologico della fede per abbracciare uno spazio intermedio della “laicità della cultura e quindi della laicità dell’agire politico… con il conseguente diritto di decidere in questo campo secondo le particolari convinzioni culturali”. Questo atteggiamento ha avuto grandi meriti nel progresso della vita religiosa e sociale della Repubblica. Ma il passato non torna e non serve per fare di quegli anni un vessillo. Ciò che abbiamo vissuto in quegli anni  va  storicizzato e compreso per ciò che ci può dire oggi quel metodo.

La stagione del cattolicesimo democratico fa parte  della nostra storia recente. Andrà studiata più e meglio di adesso. Non potrà certo essere liquidata come ininfluente, né ieri né oggi.

A chi  esclude recisamente si possa oggi immaginare una dimensione discreta e privata del messaggio cristiano, va ricordato che immedesimare quella appartenenza  con la sola voce delle sue Autorità mortifica l’esperienza religiosa  e la storia della Chiesa.

A chi considera inattuale l’idea di laicità della politica e della scienza va ricordato che entrambe  si sono fondate sulla propria autonomia. Solo l’autonomia della politica ha consentito il sorgere dello Stato Moderno, solo l’autonomia della scienza ha consentito conoscenze e conquiste  altrimenti impensabili,  rese ancor più evidenti dagli errori  e dal riconoscimento di essi da parte della Chiesa. Solo il coraggio e i costi di personaggi come La Pira, Milani, Balducci , spesso in aperto contrasto con il proprio mondo, hanno consentito conquiste decisive per la giovane democrazia italiana alla ricerca dagli anni sessanta in poi di una propria identità politica.

Non c’è nessuna nostalgia in tutto ciò ma solo la necessità di ricordare i tratti e le esperienze di una cultura che ha meriti grandi e  altrettanti limiti .

Da qui voglio muovere per  cogliere le peculiarità del presente ove è centrale, oggi come allora,  il rapporto fra diritti e storia  e debbo iniziare  la mia riflessione sottolineando due  debolezze del dibattito attuale.

Da un lato le ambiguità di chi si appoggia strumentalmente  alle Autorità religiose, mortificando il sacro che tende naturalmente verso parole di vita eterna e l’azione politica che non può identificarsi nella società complessa con una fede o una credenza. Dall’altro i limiti di un incontro fra fede e ragione nella definizione del nuovo rapporto fra il valore della persona e le regole dettate dall’ evoluzione tecnologica.  L’analisi del presente non può che partire da qui.

 

3. Per un nuovo laboratorio.

 

Nessuno  pensa che la Chiesa  debba tacere su questioni politiche fondamentali ma il rapporto fra politica e religione non può ridursi al dialogo fra alcune forze politiche e qualche Autorità  religiosa senza sminuire il ruolo del sacro in una società complessa.

Il sentimento religioso è fondamentale  per la gestione del bene comune e la Politica non può  ignorarlo come ammoniva già Machiavelli.

Ciò che disturba,  ora come allora, è l’uso strumentale di quel sentimento. Persino in America, dove è sorta tale strategia neoconservatrice, sta mutando l’atteggiamento nei confronti della religione  e cresce l’insofferenza degli elettori  per una politica che si presenta come  più efficiente  perché più religiosa.(18)

La verità è  che “minoranze creative”(19) nella Chiesa e nelle Istituzioni sono ancora importanti  per avvertire “il respiro sempre nuovo del mondo”(20).

C’è un gran bisogno  di Comunità ove accogliere e unire giovani e meno giovani, di diversa provenienza, sulle cose da fare assieme  nell’interesse generale.   Senza imporre una dottrina, ma in piena aderenza al messaggio evangelico come perno  dell’azione quotidiana. Gruppi guidati da una morale non precettiva  ma centrata sul ruolo che  l’altro deve avere nei progetti di vita. Unità capaci di un’attenzione alla politica come impegno  per  un’azione che dà frutti, con un rapporto aperto e franco con le Istituzioni e le Gerarchie ecclesiastiche che può sfociare in dissenso, mai in rottura.

Credo ancora, insomma,  ad una  dimensione contemplativa nella ricerca di Dio  e all’autonomia della politica.

In tal modo non si rinunzia  ad affrontare i temi centrali del presente. Tutto altro. Si  avvertono solo, nel profondo, i pericoli storici di chiamare Dio a sostegno di contingenti scelte politiche. Si avverte anche che un confronto fra fede e ragione non può fissare facilmente i protagonisti, perché la comunità scientifica non ha una sola voce  e la Chiesa è Istituzione, ma anche “comunità che vive nella società umana e partecipa delle sue vicende” e proprio perché cattolica e missionaria non si identifica con nessuna condizione particolare:sociale, culturale, razionale” (21)

Non solo.

Il dialogo fra fede e ragione ha molti meriti e un limite perché ” l’essere umano è ben più di un soggetto dotato di una ragione” e perché oggi è soprattutto necessario “saldare  la razionalità con la dimensione corporea dell’uomo e delle sue percezioni sensibili, la sua cultura e la sua storia”. Per tutto ciò è necessario essere capaci di integrare  il pensiero “nei più vasti alvei della sapienza umana e delle religioni per capire che cosa possiamo fare e ciò che è giusto fare” (22).

Come ci ha ricordato di recente Habermas ” lo Stato non deve ridurre preventivamente la complessità polifonica delle diverse voci pubbliche…e le tradizioni religiose dispongono della capacità di articolare in maniera convincente sensibilità morali e intuizioni solidaristiche”(23). Ma proprio questa consapevolezza  richiede una politica e una cultura  capace di tenere conto di tutta la complessità dei messaggi religiosi per poi ridurre tale complessità con una sintesi autonoma e valida per tutti, credenti e non credenti.

Non mancano punti di incontro importanti sul tema dei diritti.

Di fronte (24) ai mutamenti vorticosi imposti dalle nuove tecnologie occorrono nuove consapevolezze giuridiche ed etiche nei confronti della vita e della morte, sottratte sempre più al determinismo della natura, mentre l’evoluzione sociale rende necessario un ripensamento della vita familiare e di coppia. Tutto ciò con un orientamento preciso.

Il punto di incontro non può esser trovato fra diverse concezioni del mondo e quindi fra diverse etiche  che convivono legittimamente nella società e non possono essere imposte.

Decisiva  è invece la forza del diritto (25) che deve fondarsi su di un ordine condiviso e la chiave di volta di un dialogo fra laici e credenti  sta nel “pensare che la sacralità della vita è la vita libera” perché “questo è il segno della creazione”. Una libertà che  ha un limite interno nella dignità come  sintesi dei diritti e doveri della persona e come orientamento nel definire regole per una  scelta consapevole nella procreazione,  per riconoscere l’efficienza del rifiuto delle cure, per fissare il riconoscimento giuridico della famiglia e di altri diritti comunitari dei singoli.

Libertà di scelta e centralità della persona, con i suoi diritti e doveri, sono  i centri per la edificazione di regole comuni, ma tutto ciò non lo si decide in un confronto fra sapienti e potenti, né può essere risolto una volta per tutte dal legislatore  perché i diritti non esistono in natura, non sono un dono di Dio o uno sport nazionale (Dworkin), ma  forme complesse prodotte da una molteplicità di fonti, tutte legittime in uno Stato di diritto.

Nuovi bisogni creano nuovi diritti e nuovi diritti nuove leggi in un processo circolare insostituibile.

C’è solo da sperare che scienziati, giuristi e politici facciano bene il loro lavoro e che  i credenti riflettano sul quel bel passo delle scritture ove si descrive la manifestazione di Dio, che appare, a Elia, non  nel  tuono o nel terremoto, ma come ” mormorio di un vento leggero” ( Primo libro dei Re 19,9°.11-13°)  espressione di umiltà nello sforzo di  comprendere e di forza paziente nelle difficoltà quotidiane dell’ azione.

 

 

2. I DIRITTI DI ULTIMA GENERAZIONE di Nicoletta Vettori

 

Sommario: 1. Introduzione. 2. Definizioni e questioni aperte. 3. Il ruolo del diritto nella tutela dei “nuovi diritti”. 3.1 I modelli di regolazione giuridica delle questioni bioetiche. 4. Le questioni di inzio-vita: le pratiche di fecondazione assistita e la sperimentazione genetica. 4.1 Brevi cenni sulle discipline in materia di procreazione medicalmente assistita adottate negli ordinamenti europei. 5. Le questioni di fine-vita: l’eutanasia. 5.1 Le diverse forme di eutanasia: definizioni e problemi. 5.1.1 Definizione giuridica di morte; eutanasia attiva/passiva; eutanasia volontaria/involontaria. 5.1.2 Questioni problematiche. 5.2 L’ordinamento italiano. 5.2.1 Il diritto al rifiuto dei trattamenti sanitari “fino a lasciarsi morire”. 5.2.2 Eutanasia attiva ed aiuto al suicidio (diritto a morire e ad essere aiutato a morire?). 5.2.3 Il problema dell’eutanasia in caso di soggetto incapace. 5.3 L’eutanasia negli ordinamenti giuridici.

 

•1.      Introduzione

 

Ormai da alcuni anni si parla, ancora dubitativamente, di diritti “di ultima generazione” con riferimento ad una pluralità di tutele legate all’esistenza stessa dell’uomo, nell’attuale e nelle generazioni future (26). Essi sono definiti anche “diritti dell’età della tecnica” dal momento che fronteggiano lo sviluppo scientifico e tecnologico nel mondo dell’informatica (pensiamo ad internet) ovvero nel campo delle pratiche biomediche o biotecnologiche (pensiamo ad es. alle tecniche di procreazione medicalmente assistita o alla sperimentazione genetica).

Nel presente lavoro tratterò i nuovi diritti connessi alle questioni bioetiche relative alle fasi di inizio e fine vita i quali sono ancora in fase di affermazione. In tale prospettiva, si discute della possibilità di riconoscere “un diritto a procreare” per quanto riguarda la procreazione medicalmente assistita ovvero un diritto a disporre della propria vita fino alla morte, nell’ambito della tematica dell’eutanasia.

Come avremo modo di osservare, la riflessione giuridica sta accompagnando il riconoscimento di questi “nuovi diritti” è resa particolarmente complessa e controversa dalla necessità di contemperare istanze profondamente diverse, di natura non solo giuridica e politica, ma anche etica e religiosa.

Nelle pagine che seguono si intende svolgere un’analisi comparata dei principi e “valori” costituzionali coinvolti e dei modelli di regolamentazione normativa che possono essere adottati in materia di inizio e fine vita, soffermandosi poi su alcune delle esperienze più significative, emergenti nel quadro europeo ed internazionale, in materia di procreazione medicalmente assistita e di eutanasia.

In via preliminare, tuttavia, merita svolgere alcune considerazioni sui principali nodi problematici e sulle difficoltà con le quali deve scontrarsi il dibattito giuridico in tema di “nuovi diritti”.

 

2. Definizioni e questioni aperte

 

Il settore del diritto che studia le tematiche in esame viene generalmente definito biodiritto perché si occupa dei problemi inerenti la tutela della vita fisica in ordine alle implicazioni giuridiche delle scienze mediche.

Questa materia si caratterizza per una serie di elementi di complessità che rispecchiano perfettamente la natura dei fenomeni indagati.

Il primo elemento di complessità è dato dal carattere necessariamente interdisciplinare del settore. La vita e la morte sono eventi sempre meno “naturali” e sempre più determinati dalla ingegneria tecnologica grazie alla quale l’uomo può decidere di “manipolare” l’inizio della vita o posticiparne la fine, ben al di là del naturale ciclo biologico. Lo sviluppo scientifico e tecnologico, perciò, impone al diritto di ripensare le proprie definizioni (di vita e di morte) e di predisporre nuove tutele. In questo processo definitorio entrano in gioco e si scontrano, prima ancora che diversi orientamenti giuridici, diverse concezioni filosofiche, etiche e religiose relative al significato da dare ai concetto di vita, di morte e di persona umana. In altre parole, la scienza giuridica in questa materia si trova di fonte alla necessità di dare risposte, – inevitabilmente parziali e temporanee – a domande fondamentali: quando inizia la vita, con la nascita o in un momento precedente? Quando si può parlare di persona? Quando si può parlare di morte? Nel definirla si deve tener conto solo delle dimensione fisica e, dunque, collegarla al venir meno delle funzioni biologiche (funzioni cardiache o celebrali), o si può lasciare spazio alla percezione soggettiva che ciascuno può avere della propria esistenza, del “tipo” di vita che si trova a vivere?

E’ evidente che le risposte a queste domande sono tutt’altro che semplici e provocano grandi scontri. Per queste ragioni il diritto soffre un costante “ritardo” dovuto da un lato, alla difficoltà di stare al passo con le continue evoluzioni scientifiche e dall’altro lato, alla necessità di elaborare discipline che raccolgano consensi ampi e quanto più possibile rappresentativi dei vari interessi coinvolti.

Il secondo elemento di complessità del biodiritto dipende dai beni giuridici che ne costituiscono l’oggetto. In queste materie la decisione giuridica non può che risultare il frutto di delicati bilanciamenti fra diritti, anche di rilievo costituzionale, che si trovano in potenziale contrasto: la libertà di autodeterminazione della donna versus la tutela del nascituro, nella disciplina dell’aborto; lo statuto giuridico dell’embrione versus il diritto di procreare dei genitori, nella disciplina della fecondazione artificiale; la tutela della vita o della dignità umana versus la libertà di disporre della propria vita da parte del soggetto malato, in materia di eutanasia.

Tali bilanciamenti sono resi ancora più difficili dall’equivocità semantica dei valori in gioco; i concetti di vita, di morte, di persona nonchè i diritti dei soggetti coinvolti nelle pratiche biomediche, infatti, possono assumere significati anche molto diversi.

In materia di procreazione medicalmente assistita o di aborto entrano in gioco le nozioni di vita e di persona umana. Si pone cioè il problema di stabilire quando inizia la vita ovvero, cosa parzialmente diversa, il momento a partire dal quale riconoscere l’esistenza di una persona datata di capacità giuridica e titolare di diritti e di obblighi variamente meritevoli di tutela. Vita umana e persona, perciò, sono concetti che non si sovrappongono completamente. Pertanto, l’estensione più o meno ampia che viene riconosciuta in un ordinamento al concetto di persona condiziona lo statuto giuridico riservato all’embrione e dunque, la disciplina delle pratiche connesse al generare o al non generare.

Le problematiche di fine-vita chiamano in causa principi tanto fondamentali quanto “polisemantici” quali il diritto alla vita e la dignità umana. Una questione attualissima, ad esempio, riguarda la possibilità di ritenere che il diritto alla vita comprenda in sé il diritto a disporre della propria vita. Secondo alcuni autori ciò sarebbe senz’altro escluso, dal momento che l’ordinamento riconosce non il diritto sulla vita, ma il diritto alla vita il quale si pone come diritto assoluto, irrinunciabile ed indisponibile che lo Stato deve proteggere anche contro la volontà del singolo individuo (27).

Secondo un’altra interpretazione, invece, il diritto alla vita proprio perché inviolabile, e dunque dotato dei caratteri dell’indisponibilità, dell’inalienabilità, dell’irrinunziabilità , non può spettare che al suo titolare e si sostanzia nella possibilità giuridica di ciascuno di disporre, positivamente o negativamente, della libertà, cioè “della libertà di decisione sulla propria libertà”(28).

Il principio di dignità umana, poi, pone questioni altrettanto controverse. In primo luogo non vi è concordia sull’identificazione della sua natura. Secondo alcuni è un diritto soggettivo individuale ed autonomo, secondo un’altra interpretazione, invece, pare avvicinabile più ad un principio fondamentale, una sorta di”pre-condizione” dei diritti umani di volta in volta specificabile,  che non ad un bene giuridico determinato, protetto da un particolare diritto (29).

Quanto al contenuto concreto della dignità esistono almeno due interpretazioni: può essere intesa come un valore assoluto, un attributo dell’umanità e come tale indisponibile da parte dei singoli oppure può essere intesa come declinazione del principio di autodeterminazione che, all’opposto, impone di valorizzare al massimo le scelte individuali sulla propria condizione.

Non si può non considerare, inoltre, che il significato che ciascun ordinamento attribuisce a tali concetti è fortemente condizionato dalla storia del suo popolo nonché dalle correnti, in senso lato, culturali che ne caratterizzano la coscienza sociale. Pensiamo, ad esempio, in Italia alle influenze che provengono dalla cultura cattolica da sempre dominante nel contesto sociale e politico del Paese. Oppure all’esperienza storica (nazismo) che ha condizionatol’ordinamento tedesco, ove il principio di dignità è sancito dal art. 1 della Costituzione federale quale valore supremo, estraneo a qualsivoglia forma di bilanciamento perché a priori prevalente rispetto ad ogni altro diritto.

In questa prospettiva, appare evidente che l’indeterminatezza dei concetti chiamati ad esprimere i beni giuridici protetti dal biodiritto rende la scelta giuridica non solo “faticosa”, ma estremamente mutevole perché soggetta alle variabili storiche ed ai cambiamenti della coscienza sociale.

Infine, un ultimo profilo di complessità di questo settore nasce dal fatto che le discipline “bio-giuridiche”, talvolta, incidono su istituti non immediatamente collegati ai problemi di inizio e fine vita, eppur fortemente condizionati dal modo in cui suddetti problemi vengono regolati.

Pensiamo ad esempio all’incidenza che può avere la tecnologia genetica sulle nozioni di famiglia o di filiazione. Come vedremo, infatti, l’individuazione dei requisiti soggettivi necessari per ricorrere alla fecondazione assistita si collega direttamente al modello di famiglia che un ordinamento intende tutelare. La decisione di vietare il ricorso a tale pratica alle donne single – ed alle coppie omosessuali – propria della legge italiana (n. 40/2004) o di quella francese (legge del 1994, come riformata nel 2004) risponde all’intenzione di preservare la centralità della famiglia nucleare fondata sul matrimonio. Diversamente, la massima liberalità della omologa disciplina spagnola si inserisce nel processo di riforma del diritto di famiglia, che ha portato al riconoscimento delle c.d. unioni registrate e dei matrimoni omosessuali.

 

3. Il ruolo del diritto nella tutela dei “nuovi diritti”

 

La delicatezza dei fenomeni relativi alle fasi di inizio e fine vita rende opportuna una considerazione sul ruolo che può, o deve, svolgere il diritto in queste materie. Ci si chiede, infatti, se sia opportuno che il diritto intervenga con apposite discipline ed eventualmente attraverso quali fonti e quali tecniche di normazione (30).

A mio parere, se il compito del diritto è quello di ordinare la società, sembra del tutto legittimo, se non doveroso, che provveda ad “organizzare” anche aspetti così sensibili e problematici. Naturalmente, le decisioni giuridiche sul tema dovranno essere costantemente aggiornate alla luce degli sviluppi delle scienze mediche ed adeguate ai mutamenti della sensibilità sociale e culturale, ma né le une né gli altri possono esaurire la dimensione giuridica che deve mantenere una sfera di autonomia.

Il diritto, infatti, non deve appiattirsi acriticamente sui traguardi della scienza e della tecnica: non perché una cosa è possibile dev’essere indiscriminatamente permessa. Le risultanze scientifiche, dunque, devono rappresentare un apporto conoscitivo di cui l’operatore tiene conto nell’esercizio delle proprie competenze – il legislatore nella predisposizione delle norme e il giudice nella soluzione dei conflitti – ma il giurista non può sentirsi deresponsabilizzato o delegittimato dal progresso. Deve, piuttosto, prendere posizione alla luce dei valori fondamentali dell’ordinamento, stabilendo caso per caso quali principi possono seguire l’evoluzione scientifica e quali, in quanto indeclinabili, devono opporvisi e semmai tentare di guidarla (31).

Quanto al merito delle decisioni, sembra naturale ritenere che nei regimi democratici basati sul pluralismo politico ed istituzionale, il diritto (ed in particolare, la legge) non dovrebbe far propria una particolare opzione etica o religiosa, imponendola attraverso la sanzione di ogni comportamento che devii da tale opzione; dovrebbe, invece, ricercare degli equilibri minimi che consentano la soddisfazione (o almeno la coesistenza) delle molteplici convinzioni etiche presenti nel contesto sociale. Compito del diritto dovrebbe essere quello di bilanciare le contrapposte visioni, o meglio, dettare i criteri sulla base dei quali il bilanciamento possa essere effettuato, nei casi concreti, dagli operatori ed eventualmente dai giudici.

 

3.1 I modelli di regolazione giuridica delle questione bioetiche:  le fonti del biodiritto

 

Chiarita l’opportunità dell’intervento giuridico in questo settore, ed il ruolo di mediatore che il diritto dovrebbe esercitare tra le sollecitazioni provenienti dal mondo scientifico e le istanze emergenti dalla realtà sociale e culturale, è interessante considerare i modelli di regolazione giuridica che possono essere adottati in riferimento alle questioni bioetiche (32). Al riguardo sono possibili almeno tre soluzioni.

La prima soluzione propende per un modello, per così dire, “astensionista” e ritiene che il diritto – ed in particolare la legge – non sia uno strumento adeguato a disciplinare materie tanto delicate. Secondo questa prospettiva la regolamentazione ideale del biodiritto è quella che si affida all’autocontrollo da parte della comunità medico-scientifica; la disciplina di riferimento, perciò, è contenuta prevalentemente nei codici deontologici o nelle c.d. linee guida predisposte dagli operatori del settore.

Tale scelta di astensione non va confusa con le patologiche lacune normative dovute all’incapacità o ai ritardi decisionali dei legislatori (es. situazione italiana in materia di procreazione medicalmente assistita prima della legge n. 40 del 2004). Si tratta di una precisa convinzione metodologica che vuole lasciare inlcampo bioetico quanto più libero possibile da norme generali vincolanti.

Questo è il modello scelto, ad esempio, negli Stati Uniti in riferimento alla procreazione medicalmente assistita: non ci sono discipline legislative specifiche, ma la materia è regolata dalle linee guida dettate dalle associazioni mediche (v. infra § 4.1).

Analogamente la Svizzera adotta questo modello in tema di eutanasia, ed infatti nel silenzio della normativa l’Accademia svizzera delle Scienze Mediche ha elaborato delle direttive c.d. medico-etiche che fissano le condizioni per la pratica dell’aiuto al suicidio (ammesso, sulla base art. 115 cod. pen., se motivato da ragioni non egoistiche) e affermano la legittimità tanto dell’eutanasia attiva indiretta che dell’eutanasia passiva, anche involontaria (v. infra § 5.4).

Il secondo ed opposto modello chiede al diritto un intervento “forte”; ritiene cioè che sia doveroso non solo regolare, ma dettare una disciplina quanto più possibile puntuale e completa delle materie bioetiche. In particolare, la legge, quale espressione della volontà della maggioranza, deve far propria una particolare opzione etica (quella maggioritaria appunto!) e conseguentemente individuare un solo interesse da tutelare o comunque da tutelare in modo prevalente. E’ chiaro, perciò, che in questa prospettiva la fonte primaria nella regolazione dei fenomeni in esame è la fonte legislativa cui spetta di tutelare il bene giuridico prescelto, imponendo limiti e divieti di regola assistiti dalla sanzione penale. Come avremo modo di vedere, esempi di questo approccio normativo sono la legge italiana (l. 40 del 2004) e la legge tedesca (Embryonenschutzgesetz del 13-12-1990) in materia di fecondazione assistita le quali, seppur con diverse condizioni e modalità, pongono al centro la tutela della vita, dell’integrità e della dignità dell’embrione umano, fissando una gerarchia di valori tutta a favore del concepito (33).

Il terzo modello, infine, propende per l’intervento di un diritto “debole” che dal punto di vista delle tecniche di normazione, sia frutto di un dialogo pluralista e interdisciplinare e si traduca in regole aperte anche all’integrazione di fonti extragiuridiche; mentre dal un punto di vista dei contenuti, valorizzi la sua funzione permissiva adottando norme facoltizzanti che garantiscano la libertà di scelta a tutti i soggetti interessati. Secondo quest’impostazione sono opportune discipline che permettono agli individui che, in loro coscienza, abbiano interesse o bisogno di ricorrere a certi trattamenti ed a certi processi tecnologici, di ricorrervi lasciando la libertà di non ricorrervi – o, se medici, di non praticarli – a tutti coloro che, per ragioni etiche, religiose o morali, non ritengono tali trattamenti dignitosi o ammissibili (34).

Ad esempio di questa soluzione possono essere indicate la disciplina Inglese (Human fertilisation and Embryology  Act del 1990) e quella Canadese (Assisted Human Reproduction Act del 2004) in materia di fecondazione assistita. Entrambe le normative, approvate a conclusione di un ampio e articolato dibattito che ha coinvolto tutte le categorie competenti sul tema (medici, filosofi, giuristi, cittadini ecc.), delineano delle regole, per così dire, procedurali e istituiscono un’Autorità garante con il compito di controllare e autorizzare, caso per caso, le tecniche più delicate o controverse (fecondazione post mortem, fecondazione eterologa ecc.). Sembra ispirarsi, almeno tendenzialmente, a questo approccio anche la legge italiana sulla interruzione volontaria di gravidanza (l. n. 194 del 1978). La normativa, una volta fissati i criteri del bilanciamento fra la tutela del nascituro e i diritti della madre ( praticabilità dell’aborto entro i primi 90 giorni, salvo gravi motivi connessi alla salute della donna), lascia spazio alla libertà di ciascuna donna di decidere in virtù delle proprie insindacabili convinzioni etiche o religiose: la ratio legis sta nel permettere l’aborto senza imporlo a chi lo ritenga moralmente inaccettabile, riconoscendo altresì il diritto all’obiezione di coscienza per i medici che non intendano praticarlo.

Ciascuna di queste soluzioni può suscitare critiche o adesioni determinate dal particolare orientamento ideologico che si segue. In questa sede, pare interessante considerarne le conseguenze sul piano dell’effettività della tecnica di normazione.

I vantaggi dell’autoregolamentazione (1° modello) derivano dal fatto che i codici deontologici e le linee-guida possono essere molto duttili rispetto alla legge: possono essere modificate con maggiore celerità ed hanno talvolta efficacia superiore proprio perché provengono dagli stessi soggetti che sono chiamati ad applicarle. Tuttavia, l’opzione per un modello astensionista nel quale il diritto si delegittima nella regolazione di certe materie ritenute sensibili, rinunciando così al proprio ruolo di scienza ordinatrice dei fenomeni sociali, suscita non poche perplessità.

In primo luogo, va considerato che i codici deontologici non sono il risultato di una decisione democratica bensì di cooptazioni interne ad una professione. Non si può ignorare, peraltro, che i professionisti sono parti in causa: sono al contempo autori e destinatari, controllori e controllati. Ma, in particolare, la “scelta di non scegliere” lascia il campo alle disparità di trattamento nei casi concreti, in violazione del principio di uguaglianza; in questo modo, le convinzioni etiche del singolo medico finiscono col prevalere sulla libertà di scelta e sui diritti del singolo paziente ossia del soggetto che dovrebbe essere tutelato dalla fonte di regolazione, quale che sia, scelta dall’ordinamento.

Altrettanto grave, infine, pare il rischio che le scelte mediche siano orientate non nel miglior interesse del paziente (c.d best interest), quanto piuttosto verso la minore probabilità di incorrere in responsabilità civile o penale, rischio che può ben presentarsi in riferimento alle richieste di eutanasia negli ordinamenti che la vietano.

La seconda soluzione, incentrata sul ruolo della legge come canale di affermazione dell’opzione etica dominante, si fonda sulla massima valorizzazione della democrazia rappresentativa, del principio di sovranità del parlamento e risponde ad una concezione del diritto in funzione di guida delle coscienze individuali. Questa, tuttavia, pone alcuni problemi sotto il profilo dell’effettività delle norme giuridiche. Infatti, la legge che in materia di bioetica fissa una disciplina dettagliata e precisa da un lato, è destinata ad un rapido invecchiamento in conseguenza della velocità dei progressi scientifici e dall’altro lato, si presta ad essere elusa in quanto non generalmente condivisa. Al riguardo è stato osservato che possono crearsi dei fenomeni di scollamento tra la realtà di fatto e la disciplina giuridica che pretenderebbe di regolarla, ovvero vere e proprie forme di disapplicazione di norme giuridiche non percepite, dagli operatori chiamate ad attuarle, rispondenti  alla giustizia sostanziale del caso concreto (35).

Tale aspetto emerge con una chiarezza da alcune ricerche che attestano il ricorso a certe pratiche, ad es. quelle eutanasiche, anche in Paesi che formalmente le proibiscono. Nella gran parte dei casi la norma viene semplicemente disattesa: le pratiche eutanasiche rimangono un fenomeno sommerso che, tuttavia, dimostra la discrasia fra i principi che l’ordinamento vorrebbe tutelare e l’effettiva tutela degli stessi. La rottura fra fatti e norme è ancora più netta quando alla violazione del divieto non corrisponde alcuna reazione dell’ordinamento. Esemplare in tal senso è stato il caso di un uomo, il sig.  Forzatti., che ha “staccato” le macchine che tenevano in vita la moglie ricoverata, da anni, in condizioni disperate ed irreversibili. Il Sig. Forzatti è stato assolto dalla Corte d’Assise d’Appello di Milano (36) sul presupposto che non poteva dirsi sufficientemente provato il nesso di causalità tra la condotta del marito e l’evento morte della moglie, dato che non si poteva escludere che la moglie non fosse morta prima. In altre parole, secondo la tesi dei giudici si trattava di “un omicidio impossibile per insufficienza della prova dell’esistenza in vita della persona che l’imputato avrebbe inteso uccidere”.  La norma penale è evidentemente forzata (anzi di fatto disapplicata) perché non considerata, nella specie, rispondente alla “giustizia sostanziale”.

Il terzo modello di regolazione  è ispirato alla garanzia del pluralismo e fondato sul principio di autodeterminazione individuale. La norma giuridica non tutela un interesse in maniera prevalente, ma individua dei criteri in base ai quali operare il bilanciamento tra vari diritti ed interessi potenzialmente coinvolti. Il legislatore, al fine di tutelare paritariamente tutte le concezioni etiche, ricorre a modelli di normazione “deboli” (permesso e facoltà) piuttosto che a misure coercitive (come l’obbligo o il divieto) inducendo l’interprete, in sede applicativa, ad operare attraverso una ponderazione tra principi piuttosto che all’applicazione di regole astrattamente determinate (37). L’elasticità, o come si dice la “mitezza”, di tale modello normativo sembra garantire maggiormente l’effettività e la “durata applicativa” delle discipline predisposte.

Senza nascondere una preferenza per il terzo, mette conto rilevare che i tre modelli trovano tutti concreta applicazione negli ordinamenti giuridici contemporanei producendo effetti diversi a seconda della realtà sociale e giuridica in cui operano.

Arrivati questo punto, però, merita considerare da vicino alcune esperienze concrete, tenendo separati i due piani delle fasi di inizio-vita e di fine-vita perché molto diverse sono le problematiche a questi connesse.

 

4. Le questioni di inizio-vita: le pratiche di fecondazione assistita e la sperimentazione genetica

 

Le questioni biogiuridiche relative alle fasi di inizio-vita che intendo affrontare riguardano la disciplina delle tecniche di fecondazione medicalmente assistita e la ricerca scientifica e tecnologica in campo genetico.

I beni giuridici che il diritto è chiamato a bilanciare, in questo settore, sono diritti fondamentali quali il diritto alla vita, la tutela della persona e quella dell’embrione, il diritto alla salute della donna, la libertà di autodeterminazione del genitore (o dei genitori), la libertà di ricerca scientifica, il diritto all’obiezione di coscienza degli operatori medici ecc.

In tale scenario, la categoria dei “nuovi diritti” è invocata da opposti versanti della dottrina giuridica. Da un lato, vi si ricorre per ricostruire lo statuto giuridico dell’embrione o, più in generale, per difendere il diritto alla vita del concepito (embrione o feto che sia). Da un altro lato, è utilizzata da chi rivendica il riconoscimento di un vero e proprio “diritto alla procreazione”, ovvero di “un diritto a costruire una famiglia”, quale espressione della libertà di autodeterminazione del genitore o dei genitori. Ed infine, si parla di “nuovi” diritti per qualificare le pretese che le generazioni future potrebbero vantare nei confronti delle generazioni oggi viventi, relativamente ai traguardi della sperimentazione genetica a scopo terapeutico.

In particolare, le difficoltà ed i limiti che la regolazione giuridica incontra in materia di inizio-vita possono essere ricondotti a due macro-questioni principali, entro le quali si misura lo scontro fra diverse concezioni etiche, filosofiche e religiose.

La prima macro-questione è quella dello statuto giuridico da attribuire all’embrione e del modo in cui possono essere delineati i rapporti tra la tutela di questo ed i diritti potenzialmente in confitto. Sul tema si contrappongono due orientamenti.

Un primo orientamento equipara l’embrione alla persona umana e nega legittimità a qualsiasi tecnica che abbia l’effetto di impedire, non solo la gravidanza, ma anche la fecondazione dell’ovulo; in questo modo si giustifica, in assenza di un’espressa previsione legislativa, un diritto all’obiezione di coscienza degli operatori rispetto a tutte le tecniche, o i farmaci, che producono tali effetti (38). Secondo i sostenitori di questa posizione, la disciplina delle pratiche bioetiche connesse alla procreazione dovrebbe garantire primariamente, e cioè con prevalenza su ogni altro interesse coinvolto, la salvaguardia del diritto alla vita del nascituro.

Secondo un altro orientamento, invece, l’embrione non può essere giuridicamente considerato una persona, ma deve essere destinatario di specifiche regole che ne determinino lo status giuridico tenendo conto dei diversi gradi di sviluppo (ovocita fecondato, embrione, feto ecc.). Secondo questa prospettiva la regolazione delle fasi di inizio-vita dovrebbe tendere al bilanciamento fra le posizioni soggettive interessate e quindi, tutelare l’embrione al pari della libertà di autodeterminazione della donna, del “diritto a costruire una famiglia” dei genitori, della libertà di ricerca scientifica a scopo terapeutico ecc.

La seconda macro-questione, invece, si pone con riferimento ai modelli di “nuova famiglia” che possono legittimarsi, almeno di fatto, attraverso la liberalizzazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita. Infatti, come vedremo meglio nel prosieguo, l’individuazione dei soggetti che possono accedere a tali pratiche – l’età, il sesso, lo stato civile, le loro motivazioni – circoscrive la definizione giuridica di ciò che ogni ordinamento riconosce come “famiglia”. Ugualmente la scelta dei tipi di fecondazione da ammettere (omologa o eterologa ecc.) concorre a definire la nozione o meglio, le nozioni giuridiche di filiazione.

 

4.1 Brevi cenni sulle discipline in materia di procreazione medicalmente assistita adottate negli ordinamenti europei

 

Per analizzare le macro-questioni appena richiamate, passerò in rassegna le discipline adottate in materia di procreazione medicalmente assistita (di seguito, PMA) da alcuni degli ordinamenti appartenenti alla tradizione giuridica occidentale.

Peraltro, non essendo possibile, in questa sede, analizzare ciascuna delle diverse discipline (39), mi limiterò a svolgere un’analisi comparata dei principali aspetti che i legislatori hanno dovuto regolamentare.

In particolare, i diversi approcci alla questione dello status giuridico dell’embrione emergono con chiarezza dal modo in cui gli ordinamenti disciplinano le finalità per cui è prevista la PMA ed, in generale, la ricerca genetica sugli embrioni umani.

Le ripercussioni che la fecondazione artificiale può avere sulle nozioni di famiglia e di filiazione, invece, si possono evidenziare considerando il modo in cui vengono fissati i requisiti soggettivi per l’accesso alla PMA e il trattamento riservato alla fecondazione c.d. eterologa.

a) Le finalità della PMA, la diagnosi pre-impianto e la sperimentazione sugli embrioni umani

Il primo aspetto che si pone all’attenzione riguarda le ragioni per cui è consentito ricorrere alla PMA.

In alcuni Paesi la normativa è estremamente ampia e permissiva dal momento che da attuazione a diritti riconosciuti a livello costituzionale quali, ad esempio, il “diritto a costruire una famiglia”, e quindi, a perseguire favorevolmente un progetto procreativo, (così nella Costituzione spagnola) ovvero il “diritto a procreare” (contenuto nella Carta costituzionale greca).

La maggioranza degli ordinamenti, tuttavia, ha disciplinato la fecondazione artificiale attraverso leggi ordinarie permettendone il ricorso sia in caso di sterilità della coppia che nel caso in cui vi sia la probabilità o la possibilità di trasmettere al nascituro gravi malattie di carattere genetico (cfr., ad es., legislazione di Francia, Germania, Regno Unito). In questo senso la fecondazione artificiale non ha soltanto uno scopo riproduttivo, ma anche terapeutico.

Diversamente, le leggi italiana e austriaca, prevedono la PMA solo come rimedio contro la sterilità o infertilità della coppia, con la conseguenza che vietano l’accesso a tali pratiche alle coppie, non sterili, nelle quali anche uno solo dei due componenti sia portatore di una grave malattia ereditaria.

Un altro profilo, strettamente connesso al primo, che il legislatore ha dovuto affrontare riguarda l’ammissibilità della diagnosi pre-impianto ed in generale della sperimentazione sugli embrioni umani.

Le forme di sperimentazione ammesse negli ordinamenti appartenenti alla tradizione giuridica occidentale sono in particolare, la ricerca sulle cellule staminali e la “clonazione terapeutica”, ossia la tecnica diretta alla cura delle malattie attraverso la “produzione” di cellule staminali che condividono il medesimo patrimonio genetico del soggetto malato. Attraverso questi strumenti la diagnostica pre-impianto consente non solo di verificare la suscettibilità a determinate patologie dell’embrione da impiantare, ma anche di determinare la compatibilità di questo con il codice genetico di una persona già esistente al fine di eventuali donazioni di tessuti o organi. E’ questa la c.d.”procreazione terapeutica” grazie alla quale i genitori possono scegliere di concepire un figlio che sia geneticamente compatibile con un altro che necessita di cure.

Anche sotto questo profilo le scelte dei singoli ordinamenti sono molto diverse.

Talune normative, quali ad. es. quelle di Italia, Austria e Germania, sono decisamente restrittive: vietano in toto sia la ricerca sulle cellule staminali che ogni forma di clonazione, sicchè non consentono né la diagnosi pre-impianto né la crioconservazione degli embrioni prevedendo l’obbligo di impiantare tutti gli embrioni prodotti (che al massimo possono essere tre).

Altre normative, invece, ammettono la sperimentazione genetica entro determinati limiti; ad es., la Francia, con la riforma del 2004, ha liberalizzato la ricerca sulle cellule embrionali crioconservate, continuando a vietare la clonazione, anche terapeutica.

Non mancano, tuttavia, discipline estremamente avanzate, come quella inglese e spagnola, che non solo permettono, ma anzi promuovono ogni forma di sperimentazione genetica, con il solo divieto di clonazione umana a scopo riproduttivo.

L’atteggiamento, più o meno permissivo, di ciascun Paese è condizionato da due ordini di fattori che occorre adesso esaminare, e cioè dal diverso rilievo attribuito al diritto alla vita dell’embrione e dal diverso modo di percepire il rischio di derive eugenetiche.

Quanto al primo aspetto, occorre ricordare che le sperimentazioni genetiche implicano la distruzione degli embrioni prodotti a tali scopi, e che la diagnosi pre-impianto avendo lo scopo di garantire l’inseminazione con embrioni sani, comporta l’eliminazione di quelli che siano risultati malati.

Pertanto, la scelta di limitare al massimo il ricorso alle tecniche di procreazione artificiale e quella di negare ogni forma di sperimentazione genetica, rispondono ad una concezione basata sulla centralità degli embrioni e della necessità di dare loro tutela; proprio per queste ragioni sono dirette ad evitare che questi possano andare distrutti.

Va rilevato, tuttavia, che la salvaguardia della “vita” dell’embrione, ad ogni costo, va a scapito del diritto alla salute, oltre che della donna, anche del nascituro, perché l’obbligo di impiantare tutti gli embrioni creati e il divieto di diagnosi pre-impianto impongono al medico di dar corso alla PMA nonostante il rischio che l’embrione sia affetto da gravi patologie (40).

Questa opzione di valore, inoltre, limita fortemente la libertà di ricerca scientifica e quindi le aspettative di tutela delle persone affette da patologie alle quali la ricerca in questo campo potrebbe dare speranza o possibilità di guarigione. Pensiamo ad es. alla possibilità, poco sopra ricordata, di “procreazioni terapeutiche” o ai progressi che la ricerca scientifica può portare nella lotta ad alcune gravi malattie, ed ancora all’importanza della clonazione terapeutica per il trapianto degli organi ecc.

Quanto al secondo aspetto, è evidente che dietro i limiti posti alle sperimentazioni genetiche si nascondono paure e sospetti, sociologicamente non trascurabili, nei confronti dei possibili approdi eugenetici della ricerca scientifica in queste materie.

Forte è il timore che la diagnostica a finalità terapeutica possa trasformarsi in strumento di discriminazione genetica (predefinizione dei tratti somatici) o di selezione della specie. Coloro che paventano queste derive sottolineano il rischio chiamato, con terminologia anglosassone, delle slippery slope (letteralmente “china scivolosa”), secondo il quale il riconoscimento di certe pratiche, quali la ricerca sulle cellule staminali o la clonazione terapeutica, può verosimilmente far “scivolare” verso l’ammissione di comportamenti non voluti ed aberranti, quali la clonazione umana o la selezione eugenetica della specie (41).

b)I requisiti soggettivi 

La gran parte degli ordinamenti individua espressamente i soggetti che possono ricorrere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita. Ad esempio, le normative adottate in Italia (l. n. 40/2004), Francia (l. n. 94-654, riformata nel 2004) e Germania (Embryonenschutzgesetz del 13-12-1990) – così come quelle di Austria, Svizzera, Danimarca e Svezia – riconoscono l’accesso alla PMA soltanto alle coppie eterosessuali coniugate oppure stabilmente conviventi. In particolare, la Francia richiede che la convivenza duri da almeno due anni (42); la legge tedesca prevede che la coppia convivente sia sottoposta ad un colloquio con una Commissione istituita dall’Ordine dei medici (43); mentre la legge italiana stabilisce soltanto che la convivenza può essere provata mediante “dichiarazione sottoscritta dai soggetti richiedenti“, senza che sia necessario dar prova della stabilità nel tempo. Diversamente, la Spagna, l’Olanda, l’Inghilterra (44), non prevedono nessun requisito di coppia, pertanto in questi Paesi possono ricorrere alle tecniche di PMA anche le donne single e, in certi casi, le coppie omosessuali.

Un’altra questione legata ai requisiti soggettivi riguarda la possibilità di ammettere la fecondazione post mortem ossia l’impianto dell’ovulo fecondato dopo la morte del donatore. Questa pratica è vietata in Austria, Germania, Francia, mentre risulta permessa, a diverse condizioni, nel Regno Unito, in Grecia ed in Spagna.

Come ho precedentemente accennato la disciplina dei requisiti soggettivi per le tecniche di PMA si ripercuote sulla nozione di famiglia che ogni ordinamento intende legittimare.

La scelta di escludere le donne single e le coppie omosessuali dai soggetti ammessi al trattamento e il divieto di fecondazione post mortem propri della maggioranza degli ordinamenti mostrano chiaramente la volontà di salvaguardare il modello di famiglia “naturale” fondata sul matrimonio al quale viene equiparata, seppure entro certi limiti, solo l’unione di fatto eterosessuale. In questo senso, il diritto alla biogenitorialità eterosessuale del nascituro prevale sul “diritto di procreare” di donne che non siano legate, almeno da una relazione stabile, ad un partner maschile ed, ancor più, sul discusso “diritto a costruire una famiglia” rivendicato dalle coppie omosessuali (45).

c) La fecondazione eterologa

Un altro profilo affrontato dalle normative in materia di fecondazione artificiale attiene al tipo di tecniche utilizzabili. In particolare, la questione riguarda l’ammissibilità della fecondazione c.d. eterologa in quanto realizzata attraverso l’uso di materiale genetico appartenente ad un donatore estraneo alla coppia.

Tale tecnica è ammessa, seppur con diversi limiti e condizioni, in Francia, Spagna, Regno Unito, Canada e Stati Uniti. In Germania è ammessa solo la donazione del seme maschile, mentre in Italia è radicalmente vietata (46).

Le resistenze, in senso lato culturali, opposte alla fecondazione eterologa sembrano da ricondursi anche al fatto che attraverso tale pratica si verifica una scissione tra maternità e paternità biologico-genetica e maternità o paternità, per così dire, sociale: la filiazione è svincolata dalla derivazione biologica.

Ed infatti, i principali problemi che la giurisprudenza ha dovuto affrontare su questo tema hanno riguardato da un lato, casi di disconoscimento di paternità presentati dai partner maschili, come conseguenza di una sorta di “revoca del consenso” a tale procedura e dall’altro lato, la rivendicazione da parte dei figli di un “diritto” a conoscere la propria origine biologica.

Le soluzioni normative generalmente adottate per fronteggiare questi due problemi sono andate, per lo più, nel senso di a) prevedere un obbligo di anonimato del donatore, cui però è possibile derogare nel caso in cui la conoscenza del patrimonio genetico del figlio sia necessaria per esigenze di carattere sanitario; b) sancire formalmente l’inesistenza (ovvero l’impossibilità di far valere) qualsiasi vincolo di filiazione tra il nato ed il donatore; c) individuare un espresso divieto di disconoscimento della filiazione da parte dell’uomo (o della donna) che abbia consentito alla fecondazione eterologa, fatto salvo, in certi casi, il diritto del figlio di impugnare la genitorialità “sociale” (non biologica) ed ottenere il disconoscimento per via giudiziale.

Al di là dei rimedi pratici che il diritto può escogitare, emerge con chiarezza che la procreazione eterologa mette in crisi i concetti di famiglia e, ancor più, di filiazione. Alla famiglia fondata sul legame di sangue e alla filiazione come trasmissione di un patrimonio genetico, si sostituiscono forme di famiglia e filiazione “artificiali”, nelle quali la volontà della coppia (e non solo della donna, com’era in caso di aborto), ha un ruolo concorrente, o addirittura prevalente, sulla stessa realtà biologica.

Questo profilo appare molto evidente confrontando le diverse ipotesi di filiazione. In quella legittima ed in quella naturale, diritti ed obblighi conseguono al fatto biologico e permangono indipendentemente dalla volontà di mantenere il legame affettivo che ad essa si dovrebbe correlare. In caso di filiazione “artificiale”, invece, non è possibile revocare il consenso precedentemente prestato. Pertanto, gli effetti giuridici sono collegati nelle prime, al fatto biologico e nell’altra, alla volontà: non è possibile revocare la volontà così come non si può negare il fatto.

In questa prospettiva, si capisce che di fronte alle nuove frontiere aperte dallo sviluppo biotecnologico la scienza giuridica è costretta a ripensare le sue definizioni, nel caso in esame, di famiglia e di filiazione ed, in particolare, ad abbandonare una concezione monolitica di famiglia legittima e non artificiale in favore del riconoscimento di una pluralità di famiglie ovvero di un concetto “elastico” che possa assumere significati diversi a seconda del contesto in cui è utilizzato. Così l’affermazione dei “nuovi diritti” porta con sé un ripensamento di taluni dei “vecchi” (diritti) e necessariamente si scontra con la resistenza che quest’ultimi pongono al cambiamento.

In generale, il quadro delineato in materia di PMA mostra bene gli ostacoli che il diritto deve superare nella regolazione delle questioni bioetiche. Tra questi non ultima si pone la difficoltà (o forse il timore) di legittimare le prassi medico-scientifiche e le dinamiche sociali già in atto nella realtà di oggi, che sembrano sovvertire il tradizionale ordine delle cose.

 

5. Le questioni di fine-vita: l’eutanasia

 

Tra i diritti dell’età della tecnica assume un ruolo centrale la questione del possibile riconoscimento di “un diritto all’eutanasia” (letteralmente: diritto alla buona morte), inteso – per ora genericamente – come diritto del paziente in condizioni di malattia terminale di ottenere una morte indolore.

Le questioni che si intende esaminare si riferiscono soltanto all’eutanasia c.d. “pietosa” comprendente quei comportamenti, ispirati da un movente altruistico, che consistono nel dare risposta alla volontà, espressa o presunta (47), di un individuo in condizioni di malattia terminale che desideri porre fine alla propria esistenza, in quanto divenuta per lui inaccettabile (48).

Nel dibattito meta-giuridico che accompagna la questione del riconoscimento di “un diritto alla buona morte” si contrappongono antitetiche visioni del rapporto tra diritto alla vita e libertà di coscienza nonché diverse concezioni del principio di dignità inteso da alcuni, come valore assoluto ed indisponibile dell’umanità e da altri, come libertà di autodeterminazione.

Più in particolare, è stato osservato che sul problema relativo all’ammissibilità delle pratiche eutanasiche si confrontano due opzioni etiche: l’una detta pro life, l’altra detta pro choice (49).

Per la prima, la vita è un valore assoluto la cui difesa viene prima di qualsiasi altro valore. La vita è sacra in sé, dal suo concepimento al momento terminale, indipendentemente da qualsiasi attributo, stato o condizione ed è degna in sé perché è la dignità a costituire il fondamento della vita e non la vita a fondare la dignità. Non si può parlare, quindi, di vite degne di essere vissute solo per quelle caratterizzate da coscienza e vita di relazione poiché anche se permangono solo le funzioni vegetative, l’uomo non perde la propria condizione di essere umano (50).

In questa prospettiva, vita e dignità, in quanto valori “sacri” ed assoluti, non sono bilanciabili con nessuna altro valore e sono altresì indisponibili: il singolo non può in nessun caso rinunciarvi.

L’opzione c.d. pro choice, invece, ha come valori fondanti il principio di autonomia e la libertà di coscienza secondo i quali la decisione circa il modo ed il tempo della propria morte rientra tra le scelte fondamentali della vita di un uomo. Il diritto alla vita comprende il diritto di condurre la propria esistenza, anche nel suo atto finale, nel modo che ciascuno sente più adeguato e vicino al proprio modo di essere. Secondo questa impostazione, la vita è sì un valore, ma in quanto percepita come tale da chi la vive; la tutela della dignità di ogni uomo è garantita anche grazie al fatto che gli si riconosce la libertà di metter fine alla propria esistenza qualora, in sua coscienza, non la ritenga più degna di essere vissuta.

Alla luce di tali opposte concezioni ci si chiede quale atteggiamento debba tenere lo Stato ovvero quale ruolo debba (o possa) svolgere il diritto.

In termini generali, si potrebbe dire che a ciascuna delle opposte convinzioni etiche corrisponde una diversa idea del ruolo che dovrebbe svolgere il diritto nella regolazione dell’eutanasia. Secondo i sostenitori dell’opzione pro life, lo Stato dovrebbe tutelare la vita contro ogni comportamento che possa pregiudicarla; pertanto il diritto dovrebbe optare per un modello “impositivo” della vita, vietando l’eutanasia in ogni sua forma. Secondo l’opzione pro choice, invece, lo Stato non solo dovrebbe consentire le pratiche eutanasiche, rimuovendo le cause di illiceità delle condotte corrispondenti, ma anche porre in essere le condizioni per il riconoscimento dell’eutanasia come diritto positivo.

Tuttavia, se dal piano dei principi si scende a quello dell’esperienza concreta, ci si accorge che le differenze risultano meno nette ed inconciliabili (51). Per questa ragione, pare opportuno procedere ad un’analisi dei comportamenti e delle situazioni che vengono qualificati eutanasici al fine di evidenziare i principali problemi a questi connessi, vagliare il modo in cui sono disciplinati (o non disciplinati) nel nostro ordinamento ed infine, considerare come vengono regolati in alcuni ordinamenti appartenenti alla tradizione giuridica occidentale.

 

5.1 Le diverse “forme” di eutanasia: definizioni e problemi

 

Alla nozione, apparentemente unitaria, di eutanasia c.d. “pietosa” sono ricondotti comportamenti in realtà molto diversi. Nelle definizioni correnti le pratiche eutanasiche sono qualificate attraverso due binomi categoriali: eutanasia passiva/eutanasia attiva; eutanasia volontaria/ eutanasia involontaria. Come cercherò di spiegare nel corso della trattazione, tali categorie – seppur  generalmente utilizzate – non convincono fino in fondo perché non consentono di differenziare adeguatamente le diverse situazioni e non favoriscono, ma semmai rendono più arduo, il raggiungimento di posizioni condivise.

Cominciamo, tuttavia, con il fornire alcune definizioni.

 

5.1.1 Definizione giuridica di morte; eutanasia attiva/passiva; eutanasia volontaria/involontaria

 

Definizione giuridica di morte

Prima di ogni possibili definizione di eutanasia, è necessario chiarire quando questa non possa essere invocata perché non vi è più vita, ma è sopraggiunta la morte. Il punto di approdo dell’evoluzione in tema di definizione giuridica di morte (52), codificato in Italia nella legge 29 dicembre 1993, n. 578, è stato fissato nella nozione di morte celebrale che fa coincidere la fine della vita con il venir meno delle funzioni dell’encefalo. Pertanto, è escluso che si possa parlare di uccisione di un uomo – e quindi di eutanasia – qualora si interrompa i trattamenti vitali nei confronti di un soggetto a encefalogramma piatto, dal momento che si tratta di una persona giuridicamente già morta.

Eutanasia attiva e passiva

Come abbiamo detto l’eutanasia, genericamente intesa, consiste in comportamenti diretti a provocare la morte indolore di un uomo che si trovi in stato di malattia terminale e di grave sofferenza psichica e fisica. Guardando dal punto di vista di colui che pone in essere l’atto che provoca la morte, si distingue tra eutanasia passiva (lasciar morire) ed eutanasia attiva (provocare la morte).

La prima consiste nell’astensione dal porre in essere un trattamento terapeutico c.d. “salva-vita” che conduce alla morte del paziente e può essere realizzata sia con un’azione che con un’omissione. E’ il caso del medico che “stacca la macchina” (es. rimuove il respiratore artificiale o il sondino nasogastrico per l’alimentazione e l’idratazione artificiali, c.d. eutanasia passiva per azione) ovvero che non pone in essere la terapia rianimatoria, ad es. in caso di crisi respiratoria del paziente (eutanasia passiva per omissione).

Si parla, invece, di eutanasia attiva quando l’uccisione indolore del paziente in stato terminale è provocata intenzionalmente, attraverso la massiccia somministrazione di un farmaco (analgesico o antidolorifico). Nell’ambito di questa seconda categoria, si definisce “eutanasia attiva” vera e propria l’ipotesi in cui l’atto di somministrazione del farmaco letale è compiuto da un terzo (di regola un medico) ed “aiuto al suicidio” l’ipotesi in cui l’atto mortale è compiuto dal paziente stesso il quale assume autonomamente il farmaco, che il medico si è limitato a prescrivere.

Gli elementi, a mio parere, maggiormente indicativi della differenza fra eutanasia passiva ed eutanasia attiva sono due. In primis, nell’eutanasia passiva l’azione (od omissione) del medico segue (adempie) alla richiesta del paziente di “non essere curato”, richiesta che, come vedremo, è oggetto di uno specifico diritto riconosciuto da molti ordinamenti; nell’eutanasia attiva, invece, la richiesta del paziente è nel senso di “essere aiutato a morire” e questa, diversamente, non corrisponde a nessuna libertà espressamente garantita. In secundis, nel caso dell’eutanasia passiva l’azione (od omissione) posta in essere dal medico consiste nel lasciare che la malattia faccia il suo corso naturale, mentre nell’altro caso incide artificialmente sul ciclo biologico naturale, anticipando o provocando la morte innaturaliter (53).

Eutanasia volontaria ed involontaria

Guardando dal punto di vista del paziente, la distinzione comunemente adottata è quella fra eutanasia volontaria (o su richiesta) ed eutanasia involontaria.

La prima riguarda il caso del paziente cosciente, capace di intendere e di volere, adeguatamente informato (c.d. consenso/dissenso informato) che richiede di essere aiutato a morire, in modo passivo, per effetto della sospensione del trattamento che lo tiene in vita ovvero, in modo attivo, attraverso la somministrazione letale di un farmaco.

I paesi che hanno una disciplina ad hoc in materia (es. Olanda, Belgio ecc. su cui vedi infra § 5.3) distinguono due forme di richiesta: quella resa nella contingenza della malattia e quella preventivamente rilasciata attraverso le c.d. “direttive anticipate di trattamento” le quali, a loro volta, possono assumere la forma di direttive “di istruzione” (c.d. testamento biologico) o di delega (c.d. procura sanitaria). Il testamento di vita  è l’atto, redatto e sottoscritto dal soggetto nel pieno delle sue facoltà mentali, nel quale il firmatario indica i trattamenti sanitari che voglia ricevere o intenda rifiutare, nel caso in cui esso venga a trovarsi in stato di incoscienza nelle fasi finali della propria vita. Con la procura sanitaria, invece, il soggetto può indicare la persona alla quale intenda delegare la decisione sui trattamenti rianimatori o terapeutici cui debba essere sottoposto, sempre per l’ipotesi in cui egli non sia in grado di determinarsi autonomamente (54).

Si parla, molto problematicamente, di eutanasia “non volontaria” quando il paziente non abbia fatto alcuna richiesta e non sia più in grado di esprimere la propria volontà, in questi casi per l’assunzione delle decisioni terapeutiche si ricorre a forme di giudizio sostitutivo quale quello di congiunti, di amici, del tutore legale in accordo con i medici ecc. La questione si pone, ad esempio, per le persone in stato vegetativo divenute incoscienti a causa di una malattia o di un incidente che se idratate e alimentate artificialmente possono sopravvivere anche a lungo. Analoga situazione si verifica per i neonati gravemente handicappati che possono essere mantenuti in vita soltanto grazie ad interventi terapeutici, estremamente invasivi.

Nel caso del soggetto in stato vegetativo, chi propende per la legittimità dell’eutanasia invoca, come movente pietoso della stessa, il rispetto della vita passata della persona, del modo in cui ha vissuto e quindi, l’intenzione di onorare ciò che avrebbe deciso se fosse stato in grado di determinarsi. Di fronte ai neonati gravemente invalidi, d’altra parte, la scelta di non accanirsi con interventi terapeutici è giustificata dall’intento di non aumentare le loro sofferenze, in considerazione delle scarse aspettative di vita cui questi “esserini” sarebbero comunque destinati se mantenuti in vita artificialmente.

In verità, questa “forma di eutanasia”(ammesso che sia opportuno parlare di eutanasia in tali situazioni, v. infra § 5.2.3) pone problemi estremamente delicati dal momento che l’eventuale decisione medica, di interruzione delle cure o di induzione del decesso, non deriva dalla scelta libera e consapevole del diretto interessato, ma è frutto della volontà di un terzo.

 

5.1.2 Questioni problematiche

 

Come anticipato, le categorie appena richiamate rischiano, a mio parere, di essere disorientanti perché tendono ad accomunare situazioni, comportamenti ed interessi (diritti?) molto diversi che come tali sarebbe opportuno considerare separatamente.

Ed invero, alla base delle scelte giuridiche in questa materia vi sono concezioni etiche inconciliabili, pertanto il tentativo di “composizione di tali assoluti” (55), se tenuto a livello di categorie generali, è destinato a fallire drammaticamente, con la conseguenza ulteriore di estendere il conflitto ad aspetti che trovano espresso riconoscimento e generalizzato consenso.

Per questa ragione, mi sembra utile provare ad inquadrare le molteplici problematiche collegate a questo tema attraverso una diversa classificazione.

In primo luogo, ritengo che ciò che viene ricondotto sotto la categoria di eutanasia passiva possa essere definito e spiegato, con maggiore chiarezza, come espressione del diritto del paziente – riconosciuto in tutti gli ordinamenti della tradizione giuridica occidentale – di rifiutare le cure c.d. salva-vita e dunque, del diritto dello stesso di lasciarsi morire. L’espressione “eutanasia passiva”, al contrario, rischia di essere fuorviante perché qualificando questa situazione dal punto di vista del medico chiamato a staccare la macchina (o non porre in essere la terapia), focalizza l’attenzione sulla condotta di questo, e sulla qualificazione di liceità o illiceità della stessa, facendo perdere di vista il cuore del problema: la libertà del paziente di rifiutare le cure, anche se ciò può condurlo alla morte. In questa prospettiva, pare opportuno tenere distinta la trattazione del diritto al rifiuto delle cure da quella relativa alle forme di eutanasia (eutanasia attiva e aiuto al suicidio) che come vedremo hanno soluzioni non completamente coincidenti.

In secondo luogo, ritengo necessario evidenziare la profonda differenza che corre fra l’ipotesi relativa al soggetto capace di autodeterminarsi che aspiri ad “una buona morte” e l’ipotesi relativa ad un soggetto incapace, mantenuto in vita artificialmente.

Al riguardo, occorre precisare che, a mio parere, il modo più corretto di concepire l’eutanasia va nel senso di riconoscerla e costruirla come il “diritto alla propria buona morte” ossia come la libertà di ogni individuo di scegliere se e quando porre termine alla propria esistenza. Oggi che le scienze mediche permettono di prolungare la vita, oltre (per non dire contro) il naturale ciclo biologico, l’eutanasia può rappresentare una libertà che si pone non contro la natura, ma contro le invadenze della tecnica, la libertà di decidere della conclusione della propria vita, quale parte integrante del patrimonio di aspirazioni e di convinzioni che solo al singolo appartengono.

Diversamente, il dibattito circa l’ammissibilità di un generico “diritto alla buona morte” imputabile ai soggetti incapaci, rischia di ridursi allo scontro tra diverse opzioni etiche, in principio inconciliabili.

Come tenterò di illustrare, tali considerazioni mi portano a concludere per l’ammissibilità, alla luce del nostro ordinamento costituzionale, della pretesa ad una buona morte fatta valere da un soggetto che abbia espresso una volontà al riguardo, seppur con soluzioni parzialmente diverse per quanto riguarda il diritto di non curarsi fino a lasciarsi morire da un lato, e il diritto (?) ad essere aiutato a morire, dall’altro (v. infra.§ 5.2.1 e 5.2.2).

Quando invece il soggetto coinvolto non è capace di autodeterminarsi (e non ha lasciato alcuna indicazione) la questione è molto più delicata e complessa, tanto che in questa sede non posso che limitarmi a considerare i diversi casi che possono presentarsi, illustrando le soluzioni elaborate dalla giurisprudenza.

 

5.2 L’ordinamento italiano.

 

Nell’ordinamento italiano non esiste una disciplina ad hoc in tema di eutanasia. Tuttavia, la Costituzione all’art. 32, comma 2, riconosce il diritto di rifiutare i trattamenti sanitari, nella parte in cui prevede che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana“.

Diversamente l’eutanasia attiva e l’aiuto al suicidio, avendo come effetto l’uccisione di un uomo sono fatti rientrare tra i reati contro la persona, oggetto del capo I, titolo XII del codice penale che tutela l’interesse dello Stato alla salvaguardia della vita. In particolare, sono sanzionati dagli artt. 579 c.p. e 580 c.p. i quali prevedono, rispettivamente, l’omicidio del consenziente e l’aiuto al suicidio (56).

All’interno di una trattazione di diritto costituzionale il principale profilo da considerare riguarda la possibile copertura costituzionale dell’eutanasia; ciò anche al fine di stabilire quali limiti o direttive incontri il legislatore ordinario che disciplini questa materia e riflettere sulla conformità costituzionale del diritto vigente. In questa prospettiva, come ho accennato, occorre tener distinto l’indagine circa la configurabilità del diritto a rifiutare le cure fino a lasciarsi morire da quella relativa all’esistenza di un diritto a morire con l’aiuto diretto o indiretto di un  terzo.

 

5.2.1 Il diritto al rifiuto dei trattamenti sanitari “fino a lasciarsi morire”

 

In primo luogo occorre verificare se il riconoscimento costituzionale del diritto di rifiutare i trattamenti sanitari non obbligatori (art. 32, comma 2 Cost.) arrivi a coprire il rifiuto delle cure c.d. “salva vita” e quindi, comprenda la garanzia del diritto di lasciarsi morire.

Per rispondere a tale interrogativo è necessario considerare l’art. 32 della Carta costituzione il quale dispone: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo ed interesse della collettività (…). Nessun può essere obbligato ad un trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana“.

Della norma sono state date due letture.

Secondo una prima interpretazione, risalente ed ormai superata, la previsione dell’art. 32 Cost dovrebbe essere letta insieme all’art. 2 Cost. ove richiede “l’adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale”. Dal combinato disposto delle due norme si potrebbe ricavare che la Costituzione tutela la salute primariamente come interesse della collettività; pertanto, il cittadino sarebbe titolare di un diritto-dovere di curarsi a garanzia del benessere degli altri individui e del corpo sociale in generale.

Tuttavia, secondo l’opinione della dottrina e della giurisprudenza costituzionale oggi prevalenti, l’art. 32 Cost. riconosce la salute primariamente come diritto individuale che, in virtù del principio personalista che impernia la Costituzione, tende a prevalere sull’interesse della collettività, salvo ipotesi tassativamente previste. Ciò è dimostrato, oltre che dall’ordine logico in cui il diritto del singolo e l’interesse della collettività sono indicati nel testo, dalla lettera del comma 2, dal quale si ricava che al soggetto possono essere imposti “determinati” trattamenti sanitari (e non un generico obbligo di cura (57)), in casi eccezionali e tassativi in cui via sia una legge a prevederlo e purché ciò sia necessario a tutelare, oltre alla salute del singolo, interessi pubblici non altrimenti garantibili (58). Peraltro, la legge che eventualmente disponga un trattamento obbligatorio deve comunque garantire il rispetto della persona umana (59). In questa prospettiva, l’art. 32, comma 2, della Costituzione, tutela la libertà di autodeterminazione terapeutica ossia l’aspetto negativo del diritto alla salute, consistente nella libertà di non curarsi.

Questa interpretazione è avvalorata dalla lettura congiunta dell’art. 32 Cost. con gli art. 2 e 13 Cost. i quali sanciscono rispettivamente, il rispetto della persona e della sua dignità ed il principio di inviolabilità della libertà personale – intesa come libertà da qualsiasi coercizione sia fisica che psichica. Ogni paziente ha il diritto che venga rispettato il suo rifiuto di atti diagnostici e terapeutici anche qualora ciò appaia irragionevole agli occhi dei medici, in quanto ogni atto compiuto contro la sua volontà costituisce offesa e violazione della sua libertà.

In definitiva, secondo l’interpretazione dominante, dal combinato disposto degli artt. 2, 13 e 32, comma 2, Cost. si ricava, a contrario ma chiaramente, il riconoscimento costituzionale del diritto di non curarsi, del diritto di perdere la salute, del diritto anche di lasciarsi morire (60).

Naturalmente la garanzia della libertà di autodeterminazione terapeutica presuppone che il soggetto sia in grado di determinarsi in ordine alla propria salute ovvero sia in grado di conoscere e comprendere – sulla base di una corretta ed adeguata informazione che il medico è tenuto a fornire – le conseguenze della sua scelta e le possibili alternative terapeutiche (c.d. consenso/dissenso informato).

Sulla base di queste premesse, il rifiuto (rectius: dissenso informato) del paziente deve costituire il limite per ogni intervento del medico, il quale omettendo di curare nel rispetto della volontà dell’assistito non pone in essere alcuna omissione penalmente rilevante (61). Ed invero, riconoscere al paziente un diritto di rifiutare le cure, significa imporre al medico un dovere di rispettare tale volontà.

Tali conclusioni, generalmente condivise, spiegano bene il motivo per cui si ritiene improprio usare la consueta espressione di “eutanasia passiva”: il diritto di rifiutare le cure (fino a lasciarsi morire) è un diritto costituzionalmente garantito che, come tale, deve essere attuato e rispettato.

 

5.2.2 Eutanasia attiva ed aiuto al suicidio (diritto a morire e ad essere aiutato a morire?)

 

Una volta esaminati il fondamento ed i limiti del diritto di rifiutare le cure, occorre verificare se sia possibile rinvenire una copertura costituzionale dell’eutanasia attiva e cioè, se possa affermarsi esistente una garanzia costituzionale del diritto ad essere aiutato a morire (62).

La questione in esame vede contrapposte due tesi basate su diversi bilanciamenti della coppia di valori  vita/libertà. Iin particolare, i due orientamenti si fondano su interpretazioni opposte degli art. 2 e 32 della Costituzione.

Secondo un primo orientamento tali articoli sanciscono il carattere assoluto ed indisponibile del diritto alla vita. In questo senso, laddove l’art. 32 tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e vieta la violazione dei “limiti imposti dal rispetto della persona umana” intende tutelare la vita, nella sua accezione fisico-biologica, contro ogni aggressione (63). Pertanto, una legge che riconoscesse il diritto di morire, attraverso la legalizzazione dell’eutanasia attiva e dell’aiuto al suicidio, sarebbe senz’altro incostituzionale (64).

Un secondo orientamento ritiene invece, che dai principi di rispetto della vita e della persona umana ricavabili dall’ art. 2 della Costituzione, letti congiuntamente al principio di autodeterminazione terapeutica sancito dal secondo comma dell’art. 32, deriva il riconoscimento del diritto dell’individuo alla scelta in ordine alla propria morte. Il principio personalista che ispira l’intera Carta costituzionale valorizza l’autonomia individuale che non può non coprire anche momenti fondamentali della vita di un uomo, quali quelli della malattia e della morte. Pertanto, secondo questa prospettiva, il diritto di morire va colto nella sua dimensione di atto di libertà del singolo che non tocca lo Stato-comunità (65).

La dottrina che propone questa interpretazione ritiene che la morte, al pari della vita, non possono essere concepite come doveri, ma semmai come libertà. Ed invero, lo Stato non può punire la scelta di morire perché il suicidio (spontaneo e consapevole) è un atto d libertà. Ma se il suicidio è una libertà, sarebbe incostituzionale – per violazione del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) – negare tale libertà a qualcuno soltanto perché non è in grado di esercitarla autonomamente, a causa del suo stato di invalidità (66).

Come si potrà capire, sono possibili posizioni tanto divergenti perché dalla Costituzione non provengono indicazioni certe, pertanto l’interpretazione delle disposizioni costituzionali finisce con essere  influenzata dalle opzioni, in senso lato, culturali degli interpreti.

Volendo prendere posizione, sembra preferibile la lettura “personalistica” del combinato disposto degli artt. 2, 13 e 32, comma 2, Cost. perché più conforme all’impianto generale della Carta Repubblicana che pone come valori primari l’uomo (art. 2  Cost.) e le sue libertà (artt. 13-27 Cost). In questa prospettiva, la vita, fino al suo momento finale, non può che essere oggetto di una libertà individuale e non di un dovere che lo Stato-comunità può imporre in nome di un presunto interesse pubblico superiore.

Sulla base di questa impostazione ritengo di poter concludere che se è vero che la Costituzione non riconosce espressamente un diritto a morire (o ad essere aiutato a morire), è altrettanto vero che dalla sua lettera non deriva nemmeno un divieto costituzionale ad una sua regolamentazione.

In questo senso lo Stato, fermo restando il primario e fondamentale dovere di fornire ai soggetti malati e sofferenti tutte le cure necessarie a migliorare la loro salute ed alleviare le loro sofferenze, dovrebbe rispettare, ed accogliere, la richiesta spontanea e consapevole di un uomo che voglia porre termine alla propria esistenza, ormai fonte solo di sofferenza e privazioni. A tal fine il legislatore ben potrebbe – al pari di quanto accade in altri ordinamenti – disciplinare le condizioni (67), in presenza delle quali rendere possibile l’esercizio della “libertà di morire” del paziente, disciplinando altresì l’obiezione di coscienza per i medici che non vogliano, in virtù di proprie convinzioni etiche, assecondare le richieste eutanasiche.

A mio parere, infatti, la regolamentazione delle questioni bioetiche dovrebbe avvalersi di norme permissive (o facoltizzanti) in grado di assicurare il rispetto di tutti i soggetti coinvolti. In questo modo, il paziente che desidera porre fine ad una sopravvivenza che non “sente” dignitosa potrebbe ottenere una “buona morte”; il paziente che, in sua coscienza, non ritiene ammissibile il ricorso a pratiche eutanasiche non sarebbe obbligato a ricorrervi; il medico coinvolto nella cura del paziente che chiede di essere aiutato a morire non sarebbe obbligato ad assecondare tale richiesta, ma potrebbe fare obiezione di coscienza (affidando il malato ad un medico non obbiettore). Del resto, nell’elaborazione di una disciplina normativa una volta che siano stati tutelati gli interessi di tutti i soggetti coinvolti, non si capisce quale ulteriore interesse pubblico lo Stato dovrebbe salvaguardare (68).

 

5.2.3 Il problema dell’eutanasia in caso di soggetto incapace.

 

Se il diritto di rifiutare le cure, anche salva-vita, è pienamente assicurato e l’eutanasia attiva potrebbe, secondo una certa lettura, essere legittimamente riconosciuta quando la persona interessata è capace di autodeterminarsi, più problematica è la possibilità di configurare tali diritti in capo al soggetto incapace.

Data l’estrema complessità della questione, in questa sede non posso che limitarmi ad indicare le modalità in cui, a mio parere, andrebbero impostate eventuali soluzioni, dando conto altresì di alcune recenti decisioni giurisprudenziali.

A tal fine è necessario, prima di tutto, distinguere due ipotesi: quella in cui la persona, ormai incosciente, ha previamente espresso il proprio consenso al rifiuto delle terapie salvifiche, eventualmente necessarie a tenerla in vita; e l’ipotesi in cui la persona incapace non ha espressamente manifestato alcuna volontà.

a) Persona incapace che ha previamente manifestato la propria volontà

Quanto alla prima ipotesi, si osserva che dal punto di vista del riconoscimento costituzionale del diritto al rifiuto dei trattamenti sanitari, la volontà previamente dichiarata dal paziente sembra del tutto equiparabile a quella espressa in costanza della malattia con la conseguenza che si può sostenere che con tale dichiarazione il paziente ha esercitato il (suo) diritto al rifiuto della terapia che l’ordinamento riconosce.

In Italia – diversamente da quello che succede nella maggioranza degli ordinamenti – manca una disciplina sulle c.d. “direttive anticipate di trattamento”. Pertanto, in mancanza di una normativa che indichi i requisiti di validità del consenso previamente prestato, può porsi il problema di quale comportamento debba tenere il medico nel momento in cui il paziente, che pur ha dichiarato oralmente di non voler essere rianimato o di non voler essere mantenuto in vita artificialmente, cada in stato di incoscienza.

Al riguardo, merita segnalare un’interessante decreto adottato dal Tribunale di Modena (69), in funzione di giudice tutelare, il 13 maggio 2008 nel quale il giudice ha ritenuto che la norme del codice civile relative all’istituto della c.d. amministrazione di sostegno (artt. 404 e ss c.c.), abbiano già codificato una forma di testamento biologico.

L’art. 404 c.c. prevede che la persona affetta da un’infermità ovvero da una menomazione fisica o psichica, che si trova nella impossibilità di provvedere ai propri interessi può essere assistita da un amministratore di sostegno, che viene nominato dal giudice tutelare avuto riguardo esclusivamente alla cura ed agli interessi del beneficiario. Ai sensi dell’art. 408, comma 2, c.c., peraltro, l’amministratore di sostegno può essere designato anche dallo stesso interessato, in previsione della propria eventuale futura incapacità, mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata. Secondo il Tribunale di Modena la disposizione codicistica (art. 408, comma 2, c.c.) individuerebbe già lo strumento (atto pubblico o scrittura privata autenticata) attraverso il quale chiunque potrebbe formare il proprio testamento di vita, lasciando le proprie direttive anticipate di delega (c.d. procura sanitaria), ossia indicando la persona eventualmente legittimata a pretendere le decisioni mediche al suo posto.

b) Persona incapace che non ha dichiarato la propria volontà 

Quando il paziente si trova in stato di incoscienza (es. stato comatoso irreversibile) e non ha manifestato espressamente il proprio rifiuto alle cure (ovvero in caso di neonato gravemente handicappato) la questione non può essere risolta secondo i principi di autodeterminazione e libertà individuale. Non si potrebbe, infatti, parlare di eutanasia come “diritto alla propria morte” perché non c’è modo di conoscere quale sarebbe (o sarebbe stato) l’intendimento del paziente.

In queste situazioni, a mio parere, la corretta impostazione del problema richiede di stabilire chi e sulla base di quali criteri debba prendere le decisioni terapeutiche al posto della persona incapace.

La giurisprudenza italiana sul tema è piuttosto indietro rispetto a quella degli altri ordinamenti che pur presentano una disciplina dei fenomeni, latu senso, eutanasici simile alla nostra (v. infra § 5.3). Ed invero, secondo un’interpretazione a lungo seguita, in caso di soggetto incapace non si potrebbe neppure riconoscere un diritto al rifiuto delle cure. Tuttavia, una recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione ha segnato un vero e proprio ovverruling.

In proposito, è interessante considerare il caso Englaro nel quale sono emersi entrambi gli orientamenti.

Nelle decisioni con le quali il Tribunale di Lecco e la Corte di Appello di Milano (70) hanno, respinto la richiesta avanzata dal Sig. Englaro, padre e tutore della figlia interdetta Eluana, volta ad ottenere un ordine di interruzione dell’alimentazione forzata che tiene in vita la donna in stato vegetativo dal 1992, si legge che:” Ai sensi degli artt. 2 e 32 Cost. , un trattamento terapeutico o di alimentazione, anche invasivo, indispensabile a tenere in vita una persona non capace di prestarvi consenso, non solo è lecito, ma dovuto, in quanto espressione del dovere di solidarietà posto a carico dei consociati, tanto più pregnante quando, come nella specie, il soggetto interessato non sia in grado di manifestare la sua volontà. In base agli artt. 13 e 32 cost. Ogni persona, se pienamente capace di intendere e di volere, può rifiutare qualsiasi trattamento terapeutico o nutrizionale fortemente invasivo, anche se necessario alla sua sopravvivenza, laddove se la persona non è capace di intendere e di volere il conflitto tra il diritto di libertà e di autodeterminazione e il diritto alla vita è solo ipotetico e deve risolversi a favore di quest’ultimo, in quanto, non potendo la persona esprimere alcuna volontà, non vi è alcun profilo di autodeterminazione o di libertà da tutelare. L’art. 32 Cost. porta ad escludere che si possa operare una distinzione tra vite degne e non degne di essere vissute“.

Il ragionamento seguito in queste pronunce sembra operare nel senso che se il soggetto interessato non è in grado di manifestare la sua volontà e, quindi, di esercitare il suo diritto al rifiuto delle cure, si (ri)espande il potere dello Stato di tutelare la vita e di far sopravvivere comunque.

La Corte di Cassazione (sez I civ., n. 21748/2007) (71), pronunciandosi in ordine al medesimo caso, ha adottato un’interpretazione opposta, secondo la quale il valore supremo del diritto alla vita che deve essere garantito dallo Stato, tanto più nei confronti di una persona in stato vegetativo, non esclude che debba essere riconosciuta e rispettata la libertà di scelta del paziente in ordine al modo e al tempo della propria morte; scelta che questi può aver manifestato, non solo con una dichiarazione espressa, ma anche attraverso i suoi convincimenti e il suo stile di vita.

Afferma in tal senso la Corte “Accanto a chi ritiene che sia nel proprio miglior interesse essere tenuto in vita artificialmente il più a lungo possibile, anche privo di coscienza – c’è chi, legando indissolubilmente la propria dignità alla vita di esperienza e questa alla coscienza, ritiene che sia assolutamente contrario ai propri convincimenti sopravvivere indefinitamente in una condizione di vita priva della percezione del mondo esterno. Uno Stato, come il nostro, organizzato, per fondamentali scelte vergate nella Carta costituzionale, sul pluralismo dei valori, e che mette al centro del rapporto tra paziente e medico il principio di autodeterminazione e la libertà di scelta, non può che rispettare anche quest’ultima scelta. All’individuo che, prima di cadere nello stato di totale ed assoluta incoscienza, tipica dello stato vegetativo permanente, abbia manifestato, in forma espressa o anche attraverso i propri convincimenti, il proprio stile di vita e i valori di riferimento, l’inaccettabilità per sé dell’idea di un corpo destinato, grazie a terapie mediche, a sopravvivere alla mente, l’ordinamento dà la possibilità di far sentire la propria voce in merito alla disattivazione di quel trattamento (…).

Sulla base di questi presupposti, e richiamandosi ad un orientamento affermato nella giurisprudenza americana (c.d. dottrina del giudizio sostitutivo, su cui v. infra § 5.3), la Cassazione ha individuato due criteri che consentono al tutore di un paziente in stato vegetativo permanente di ottenere dal giudice, in contraddittorio con il curatore speciale, l’autorizzazione a sospendere i trattamenti di idratazione e alimentazione artificiali che tengono in vita l’incapace (72).

Le due pronunce citate (Cass. 21748/2007 e Trib. Modena 13.05.08) sono troppo recenti perché si possa capire quale seguito avranno; quel che è certo è che hanno riaperto il dibattito facendo balzare agli occhi – se ce n’era bisogno – il drammatico ritardo del nostro ordinamento in questa materia.

 

5.3 Brevi cenni sulla disciplina dell’eutanasia negli altri ordinamenti giuridici

 

Per quanto riguarda la disciplina dei comportamenti latu senso eutanasici,  i principali ordinamenti appartenenti alla tradizione giuridica occidentale si possono distinguere in due gruppi.

Nel primo rientrano quei Paesi (Usa, Italia, Gran Bretagna, Spagna) che riconoscono e garantiscono il diritto al rifiuto dei trattamenti diagnostici e terapeutici, anche se ciò può comportare la morte del paziente, ma vietano, sanzionando penalmente, l’eutanasia attiva e l’aiuto al suicidio. Il secondo gruppo, invece, è composto dai Paesi (Olanda, Belgio, Svizzera, Oregon ecc.) che oltre a riconoscere il diritto al rifiuto delle cure, hanno espressamente legalizzato l’eutanasia attiva e/o l’aiuto al suicidio, determinando le condizioni, sostanziali e procedurali, in presenza delle quali non sono punibili le condotte dei medici che provocano, o favoriscono, la morte indolore di persone in condizione di malattia terminale.

Per sottolineare le differenze fra queste due opzioni giuridiche, in dottrina si distingue fra gli ordinamenti che hanno adottato un modello a tendenza “impositiva della vita” e gli ordinamenti che propongono un modello a tendenza permissiva (73).

Secondo questa ricostruzione negli ordinamenti del primo modello la decisione su quale tipo di morte sia da considerarsi dignitosa non è lasciata alla scelta del singolo, ma è imposta dallo Stato in base od orientamenti di natura etica, religiosa o, in senso lato, culturale; tuttavia, si parla di modello non in toto impositivo, ma solo “a tendenza impositiva” perché è riconosciuto il diritto al rifiuto di trattamenti sanitari. Ugualmente, gli ordinamenti che hanno legalizzato l’eutanasia attiva e/o l’aiuto al suicidio sono definiti non in toto permissivi, ma “a tendenza permissiva” perché pur prevedendo soluzioni basate sulla scelta individuale e sul consenso informato del soggetto, non riconoscono un diritto a morire, limitandosi ad escludere la punibilità delle condotte eutanasiche.

Naturalmente la classificazione ha un carattere principalmente descrittivo e non esclude che vi possano essere differenze anche fra i paesi appartenenti allo stesso modello.

a) Come si è detto, gli ordinamenti che appartengono al primo gruppo proibiscono entrambe le forme di eutanasia attiva sanzionandole penalmente attraverso le fattispecie, variamente disciplinate, dell’omicidio del consenziente e dell’assistenza (o aiuto) al suicidio.

Tuttavia, merita evidenziare che tale divieto, non è incompatibile con l’utilizzazione delle cure palliative – cioè dirette ad alleviare le sofferenze del malato terminale – anche se possono avere l’effetto ulteriore di indurre la morte dello stesso. In altre parole, è ammesso il ricorso alla somministrazione di analgesici e antidolorifici, pur nella consapevolezza, generalmente accettata, che questi possono provocare o accelerare la morte del paziente.

Al riguardo si parla della teoria del “doppio effetto” (double effect doctrine) per riferirsi al fatto che nonostante si possa trattare tecnicamente di eutanasia attiva – la morte potrebbe essere causata dalle dosi di sedativo e non dal decorso naturale della malattia – si ritiene tale condotta eticamente giustificabile sulla base dell’intenzione di non provocare la morte, ma di alleviare sofferenze insopportabili.

Dal punto di vista giuridico, tale teoria è utilizzata per escludere la punibilità dei medici che hanno somministrato il farmaco risultato letale; in questo modo, si fonda sulla diversità di intento la punibilità o meno del medico che ha trasgredito il divieto di eutanasia.

D’altra parte, per quanto riguarda il riconoscimento e la garanzia del diritto al rifiuto delle cure si registrano alcune differenze.

In Italia, come si è osservato, manca una disciplina legislativa sulle “direttive anticipate di trattamento” e prima della predetta sentenza della Corte di Cassazione, la giurisprudenza italiana era orientata ad escludere il diritto di rifiutare i trattamenti sanitari in caso di soggetti incoscienti, sul presupposto che il principio di autodeterminazione terapeutica di cui all’art. 32, comma 2, Cost., non potesse essere invocato a favore di persone incapaci di intendere e di volere, rispetto alle quali doveva essere dato in ogni caso prevalenza al diritto alla vita.

Negli Stati uniti d’America, invece, la maggioranza degli Stati ha disciplinato i c.d. testamenti biologici (living will), con i quali la persona può lasciare delle indicazioni circa il modo in cui intende essere “trattato” nel caso in cui il decorso della malattia dovesse renderla incapace di manifestare la propria volontà. Va rilevato, tuttavia che con i living will il paziente può disporre solo del proprio diritto al rifiuto delle cure e non anche dell’eutanasia attiva. Ed invero, anche la Corte Suprema federale ha sempre escluso la possibilità di invocare e riconoscere l’esistenza di un right to die ed ha più volte ribadito la necessaria differenza tra lasciarsi morire, oggetto di un diritto costituzionalmente garantito, e chiedere di essere aiutato a morire (eutanasia attiva), pretesa che rimane illecita e sanzionata penalmente (costituisce un’eccezione lo Stato dell’Oregon su cui si dirà infra).

Negli USA, inoltre, il right to refuse medical treatment comprende la facoltà di rifiutare trattamenti terapeutici o di sostentamento (nei quali sono compresi l’idratazione e la nutrizione artificiali) non solo per il paziente cosciente, ma anche per quello che non sia più capace di intendere e di volere, con la differenza che in quest’ultimo caso viene imposta un onere della prova del rifiuto particolarmente rigorosa.

La giurisprudenza americana (in primis la Corte Suprema dello Stato del New Jersey), a partire dalla fine degli anni settanta (caso Quinlan, 1976), ha elaborato la dottrina del c.d. substituted judgement affermando che nel caso del paziente che si trova in stato comatoso irreversibile il diritto di rifiutare un trattamento medico per il mantenimento in vita può essere esercitato, attraverso il “giudizio sostituto” da parte di chi – familiare, amico intimo, ecc. – sia nella posizione migliore per adottare in sua vece decisioni di ordine medico. Attraverso pronunce successive ha individuato le modalità ed i criteri di svolgimento del giudizio sostitutivo (cfr. caso Conroy 1985, caso Jobes, 1987) (74).

La Corte Suprema federale degli USA si è per la prima volta occupata del tema con la decisione emessa nel caso Cruzan (1990) (75), nella quale ha affermato che il potere di disposizione in materia sanitaria non può che spettare al paziente stesso. In assenza di direttive anticipate di trattamento sanitario, si può far ricorso a procedure di esercizio del giudizio sostitutivo, ma soltanto se queste garantiscano il rispetto dell’effettiva volontà del paziente ossia purché sussistano “prove chiare, precise e convincenti circa la volontà del paziente di sospendere il trattamento sanitario”(76).

Una situazione tendenzialmente analoga è presente in Inghilterra ove il right to refuse medical treatment è riconosciuto anche al soggetto incapace, mentre le forme di eutanasia attiva continuano ad essere severamente punite (caso Diane Pretty, sentenza dell’House of Lord del 29 novembre 2001) .

b) Gli ordinamenti che possiamo ricondurre al secondo modello (Olanda, Belgio, Svizzera, Oregon) si caratterizzano per una disciplina dei comportamenti eutanasici ispirata ad una maggiore tutela della libertà di autodeterminazione del soggetto.

Pertanto, in tali ordinamenti il diritto di rifiuto delle cure è pienamente garantito sia al paziente cosciente che al soggetto incapace, attraverso la disciplina puntuale delle direttive anticipate di trattamento sanitario nonché, in alcuni casi, ammettendo la possibilità di provare, in sede giudiziaria, il rifiuto precedentemente manifestato dal soggetto, seppur non espresso in forma scritta.

Quanto all’eutanasia attiva volontaria sono necessarie alcune distinzioni.

L’Olanda (legge 10 aprile 2001, in vigore dall’aprile 2002, intitolata “Procedure di controllo dell’interruzione della vita su richiesta e dell’aiuto al suicidio” ) ed il Belgio (legge 22 maggio 2002) hanno optato per la legalizzazione dell’eutanasia attiva diretta e volontaria e dell’aiuto al suicidio. Tali normative prevedono che il medico che pone intenzionalmente fine alla vita di una persona su richiesta della stessa, nel rispetto dei criteri e delle procedure fissate dalla legge, non pone in essere una fattispecie penalmente rilevante. Resta, invece, reato compiere le stesse azioni nel mancato rispetto dei criteri fissati dalla legge. I requisiti, sostanziali e procedurali, che il medico deve accertare prima di accogliere la richiesta del paziente sono funzionali a garantire che la volontà dello stesso sia autentica e non viziata o momentanea ovvero che non si colleghi a stati depressivi causati dalla patologia invalidante. Tra i requisiti rientrano, ad esempio:

  • – l’esistenza di un gravissimo quadro clinico (Belgio), o l’accertamento di sofferenze fisiche intollerabili ed assenza di qualsiasi prospettiva di miglioramento (Olanda);

  • – requisiti di autenticità della richiesta (capacità di intendere e di volere, esistenza di un testamento biologico o della nomina di un tutore legale, informazione completa e consenso consapevole, assenza di stati depressivi, assistenza psicologica nella decisione ecc.);

  • – profili di cautela procedurale quali, ad esempio, la perdita dei diritti successori o di altri profitti patrimoniali per le persone – familiari, amici, ecc – delegate dal paziente a prendere la decisione al suo posto;

  • – obbligo per il medico di acquisire il parere di un altro collega circa il carattere irreversibile della malattia;

  • – facoltà per il medico che riceve la richiesta di fare obiezione di coscienza, con il dovere però di trasmetterla ad un altro medico disposto a darvi corso;

  • – controllo da parte di commissioni tecniche specializzate, ecc.

La situazione dell’ordinamento svizzero presenta alcune peculiarità legate al fatto che l’intervento normativo è molto scarno; pertanto, la regolazione del fenomeno è affidata a fonti extragiuridiche, in particolare deontologiche.

L’art. 115 del codice penale punisce l’istigazione e l’aiuto al suicidio solo se motivati da ragioni egoistiche, con la conseguenza che è ammesso l’aiuto al suicidio per motivi altruistici nei confronti di persone affette da gravi malattie o in condizioni di terribili sofferenze, anche se queste non ne abbiano fatto espressa richiesta.  In maniera del tutto contraddittoria, invece, l’art. 114 c.p., sanziona l’omicidio su richiesta della vittima motivato da pietà, ma non disciplina l’ipotesi di somministrazione di sostanze analgesiche che abbiano come effetto indiretto di accelerare la morte del paziente (eutanasia attiva indiretta), né la decisione di non iniziare, o non continuare, trattamenti terapeutici su persone che li abbiano rifiutati o che siano in condizioni irreversibili.

Nel silenzio della legge, la disciplina in materia è dettata dalle direttive medico-etiche elaborate dall’Accademia svizzera delle Scienze Mediche le quali affermano la legittimità tanto della richiesta di aiuto al suicidio che del rifiuto di terapie diagnostiche e terapeutiche, anche in caso di soggetto incapace.

L’Oregon infine, è l’unico stato degli USA che, con una normativa sorprendentemente liberale, ha previsto la legittimità dell’aiuto al suicidio, realizzato mediante la prescrizione (non somministrazione) di farmaci letali da parte del medico, escludendo la punibilità di tale condotta posta in essere nel rispetto delle condizioni prescritte. Tuttavia, l’Oregon Death with dignity Act (1994) precisa espressamente che la legge non autorizza, in alcun modo, i medici ad uccidere i pazienti con iniezioni mortali o con una pratica dell’eutanasia attiva.

Come negli altri ordinamenti appartenenti al secondo modello, si esclude la sanzionabilità penale di determinate condotte eutanasiche, ma non si riconosce un “diritto alla buona morte”.

 

SCHEMA N. 2 TESTAMENTO BIOLOGICO

 

Un eventuale testo normativo in materia di c.d. testamento biologico dovrebbe dare attuazione gli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione, pertanto dovrebbe prendere in considerazione (almeno) i seguenti temi:

 

•1)             L’efficacia vincolante per il medico della volontà manifestata dal paziente capace di intendere e di volere.

La nozione di “consenso/dissenso informato” attua il principio affermato dall’art. 32, 2 comma Cost. secondo il quale “Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana” e quindi esprime il ruolo centrale che nel rapporto medico-paziente assume la libertà di autodeterminazione terapeutica del paziente al quale, solo, spetta il diritto di scegliere liberamente se accettare o rifiutare (rectius: non iniziare e/o interrompere) i trattamenti sanitari considerati dai medici appropriati, in relazione alle sue condizioni di salute ed alla possibile evoluzione della sua patologia. In questa prospettiva si potrebbe prevedere quanto segue.

1 a) Il medico non può intraprendere alcuna attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito ed informato del paziente. In caso di espresso rifiuto di persona capace il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona.

1 b) Il consenso/dissenso al trattamento sanitario prestato dal paziente è sempre revocabile: il soggetto capace di intendere e di volere rimane libero di modificare il consenso e/o dissenso precedentemente manifestato e può, durante il decorso della malattia, chiedere di sospendere un trattamento sanitario precedentemente iniziato o, viceversa, di essere sottoposto ad un trattamento precedentemente rifiutato.

1 c) In ogni caso la volontà manifestata dal paziente resta valida e vincolante per i medici anche per il periodo successivo alla perdita di capacità naturale ovvero della facoltà di comunicare. Le volontà del malato, compreso il rifiuto, devono essere rispettate dai sanitari anche qualora ne derivi un pericolo per la salute o la vita del paziente ed esentano gli stessi sanitari da qualsiasi forma di responsabilità civile, penale o amministrativa.

 

2) La disciplina del testamento biologico, inteso come il documento attraverso il quale ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere può dichiarare i trattamenti sanitari cui intenda essere sottoposto ovvero che intenda rifiutare (rectius: non iniziare e/o interrompere) nell’eventualità in cui non sia più in grado di esprimere la propria volontà a causa della sopravvenuta perdita della capacità naturale.

2 a) Sarà opportuno fissare le regole di formazione di validità ed efficacia del testamento di vita, prevedendo, ad esempio, che debba essere redatto in forma scritta, alla presenza di due testimoni scelti dal soggetto (es. parenti e/o congiunti, o viceversa come previsto dai testi normativi vigenti negli Stati degli USA (77) da persone che non devono essere legate al soggetto da alcun vincolo di parentela o di affinità, né devono essere destinatari in tutto o in parte dei suoi beni dopo la morte) e ricevuto da determinati soggetti (es. notaio, avvocato, medico curante, direttore sanitario della struttura ospedaliera in cui il soggetto è ricoverato); che abbia una validità temporale limitata (es. 5 anni) e debba, quindi, essere confermato o rinnovato ogni tot anni (cosicché non si possa dubitare dell’attendibilità di una dichiarazione fatta molti anni prima dall’insorgere della malattia o dal verificarsi dell’incidente invalidante).

2 b) Sarà opportuno definire quali volontà possono essere oggetto del testamento biologico, al riguardo, si potrebbe prevedere che:

Il testamento biologico può contenere la volontà espressa della persona di:

– rifiutare ogni trattamento diagnostico e/o terapeutico.

– rifiutare qualsiasi forma di rianimazione o di prolungamento dell’esistenza dipendente da apparecchiature, o alcune forme di rianimazione,

– di non essere sottoposta all’alimentazione e/o idratazione artificiale o per mano di terzi;

– di poter fruire in caso di sofferenze anche psicologiche ritenute personalmente inaccettabili, degli opportuni trattamenti analgesici anche quali gli stessi possano anticipare o accelerare il decorso naturale della malattia, riducendo le proprie aspettative di vita;

2 c) Il testamento biologico mantiene validità ed efficacia vincolante per i medici anche nel caso in cui il soggetto abbia perso, a causa di una malattia o di un incidente, la capacità naturale o la facoltà di esprimersi.

2 d) In situazioni di emergenza il medico può intervenire in assenza del consenso della persona incapace nel caso in cui la sua vita sia in pericolo ovvero la sua integrità fisica sia minacciata a causa di un evento accidentale e imprevedibile, ma qualora la persona interessata abbia redatto un testamento di vita il medico dovrà conformarsi alle dichiarazioni ivi contenute eventualmente interrompendo i trattamenti terapeutici e/o di sostegno vitale intrapresi che il soggetto aveva espressamente rifiutato.

 

3) Procura sanitaria (nomina di fiduciario).

Con il testamento biologico, o nel rispetto delle forme previste per la redazione dello stesso, ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere può nominare un fiduciario abilitato a curare l’osservanza delle dichiarazioni contenute nel testamento ovvero ad assumere le decisioni terapeutiche in suo luogo e per suo conto nel caso in cui abbia perso la capacità naturale o la facoltà di esprimersi. In particolare la persona nominata potrà assumere le medesime decisioni che possono formare oggetto del testamento biologico, ai sensi dell’articolo 2 b).

3 a) La persona nominata che presta o rifiuta il consenso ai trattamenti di cui all’articolo 2, per conto di altri che versi in stato di incapacità, è tenuto ad agire nell’esclusivo e miglior interesse dell’incapace, tenendo conto della volontà espressa da quest’ultimo in precedenza, nonché dei valori e delle convinzioni da lui notoriamente espressi.

3 b) In caso di divergenza fra le decisioni della persona nominata e le opinioni dei sanitari che si occupano del paziente è possibile presentare ricorso, è possibile il ricorso senza formalità, da parte dei soggetti in conflitto o di chiunque vi abbia interesse, al giudice tutelare, che decide tenuto conto della volontà precedentemente espressa dall’incapace nonché delle convinzioni e dei valori che gli sono propri.

 

4) Il consenso/dissenso al trattamento sanitario dei soggetti incapaci

4 a) Il consenso al trattamento sanitario del minore di sedici anni è accordato o rifiutato dagli esercenti la potestà genitoriale, la tutela o l’amministrazione di sostegno. Il consenso al trattamento sanitario del soggetto maggiorenne, interdetto o inabilitato, legalmente rappresentato o assistito è espresso dallo stesso interessato unitamente a tutore o al curatore. Le decisioni dei rappresentati dell’incapace devono essere adottate avendo come scopo esclusivo la salvaguardia della salute psico-fisica del minore, dell’interdetto o inabilitato.

4 b) Nel caso in cui il consenso o dissenso al trattamento sanitario del minore che ha compiuto i sedici anni comporti serio rischio per la sua salute, la decisione del minore deve essere confermata dagli esercenti la potestà genitoriale, o la tutela o l’amministrazione di sostegno.

4 c) In caso di divergenza fra i soggetti legittimati a prestare il consenso o il dissenso al trattamento sanitario dell’incapace e i medici curanti è possibile il ricorso senza formalità, da parte dei soggetti in conflitto o di chiunque vi abbia interesse, al giudice tutelare, che se risultano delle dichiarazioni anticipate di trattamento decide conformemente ad esse.

 

5) Interruzione dei trattamenti terapeutici e/o di sostegno vitale in caso di paziente incapace in stato patologico terminale ed irreversibile.

La tematica in esame riguarda il caso di soggetti incapaci che non hanno lasciato direttive anticipate di trattamento e/o non hanno nominato un fiduciario, e si trovano in condizione di malattia terminale, cioè in uno stato patologico incurabile cagionato da malattia o da lesioni dal quale, secondo cognizione medico-scientifica, consegue la inevitabilità della morte , il cui momento sarebbe solo ritardato se si facesse ricorso a terapie di sostenimento vitale (di rianimazione o di nutrizione artificiale).

La regolazione di queste situazioni, le quali nel caso in cui fosse emanata una legge sul testamento biologico dovrebbero rappresentare casi eccezionali, si presenta particolarmente complessa e delicata. In questa sede si possono soltanto indicare alcune possibili linee direttive sui cui riflettere.

5 a) L’interruzione dei trattamenti terapeutici e/o di sostegno vitale dovrebbe essere subordinata all’accertamento, da parte di un equipe di medici, dello stato terminale ed irreversibile del paziente in presenza del quale la prosecuzione delle cure, non potendo fondatamente portare beneficio per la salute del paziente e/o un miglioramento della qualità di vita, comporterebbe una forma di accanimento diagnostico-terapeutico.

5 b) Dovrebbero essere individuate alcune regole procedurali quali ad es.:

– la competenza di un equipe di medici esperti in diverse discipline (es. un neurologo, uno psichiatra e ed un medico specializzato nella patologia di cui è affetto il paziente);

– la legittimazione ad opporsi all’interruzione delle terapie da parte di determinati soggetti;

– la possibilità di somministrare analgesici al momento del distacco delle macchine per evitare al malato inutili sofferenze.

5 c) Dovrebbe essere legalmente fissata  l’obiezione di coscienza per il personale sanitario, qualificando come un atto contrario alla deontologia professionale il rifiuto da parte dei medici “obbiettori” di adoperarsi per affidare il paziente ad un collega disposto a dar seguito alla richiesta dello stesso (78).

 

 

3. IL DIVORZIO IN EUROPA E LE PROSPETTIVE DI RIFORMA IN ITALIA di Antonio Gorgoni

 

Sommario: 1. “I principi di diritto Europeo della famiglia sul divorzio e il mantenimento tra ex coniugi”: un confronto con alcuni aspetti della disciplina italiana. – 2. Lo scioglimento del matrimonio in Germania e in Francia: una disciplina diffusa anche in altri Paesi europei.  – 3. Il disegno di legge 20 dicembre 2007: un timido passo verso una riforma necessaria. – 4. Proposte de iure condendo sulla riforma della separazione in Italia.

 

1. “I principi di diritto Europeo della famiglia sul divorzio e il mantenimento tra ex coniugi”: un confronto con alcuni aspetti della disciplina italiana.

La Commissione per il Diritto Europeo della Famiglia ha elaborato alcuni principi sul divorzio e il mantenimento del coniuge economicamente più debole. Il testo è diviso in due parti. La “parte 1” riguarda esclusivamente il divorzio e segnatamente  disciplina casi, presupposti e alcuni aspetti procedurali. La “parte 2” riguarda il mantenimento tra ex coniugi.

Questi principi costituiscono in parte il common core in materia di divorzio tra gli Stati membri, ossia il complesso di regole largamente preponderanti negli ordinamenti europei. Soltanto in via sussidiaria la Commissione ha utilizzato il better law approach individuando la regola ritenuta preferibile rispetto ad altre. Il risultato è interessante perché coglie la direzione, tendenziale e perfettibile, che dovrebbe prendere un eventuale diritto comune europeo della famiglia nonché il legislatore italiano qualora riformi la separazione e il divorzio.

Iniziamo con l’esaminare alcuni Principi contenuti nella “parte 1”.

Il Principio 1:1, stabilendo che “La legge permette il divorzio”, dimostra come in Europa sia tramontata l’idea della indissolubilità del matrimonio. I coniugi sono liberi di sciogliere il vincolo coniugale senza dover indicare quale sia la causa della rottura. Inoltre, i coniugi non devono ottenere una pronuncia giudiziale che pronunci la separazione per richiedere successivamente il divorzio, come invece in Italia.

 Il testo dei Principi prevede due tipi di divorzio: per mutuo consenso e senza il consenso di uno dei coniugi. La relativa disciplina cambia a seconda della presenza o meno di figli e della loro età.

In mancanza di prole, qualora vi sia il consenso dei coniugi a divorziare, “non è richiesto alcun periodo di separazione di fatto” (principio 1:4). Se, invece, manca il consenso di uno dei coniugi, il divorzio è permesso solo se vi sia stata separazione di fatto per un anno; tuttavia, nei casi di “eccezionale durezza per il richiedente, l’autorità competente può pronunciare il divorzio anche quando i coniugi non sono separati di fatto da un anno” (principio 1:8).

 Queste regole sono apprezzabili per l’equilibrio che esprimono. Non si prevede un periodo di riflessione, sia pur breve, qualora entrambi i coniugi desiderino sciogliere il vincolo. Riflessione che, invece, ritorna, attraverso la separazione di fatto, qualora soltanto un coniuge intenda divorziare. Inoltre appare opportuna l’eccezione alla separazione di fatto nei casi di “eccezionale durezza”, quale può essere un maltrattamento ripetuto lesivo della dignità altrui. In contro-tendenza, l’art. 3 let. d) della legge italiana n. 898/1970 prevede, con una disposizione di dubbia costituzionalità, quale caso di divorzio, “due o più condanne” per il delitto di lesioni personali aggravate.

Tornando al testo dei Principi, la disciplina del divorzio si incentra sul “periodo di riflessione” qualora vi siano figli minori e, se questi ultimi hanno meno di sedici anni e i genitori concordano su tutte le conseguenze del divorzio, così come stabilite dal principio 1:6, è richiesto un periodo di riflessione di tre mesi, portato a sei mesi in caso di disaccordo. Se non vi sono figli minori di anni sedici e i coniugi sono d’accordo sulla divisione e distribuzione dei beni nonché sul mantenimento, “non è richiesto alcun periodo di riflessione”. Se non sono d’accordo su tutte le conseguenze, occorre una riflessione di tre mesi. In ogni caso “non è richiesto alcun periodo di riflessione, se all’inizio del procedimento di divorzio, i coniugi sono di fatto separati da sei mesi”.

Esaminiamo ora la “parte 2” dedicata al mantenimento tra ex coniugi dalla quale è possibile trarre qualche spunto in prospettiva de iure condendo per modificare la disciplina italiana dell’assegno di divorzio.

Il testo in esame predilige una sistemazione conclusiva dei rapporti patrimoniali. Il Principio 2:5, sulle modalità di esecuzione del mantenimento, stabilisce che quest’ultimo “deve essere versato con cadenza periodica e in anticipo”. Tale regola, tuttavia, non è assoluta né preminente perché il comma 2 attribuisce, anche ad uno solo dei coniugi, il diritto di richiedere all’autorità competente di ordinare “il pagamento in un’unica soluzione tenendo conto delle circostanze del caso”. Si consente così al coniuge debitore di estinguere l’obbligazione recidendo ogni rapporto con l’ex coniuge.

Diversamente l’art. 5 comma 8 della legge n. 898/1970 consente la corresponsione dell’assegno di divorzio in unica soluzione soltanto su accordo delle parti.

L’intento di privilegiare la definizione dei rapporti economici tra gli ex coniugi emerge anche dal Principio 2:8 dove si stabilisce, come regola, il “mantenimento per un periodo limitato” e, come eccezione, la corresponsione “senza limiti temporali”. Ciò in ossequio al Principio 2:2 (rubricato: autosufficienza) secondo il quale “dopo il divorzio ciascun coniuge provvede ai propri bisogni”.

I Principi 2:2 e 2:3 riguardano, invece, rispettivamente i presupposti dell’assegno di mantenimento e i criteri di determinazione. Dalla loro disamina non si riscontrano sostanziali differenze rispetto alle corrispondenti norme della legge italiana sul divorzio. Sembra emergere dai Principi che il mantenimento svolga una funzione assistenziale-compensativa in quanto tra i criteri di determinazione cui si deve tenere conto è prevista la ripartizione dei doveri e il tenore di vita goduto durante il matrimonio. Questi criteri consentono di apprezzare la scelta di un coniuge di dedicarsi prevalentemente o esclusivamente alla vita domestica, favorendo così l’attività lavorativa del consorte. In questo senso è più esplicito l’art. 6 co. 6 della legge n. 898/1970 secondo il quale il giudice, nel quantificare l’assegno, dovrà considerare anche il “contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune”.

Il Principio 2:10 disciplina gli accordi sul mantenimento, successivi al divorzio, prescrivendo un controllo “almeno [di] validità” da parte dell’autorità competente. I coniugi possono accordarsi sull’ammontare, sulle modalità di esecuzione, sulla durata, sull’estinzione dell’obbligo di mantenimento e sulla rinuncia.

 

2. Lo scioglimento del matrimonio in Germania e in Francia: una disciplina diffusa anche in altri Paesi europei.

 

In Germania il BGB disciplina soltanto il divorzio e non anche, come invece in Italia, la separazione quale istituto con proprie regole sostanziali.

Un matrimonio può essere sciolto per divorzio se è “in stato di disfacimento” ossia “quando non esiste più la comunione di vita dei coniugi e non può attendersi che essi la ricostruiscano” (§ 1565 BGB). Il disfacimento si presume dal fatto che i coniugi vivano separati da un anno e dalla richiesta congiunta di divorzio, altrimenti occorrono tre anni di vita da separati. Questa condizione può sussistere anche quando i coniugi vivono separati nella casa coniugale “se tra loro non esiste più alcuna comunione domestica e se uno dei coniugi palesemente non intende ricostruirla” (§1567 BGB). E’ prevista una deroga al decorso di un anno qualora “la continuazione del matrimonio costituisca per colui che propone la domanda, per cause relative alla persona dell’altro coniuge, un pregiudizio impretendibile”.

Dalla lettura di queste norme emerge l’irrilevanza delle cause della separazione di vita; pertanto, per ottenere il divorzio, è sufficiente che i coniugi affermino di vivere separati da un certo tempo, dichiarazione della quale il giudice prende atto.

Questa disciplina rispecchia e realizza adeguatamente l’idea secondo cui la famiglia fondata sul matrimonio non persegue un interesse pubblico ma costituisce una formazione sociale in cui gli individui sviluppano la propria personalità. In quest’ottica si spiega la regola dell’irrilevanza delle ragioni del divorzio, le quali non devono essere neppure portate a conoscenza del giudice, nonché  la regola per cui la dichiarazione di entrambi i coniugi di vivere separati già da un anno non può essere sindacata dal giudice.

Quanto al diritto al mantenimento (unterhalt), questo è periodico (§ 1585 BGB) e non può essere chiesto fino a quando e nella misura in cui il coniuge divorziato “può mantenersi da solo con i suoi proventi e il suo patrimonio” (§§ 1577 e 1576 BGB). La disciplina, tuttavia, spinge l’ex coniuge verso la ricerca di un’attività produttiva adeguata favorendo, a questo fine, la formazione, il perfezionamento o la riqualificazione attraverso la previsione del diritto al mantenimento proprio per consentire tali attività (§ 1575 BGB). Si prevede, inoltre, la possibilità di limitare nel tempo il mantenimento (§§ 1573 co. 5 e 1578 BGB).

   Anche in Francia, il code civil non impone la separazione personale quale presupposto necessario del divorzio. Nel “divorce pour altération définitive du lien conjugal“, l’attore deve indicare solo la “cessation de la communauté de vie entre les époux” risultante dal fatto di vivere separati da più di due anni (art. 238 code civil). La “séparation de corps” può essere pronunciata soltanto se gli sposi sono d’accordo, altrimenti secondo l’art. 297 code civil lorsque la demande principale en divorce est fondée sur l’alteration définitive du lien conjugal, la demande reconventionnelle ne peut tendre qu’au divorce“.

I rapporti economici tra coniugi sono regolati secondo l’idea che privilegia la loro definizione in unica soluzione. La prestation compensatoire è corrisposta, infatti, con carattere definitivo (caractère forfaitaire, artt. 270 e 274 code civil). In deroga è prevista la possibilità dei “versements periodiques” ma solo “lorsque le débiteur n’est pas en mesure de verser le capital dans les conditions prévues par l’article 274…“; la norma prescrive, tuttavia, un dies ad quem (huit années) di durata della periodicità (art. 275 code civil). E comunque “le débiteur peut se libérer à tout moment du solde du capital indexé” (art. 275 ult. co. code civil).

I coniugi possono accordarsi sul montante e sulle modalità della prestation compensatoire, ma “Le juge, toutefois, refuse d’homoluguer la convention si elle fixe inéquitablement les droits et obligations des époux” (art. 278 code civil). Emerge lo scopo, sotteso alla norma, di precludere il verificarsi di situazioni ingiuste alla cessazione del matrimonio determinate da un accordo che, pur volontario e consapevole, non sia equilibrato in considerazione di certe circostanze, quali l’età, lo stato di salute e le conseguenze delle scelte professionali fatte durante la vita comune per l’educazione dei figli o per favorire la carriera del congiunto a detrimento della propria.

Prescindendo dalle diverse discipline del mantenimento, interessa cogliere in questa sede come anche altri Paesi europei condividano con Germania e Francia la scelta di regolamentare soltanto il divorzio, o comunque di non obbligare i coniugi ad adire il giudice per ottenere una pronuncia di separazione propedeutica allo scioglimento. In tal senso il Belgio, la Spagna, Portogallo, l’Olanda, Austria, la Finlandia, la Svezia, l’Inghilterra, la Scozia e l’Irlanda del Nord.

In estrema sintesi, per ottenere il divorzio, alcune prescrizioni ricorrenti nelle normative di questi Paesi – alcune delle quali non disciplinano neppure la separazione consensuale – sono:

  • – un periodo di riflessione in genere di qualche mese ovvero la mancata coabitazione o la separazione di fatto per un certo tempo (variabile a seconda che la domanda provenga da uno o da entrambi i coniugi);

  • – l’indicazione di casi tassativi di divorzio alcuni dei quali descritti con l’utilizzo di concetti elastici, quali ad esempio: irrimediabile o irreversibile rottura della comunione materiale e morale, comportamento irragionevole. In alcuni Paesi, tuttavia, non devono essere indicati i motivi del divorzio;

  • – il decorso di uno o due anni di matrimonio quale condizione di procedibilità della domanda di divorzio. Regola non condivisa da tutti gli ordinamenti.

3. Il disegno di legge 20 dicembre 2007: un timido passo verso una riforma necessaria.

 

La Commissione del Senato ha approvato il 20 dicembre 2007 il disegno di legge, presentato dal Senatore Massimo Brutti, che prevede modifiche ad alcune norme della separazione personale e del regime patrimoniale della famiglia.

Il nuovo testo, che unifica otto precedenti progetti di legge, costituisce un primo importante passo nel cogliere il rapporto, delineato dalla Costituzione, tra i singoli coniugi e la famiglia fondata sul matrimonio. Dal coordinamento tra gli articoli 29 e 2 Cost. emerge come la famiglia sia una formazione sociale protetta per realizzare non un fine super individuale (c.d. concezione pubblicistica), bensì il pieno sviluppo della persona umana. La famiglia, nonostante alcune ambiguità lessicali dell’art. 29 Cost., riceve senso e valore soltanto in funzione della crescita dei suoi membri. La libertà dell’individuo prevale dunque sulla stabilità e continuità del rapporto coniugale.

La recente giurisprudenza teorica applica questa ricostruzione accogliendo l’interpretazione soggettiva dell’intollerabilità della convivenza, negando il mutamento del titolo della separazione da consensuale in giudiziale e ancora, ammettendo la responsabilità civile nei casi descritti con la locuzione “illecito endofamiliare”. Anche il legislatore si è collocato in questo solco con la disciplina degli ordini di protezione contro gli abusi familiari.

Il superamento della concezione pubblicistica della famiglia, oggi pacificamente ammesso dalla dottrina e dalla giurisprudenza, rende allora difficilmente giustificabile il termine di tre anni di durata della separazione per proporre domanda di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio. Anzi la norma sembra contrastare con quel rapporto delineato dalla Costituzione, cui si è accennato, tra libertà individuale e famiglia, rapporto governato dalla prevalenza della libertà.

Il legislatore deve certamente proteggere il soggetto dall’assumere decisioni impulsive nell’inoltrare la domanda di divorzio, ma l’attuale termine di “riflessione” di tre anni appare eccessivo in relazione allo scopo e, pertanto, è giustamente ridotto dal disegno di legge Brutti, del quale esaminiamo in sintesi le norme più significative:

  • – l’art. 1 interviene sull’art. 3 comma 1, numero 2, lettera b), cpv, legge 898/1970 (scioglimento del matrimonio), sostituendo “1 anno” alla prescrizione “3 anni”, termine sempre decorrente “a far tempo dalla avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale”;

  • – l’art. 2 prevede significative novità nella disciplina della separazione e della successione:

  • a) abrogazione dell’art. 151 comma 2 cod. civ., norma che prevede la domanda di addebito pronunciato dal giudice in considerazione del comportamento contrario ai doveri derivanti dal matrimonio. L’addebito, istituto avversato da una parte della dottrina, elimina il diritto di richiedere l’assegno di mantenimento ed estingue la capacità di succedere;

  • b) modifica dell’art. 156 comma 1 cod. civ. con il seguente nuovo testo: “Il giudice, pronunciando la separazione, può stabilire in favore dei coniugi il diritto di ricevere dall’altro quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri”. Abrogazione dell’art. 548 e 585 cod. civ. che distinguono la posizione successoria del coniuge separato con o senza addebito. Si sostituiscono, quindi, nell’art. 565 – norma che indica le categorie dei successibili nella successione legittima – al vocabolo “coniuge” le parole “coniuge, anche se separato”. Tutte queste modifiche conseguono all’abrogazione dell’addebito;

  • c) modifica dell’art. 540 cod. civ., in materia successoria, stabilendo anche a favore del coniuge separato i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano se di proprietà del coniuge defunto o comuni;

  • – l’art. 7 prevede, mediante l’introduzione di un nuovo art. 156 ter, un’importante novità in tema di assegnazione della casa familiare: “… In assenza di figli il giudice può attribuire il godimento della casa coniugale al coniuge economicamente più debole” quale modalità del mantenimento, per una durata non superiore a nove anni. Questa disposizione si applica “anche nel caso in cui i coniugi siano comproprietari del bene”.

La norma metterebbe al fine conflitto tra una parte della dottrina e la giurisprudenza in merito all’interpretazione dell’art. 155 quater cod. civ., norma che, sebbene introdotta dalla recente legge sull’affidamento condiviso, non ha eliminato le incertezze lessicali della norma precedente. La giurisprudenza teorica, con sentenze del 2008, ha confermato l’orientamento accolto sotto il vigore della vecchia norma sulla casa familiare, secondo il quale il giudice, in assenza di prole, non può assegnare la casa familiare al coniuge più debole non proprietario.

      L’art. 7, inoltre, rimedia alla grave incertezza creata dall’art. 155 quater comma 1 cod. civ. che, secondo il tenore letterale, stabilisce la cessazione automatica dell’assegnazione nel caso in cui l’assegnatario conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio. In questi casi il giudice sembra obbligato a constatare l’estinzione del diritto anche ove tale effetto confligga con l’interesse della prole. Recente giurisprudenza, tuttavia, ha adottato un’interpretazione costituzionalmente orientata che attribuisce al giudice il potere di valutare se la nuova situazione lasci permanere o pregiudichi l’interesse del minore ad abitare nella casa familiare. L’art. 7 del disegno di legge stabilisce che in caso di convivenza con un terzo o di nuovo matrimonio “il giudice, ad istanza di parte, può esaminare nuovamente la situazione, per valutare se essa continua a corrispondere all’interesse dei figli…”.

La norma conferma, inoltre, la regola dell’opponibilità del provvedimento di assegnazione se trascritto.

 In conseguenza di queste nuove disposizioni, l’art. 8 abroga il comma 1 dell’art. 155 quater e sostituisce la rubrica di quest’ultimo con: “Prescrizioni in tema di residenza”.

Il disegno di legge prevede delle modifiche inerenti al regime patrimoniale della famiglia:

  • – l’art. 3 adotta, in tema di cessazione della comunione legale, una chiara soluzione in linea con la volontà di interrompere il rapporto matrimoniale modificando l’art. 191 cod. civ. con il seguente nuovo testo: “Nel caso di separazione personale, di annullamento, di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, gli effetti dello scioglimento [rectius: cessazione] della comunione si producono automaticamente nel momento in cui viene depositata la domanda relativa ai procedimenti citati“.

E’ apprezzabile questa norma del progetto di legge in quanto l’art. 191 non si pronuncia espressamente sul dies a quo di cessazione della comunione legale, così la giurisprudenza ha avuto buon gioco nell’affermare – con il dissenso di una parte della dottrina – che la cessazione della comunione legale dei beni si verifica dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di separazione ovvero dell’omologa degli accordi di separazione consensuale;

  • – l’art. 4 modifica l’art. 177 comma 1 let. c) aggiungendo un nuovo caso di comunione de residuo ulteriore rispetto a quello previsto in tale lettera dei proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi. Si tratta dell’ “indennità di fine rapporto di lavoro, percepita prima dello scioglimento della comunione dei beni e relativa agli anni in cui il rapporto di lavoro coincide con la convivenza matrimoniale”, se allo scioglimento della comunione non sia stata consumata.

Il disegno di legge regola, inoltre, tale indennità anche nel caso in cui i coniugi abbiano scelto il regime di separazione dei beni. L’art. 5 prevede l’inserimento dopo l’art. 158 cod. civ. di un art. 158 bis il quale, in sintesi, attribuisce al coniuge in regime di separazione dei beni, titolare dell’assegno di mantenimento o di divorzio, non passato a nuove nozze, il diritto al 40 % dell’indennità totale di fine rapporto di lavoro “riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con la convivenza matrimoniale”. In conseguenza di queste disposizioni, l’art. 6 del disegno di legge dispone l’abrogazione dell’art. 12 bis della legge 898/1970 che regola l’indennità di fine rapporto.

 

4. Proposte de iure condendo sulla riforma della separazione in Italia.

 

Dal confronto con la normativa di altri Paesi europei, dall’analisi dei “Principi di diritto europeo della famiglia” e tenuto conto del recente progetto di legge del 2007 si possono ricavare utili indicazioni per predisporre una riforma della separazione personale. Procedendo in modo schematico si può rilevare che:

  • – un intervento normativo “leggero” potrebbe consistere nell’approvare il disegno di legge Brutti, la cui novità più significativa è il termine di un anno a far tempo dall’avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al Presidente del tribunale. Apprezzabili le modifiche proposte al regime patrimoniale della famiglia;

  • – un intervento normativo più incisivo dovrebbe invece eliminare l’incongruenza di due procedimenti giudiziari per addivenire allo scioglimento del matrimonio. Si potrebbe prevedere la separazione di fatto, diversificandone la durata minima a seconda che sussista o meno la volontà concorde dei coniugi di divorziare. Nulla osta a questa soluzione se si considera che: a) il giudice della separazione non ha il potere di sindacare il motivo per cui un coniuge o entrambi si separano; b) non è ammesso il mutamento del titolo da separazione consensuale a giudiziale con addebito, il che conferma come la separazione non abbia la funzione di giungere alla riconciliazione;

  • – qualora si scelga una riforma più incisiva, che avvicini l’Italia ad altri paesi, queste le rilevanti questioni da affrontare: a) privilegiare la sistemazione definitiva dei rapporti patrimoniali tra coniugi salvo eccezioni, oppure la regola opposta dell’assegno periodico salvo accordo sull’una tantum (com’è attualmente); b) predisporre un controllo giudiziale sugli accordi di tipo preventivo che ne verifichi l’equità (modello francese) o la validità. Oppure sottoporre gli accordi agli ordinari rimedi contrattuali di diritto comune.

 

In conclusione occorrerebbe una riforma più ampia di quella prospettata dal disegno di legge Brutti che si ispiri alla normativa francese e tedesca.

 

 

4. LA LUNGA MARCIA DELLA CARTA DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELL’UNIONE EUROPEA di Giuseppe Vettori

 

Sommario: 1.La diagnosi dell’attualità. 2 La Carta, la dottrina e le Corti. 2.1 La dottrina. 2.2 Gli Organi comunitari. 2.3 Le Corti. 2.3.1 Dignità. 2.3.2 Libertà. 2.3.3. Uguaglianza. 2.3.4 Solidarietà. 2.3.5 Cittadinanza. 2.3.6. Giustizia. 3. Interpretazione e applicazione. 3.1 Diritti e principi. 3.2 La Carta e i principi generali del diritto comunitario.

 

1. La diagnosi dell’attualità.

 

L’analisi non può che iniziare dalla attualità per esaminare l’accoglienza della Carta da parte delle istituzioni nazionali ed europee e i criteri della sua interpretazione e applicazione. Iniziamo dal primo aspetto.

Dopo la proclamazione solenne del 2000 a Nizza, la sottoscrizione del Trattato costituzionale del 2004 e l’esito negativo dei referendum in Francia e in Germania, la Conferenza intergovernativa del 21 e 22 giugno del 2007 ha prodotto sostanziali novità.

Il progetto costituzionale che intendeva abrogare  tutti i Trattati esistenti e  sostituirli con un unico testo denominato Costituzione è  stato abbandonato. La  riforma modificherà il Trattato sull’unione europea (TUE)  e il Trattato istitutivo della Comunità europea (TCE) che sarà denominato Trattato sul funzionamento dell’Unione, la quale  acquisirà personalità giuridica.

Scompare il termine Comunità europea  ma si precisa che i due Trattati “non avranno carattere costituzionale” e  che  il termine costituzione non sarà mai utilizzato.

Le innovazioni  riguardano  anche la sorte della Carta dei diritti fondamentali che assumerà  valore giuridico  per effetto della sostituzione dell’art. 6 del Trattato UE (79). Ma il compromesso non è stato affatto indolore e ha lasciato, anzi,  una traccia forte e preoccupante.

Sarà allegata una dichiarazione unilaterale della Polonia in base alla quale  quel testo “non pregiudica in alcun modo il diritto degli Stati Membri di legiferare in ambito di moralità pubblica, diritto di famiglia, tutela della dignità umana e rispetto dell’integrità fisica e morale”. Ma c’è di più. E’ previsto un Protocollo che riguarda espressamente l’Inghilterra ove sono contenute precisazioni di grande rilievo.  L’applicazione della Carta deve essere rigorosamente conforme alle disposizioni del suo titolo VII ( a suo tempo imposto dagli inglesi),  deve essere interpretata in modo conforme alle  spiegazioni di tali articoli, non deve estendere la competenza della Corte di Giustizia né creare diritti e obblighi nuovi (80).

Il senso di tali indicazioni non potrebbero essere più chiaro nella volontà di coloro che le hanno richieste. La Carta non ha valore costituzionale , contiene diritti e principi senza crearne di nuovi, è legata ad un rigido e  predeterminato processo di applicazione e di interpretazione.

Occorre partire da qui, da questa radicata ostilità di alcuni Stati, per fissare il valore di questo documento  nel confronto fra critiche e adesioni  della  dottrina e della giurisprudenza europea.

 

2. La Carta, la Dottrina e le Corti .

 

2.1 La dottrina.

 

Gli studiosi  più attenti  avevano subito  sottolineato la peculiarità di ciò che era accaduto dal giugno 1999, data della Risoluzione del Consiglio europeo  di Colonia, al dicembre 2000 quando la Carta fu solennemente proclamata a Nizza.

Aveva lavorato per circa nove mesi una Convenzione composta da 15 rappresentanti dei Governi, 30 dei Parlamenti, 16 del Parlamento europeo, e uno della Commissione. Si erano pronunciati alcuni Parlamenti nazionali e il Parlamento europeo con un esplicita risoluzione. Tutto ciò con una procedura che aveva  coinvolto tutte le istituzioni  dell’Unione a differenza del metodo  chiuso e burocratico delle conferenze intergovernative. Con un risultato forte.

La ricognizione, per renderli più visibili, dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Corte di Giustizia ed espressi dalle tradizioni costituzionali comuni e dalla convenzioni internazionali. La revisione del contenuto dei diritti tradizionali per adeguarli ai nuovi interessi. L’abbandono della classica distinzione fra diritti civili, economici e sociali per affermare l’indivisibilità delle situazioni soggettive, unificate dai valori di riferimento che possono assicurarne una corretta e flessibile interpretazione (Dignità,Libertà,Solidarietà,Eguaglianza,Cittadinanza, Giustizia) (81).

La prima scelta ha reso possibile realizzare un minimo comune denominatore sul contenuto delle situazioni fondamentali senza rinunziare ad affermare una pluralità di modelli ed una possibile evoluzione del diritto comunitario. La seconda rappresenta una novità interessante. La revisione dei diritti fondamentali si basa su un netto rifiuto di un ruolo subordinato dei diritti sociali rispetto ai diritti di libertà e utilizza un metodo chiaro. Attualizzare dove possibile il contenuto dei diritti tradizionali per adeguarli ai nuovi interessi, elaborare, altrimenti, nuove situazioni, predisponendo le azioni individuali o collettive adatte ad assicurare la più intensa protezione (82).

Certo si attenua, nel testo, ogni aspetto di socialità. Manca una norma simile all’articolo 3 della nostra Costituzione. Si parla poco delle comunità intermedie. Non esiste un riferimento, solo per fare qualche esempio, alla funzione sociale della proprietà o ai limiti alla libertà d’impresa mentre la disciplina sul diritto al lavoro, pur significativa sotto taluni profili  si ispira chiaramente ad un liberalismo “socialmente evoluto” (83).

Proprio in relazione a tali limiti si erano sollevate critiche e lamentato un difetto di legittimazione ma, come si è osservato, un coinvolgimento dei popoli europei   sarebbe stato  un fuor d’opera perché la Carta non conteneva la pretesa di abbattere un precedente regime per instaurarne un nuovo ordine politico. Il testo si proponeva un effetto diverso e peculiare (84). Seguire la traccia dell’art. 6 del Trattato e operare un “grande atto di ricognizione storica” delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri sul tema dei diritti fondamentali, come ” punto di riferimento .. sicuro ed ordinato” per l’evoluzione di un diritto comune e per il problema “implicito nella Carta” “della identità costituzionale dell’Europa” (85).

Il documento, a ben vedere, era anche, come si è detto acutamente, un chiaro  tentativo di superare “una rigida dicotomia positivistica , tra diritto e politica,  utile anche sul piano strategico (86). I redattori  si resero ben presto conto che l’argomento della vincolatività del testo poteva essere utilizzato dagli oppositori, (gli inglesi in primo luogo), come un mezzo per “determinare un sostanziale fallimento dell’impresa” o per approvare un testo “poverissimo di contenuti” (87). Da qui l’idea della sola proclamazione  che  fu uno strumento efficiente . Il punto veramente importante era l’approvazione perché, si pensò, la Carta  ” pur priva di valore giuridico formalmente vincolante avrebbe cominciato a farsi strada nell’Ordinamento dell’Unione e in quelli degli Stati membri” (88) e avrebbe prodotto, al di là del suo inserimento nei Trattati, effetti precisi. Dalla Carta avrebbe tratto linfa e giovamento la giurisprudenza comunitaria e su di essa si potevano fondare ragioni per “l’ammissione di nuovi Stati” (89).

E’ facile constatare che negli anni seguenti si è verificato proprio questo. Gli Organi comunitari hanno assunto come parametro di legittimità dei loro atti quel testo, centinaia di provvedimenti giurisdizionali, nazionali e comunitari, hanno fatto riferimento ad esso, la dottrina si è impegnata nel precisare la natura e l’efficacia di un insieme di regole prive di un formale riconoscimento di giuridicità, sino a dover ammettere che a prescindere dall’inserimento nei Trattati è assai difficile oggi escludere la Carta dal sistema delle fonti del diritto dell’Unione.

Un esame anche sommario può fornire  una precisa conferma.

 Pur essendo chiaro il suo valore ricognitivo si è sottolineato in dottrina il plusvalore rispetto ad un insieme di diritti esistenti ma dispersi in precedenti non sempre facilmente conoscibili (90). Si è precisata l’importanza dell’attività della Convenzione (91) ed alcuno ha sostenuto la sua immediata vincolatività quantomeno per le Istituzioni comunitarie, avvicinandola alle decisioni dell’art. 249 TCE (92) o al contenuto dell’art.6 TUE (93).

 

2.2 Gli Organi comunitari.

 

D’altra parte la Commissione ha espresso più volte la volontà di riconoscere al testo un carattere vincolante. Già nella Comunicazione del febbraio 2001 si era fatto “obbligo di sottoporre ad un test di coerenza con la Carta tutti gli atti legislativi incidenti nella materia dei diritti fondamentali” e di recente nel 2005 ” si è reso più stringente questo obbligo, disciplinandone in modo puntuale molti passaggi procedurali”(94).

Il Parlamento europeo ha approvato il 15 marzo 2007 una Risoluzione sul rispetto della Carta di Nizza ove si “invita tutte le Istituzioni ad un monitoraggio trasparente e penetrante del rispetto dei diritti “sanciti nel testo e si richiama ” il dato istituzionale della  “auto-obbligazione”  degli organi comunitari al suo rispetto (95).

Ma il contributo più significativo si è avuto dalla giurisprudenza che nel corso di pochi anni si è pronunziata sul documento con un ampiezza e una frequenza straordinaria . Basta ricordare che in Italia hanno richiamato quella fonte la Corte Costituzionale, la Corte di Cassazione, il Consiglio di Stato oltre a  numerosi giudici di merito, mentre in altri Stati si sono pronunziati i Tribunali costituzionali ( Spagna e Portogallo) senza contare la Corte di Strasburgo, il Tribunale di prima istanza, gli Avvocati Generali e da ultimo la stessa Corte di Giustizia.

Il punto merita un’attenzione specifica e su di esso ci soffermeremo richiamando i provvedimenti più significati ai fini del diritto privato comunitario in relazione ai sei Capi del testo, con l’aiuto di  sintesi e commenti già pubblicati (96).

 

2.3 Le Corti

 

2.3.1 Dignità.

 

Nel primo capo relativo alla dignità sono racchiusi un nucleo di diritti relativi alla inviolabilità dei valori della persona, all’integrità psico-fisica e spiccano alcuni divieti tramite i quali quei valori sono garantiti. Il divieto della schiavitù, della tortura, dei trattamenti inumani e degradanti, della clonazione umana, del commercio del corpo.

Gli avvocati generali o i ricorrenti hanno fatto più volte riferimento a quelle situazioni anche se  la Corte ha deciso, sino a pochi mesi fa, senza far menzione del testo (97), pur  evocando implicitamente il contenuto della Carta. Vediamone alcune  da vicino.

Molto noto è il  caso Omega (98). Si è dovuto accertare la compatibilità con il diritto comunitario di attività che comportano l’utilizzo di giochi basati sull’uccisione simulata di persone. Omega era titolare di un contratto di franchising con una società inglese che produceva e commercializzava le attrezzature usate legalmente in quel paese. Il Sindaco di Bonn ha vietato tale attività in quanto contraria all’ordine pubblico e ciò ha determinato un ricorso alla Corte federale che ha confermato il giudizio negativo, ma ha richiesto l’intervento della Corte di Giustizia per valutare la compatibilità con il Diritto comunitario della questione e per accertare se la facoltà degli Stati di limitare le libertà fondamentali (in questo caso di libera circolazione dei beni e di prestazione dei servizi) “sia subordinata alla condizione che tale restrizione si basi su di una concezione del diritto comune a tutti gli Stati”. L’avvocato Generale (99) ha accertato che , tranne la Germania, tutti gli Stati nazionali considerano la dignità un principio costituzionale ma non un precetto autonomamente azionabile. Un concetto di genere che può essere specificato mediante l’ordine pubblico che i singoli Stati sono liberi di valutare, salvo un controllo della Unione Europea in presenza  di ” una minaccia effettiva e abbastanza grave per uno degli interessi fondamentali della collettività” che si reputa presente nel nostro caso. La Corte di Giustizia ha seguito lo stesso orientamento e ha precisato che il rispetto della dignità umana è un principio generale del diritto comunitario idoneo a limitare una libertà fondamentale, tramite la nozione  di ordine pubblico che la Costituzione nazionale intende assicurare nel proprio territorio (100). Da qui la decisione di non contrarietà del divieto (101) che evoca il principio generale  della dignità previsto dalla Carta di Nizza. Come in un altro caso altrettanto rilevante (102).

Si doveva decidere nel caso Schmidberger sulla compatibilità fra diritti fondamentali riconosciuti   dal trattato , nella specie  di manifestazione, e la  libertà economica di circolazione a seguito dell’ occupazione dell’autostrada del Brennero che aveva comportato il blocco per trenta ore del traffico con  ingenti danni lamentati da  un impresa di trasporto. La repubblica d’Austria, che non era intervenuta per rimuovere il blocco, aveva invocato a sua difesa l’esigenza di tutelare i diritti fondamentali previsti dalla propria Costituzione e la Corte ha affermato la proporzionalità del “bilanciamento realizzato dalle autorità statali”. Anzi si è pronunciata su tale tecnica interpretativa.

Nella sentenza si dice che la tutela dei diritti fondamentali può prevalere su di una libertà economica riconosciuta dal Trattato previo un loro attento bilanciamento. Esistono invece alcuni diritti  che costituiscono delle “prerogative assolute” (103). Sicchè  la dignità e l’integrità della persona assumono  nella sentenza un rilievo “costituzionale”

 

2.3.2 La libertà.

 

Fra i quattordici articoli  del secondo Capo,che contengono libertà,diritti civili e politici, vi sono disposizioni più volte richiamate  da parte delle  Corti nazionali.

La nostra Corte costituzionale ha fatto riferimento all’art. 7 (anche se privo di efficacia giuridica”) (104) a tutela della vita privata e familiare in riferimento all’estensione delle intercettazioni fra persone presenti e ha utilizzato l’art. 9 per censurare che sia lecito prevedere il celibato o la vedovanza come requisito per l’accesso ad uffici pubblici come, nel caso, il reclutamento nella Guardia di Finanza. Ciò perché la discrezionalità legislativa non deve tradursi “in una limitazione di diritti fondamentali” quali il diritto a contrarre matrimonio e di non essere sottoposti ad interferenze arbitrarie nella vita privata ( art. 8 della CEDU e 9 della Carta che hanno sul punto diversità fra di loro) (105). Come si è notato in questo ultimo  caso la  Corte ha evitato anche  di ripetere che la Carta di Nizza non ha valore vincolante (106).

Il Tribunale costituzionale portoghese ha utilizzato ancora l’art. 9 per valutare il trattamento delle unioni di fatto mentre  l’avvocato generale della Corte di Giustizia, in un procedimento del 2001, ha sottolineato l’importanza di tale principio e la sua diversità dall’art. 8 della CEDU che parla di matrimonio fra uomo e donna e non del diritto a sposarsi o a costituire una famiglia contenuto nell’art. 9 della Carta e descritto nelle Spiegazioni allegate al testo (107). Mentre la Corte europea dei diritti dell’uomo ha riconosciuto, sempre citando quel riferimento, il diritto dei transessuali di sposarsi (108).

Nell’ art. 16 si sottolinea, nelle stesse  spiegazioni all’articolo,  che il riferimento all’ impresa  “trae origine dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia che ha riconosciuto tre libertà sottese al principio. La libertà di esercitare un’ attività economica o commerciale, la libertà contrattuale e la libertà di concorrenza. Questa precisazione ha un importante valore sistematico che occorre rimarcare con forza per trarne ogni utile orientamento sul modo di disciplinare tali libertà”(109). Ed è  utile,  per quanto concerne la libertà di contratto,  il richiamo alla sentenza della Corte di Giustizia sul caso  Courage (110). Pronunzia  assai nota.

La Corte ha attribuito rilevanza  alle  condizioni di supremazia di una parte nell’ambito delle trattative precedenti la stipula dell’accordo, rinviando al giudice nazionale competente la valutazione del potere di negoziazione delle parti, del contesto economico e giuridico in cui esse si trovavano, e della capacità per il danneggiato di evitare il danno ” esperendo tempestivamente tutti i rimedi giuridici a sua disposizione”. La disparità di potere negoziale assume, insomma, valore  come espressione di un principio enunciato dalla Corte che dovrà essere precisato dai giudici nazionali.

L’articolo 17 sulla proprietà riafferma principi già emersi nelle sentenze della Corte di Giustizia e nelle Costituzioni dei paesi membri che “consentono di disciplinare l’uso della proprietà privata” in modo sostanzialmente omogeneo (111). Sicché è evidente il rifiuto di ogni profilo di assolutezza e compaiono, seppur attenuati, la doverosità ed il limite, con una sostanziale differenza rispetto al nostro modello proprietario. Si era affermato da taluno in passato, che gli articoli 41, 42 e 43 della nostra Costituzione avrebbero legittimato anche una disciplina legislativa ispirata al piano svincolata dal rispetto di un contenuto essenziale della proprietà (112). L’interpretazione sistematica delle norme esclude, senza ambiguità, tale conclusione e con essa un’evoluzione non conforme ad un assetto istituzionale fondato su un’economia sociale di mercato (113).

 

2.3.3. Eguaglianza (114).

 

Il capo terzo contiene sette articoli sul divieto di discriminazione, il riconoscimento della parità fra uomini e donne, la garanzia di speciali trattamenti per i bambini, gli anziani e i disabili. Ed è chiaro anche qui il significato ‘costituente’. La parità esige il rispetto e la tutela delle diversità e la Corte ha affrontato numerosi casi di discriminazione.

Dopo aver dichiarato “l’illegittimità del licenziamento di un transessuale per motivi attinenti al cambiamento di sesso”, ha rilevato il contrasto della legislazione inglese, che non ammette la rettifica dei dati anagrafici, con il diritto comunitario in relazione alla richiesta del diritto alla pensione di reversibilità di un transessuale. Anche se si riconosce al giudice nazionale di verificare se in tale ipotesi una persona possa “invocare l’art.141 TCE affinché le si riconosca il diritto di far beneficiare il proprio convivente di una pensione di reversibilità” (115)

In modo analogo la Corte (prima dell’introduzione nel luglio 2004 della legge sul riconoscimento del genere) ha deciso per il caso di un transessuale, nato di sesso maschile, che aveva presentato domanda di pensione al compimento del sessantesimo anno e si era visto respingere la domanda per non aver raggiunto l’età di 65 prevista in Inghilterra per gli uomini (116).

 

2.3.4 Solidarietà.

 

I dodici articoli del quarto capo comprendono  una prima serie (27-32) sulle disposizioni relative alla posizione del lavoratore, un secondo gruppo (33-35) sulla protezione della vita familiare e della maternità e un’ultima parte sulla garanzia di accesso ai servizi di interesse economico sociale e  sul riconoscimento di un elevato livello di tutela dell’ambiente e dei consumatori (117). Nel precisare il  diritto fondamentale alla salute e sicurezza nei posti di lavoro sitraggono spunti di grande rilievo.

Da un lato si rende effettiva tale tutela “attraverso una corretta interpretazione del diritto alle ferie retribuite” (118), dall’altro si contrastano con il richiamo diretto a tali principi  le deroghe convenzionali alla normativa sull’orario di lavoro (119), mentre particolare spicco si attribuisce al divieto di licenziamento ingiustificato e  alla parità di trattamento.

In tutti questi casi ” la Carta di Nizza ha funzionato come punto di riferimento nell’interpretazione delle leggi nazionali di trasposizione delle Direttive” e i diritti sociali, in essa previsti ,  si sono imposti come “limiti di un esercizio arbitrario dei poteri imprenditoriali” (120).

D’altra parte  molto spesso i diritti a condizioni di lavoro sicuro e dignitoso (art.31) e il diritto di accesso  alle prestazioni di sicurezza  (34) sociale sono invocati assieme anche dai Giudici nazionali (121), mentre l’accesso ai servizi di interesse economico e sociale , la tutela dell’ambiente e dei consumatori hanno costituito la base per la elaborazione di principi invocati dagli avvocati generali e dai Tribunali nazionali (122).

 

2.3.5. Cittadinanza.

 

 Per quanto attiene al quinto capo, si è osservato che dalla Carta emergono più gli individui che i lineamenti di una società politica europea,tanto che le ” forme di partecipazione democratica non acquistano aspetti di significativa novità e sembrano essere condannati ad essere cosa nazionale”(123).

Lo stesso tema dello status di cittadino europeo resta oggetto di dubbi e incertezze (124). Pur tuttavia il diritto ad una buona amministrazione (125) è stato oggetto di ampi richiami nella giurisprudenza comunitaria e nazionale mentre la libertà di circolazione e di soggiorno “è generalmente qualificata come il nucleo forte della cittadinanza europea e come premessa per l’esercizio di altri diritti riconosciuti, espressamente o implicitamente, al cittadino comunitario (diritto di esercitare un’attività economica, diritto di acquistare beni immobili, di donare di stipulare contratti etc.)”(126). L’importanza di questo principio è evidentissima se solo si pensa alla esigenza di regole  comuni sulla destinazione e separazione dei beni e sulla disciplina del trust.  Il conflitto fra autonomia privata e diritti dei terzi, posto a dura prova dalle nuove esigenze della società complessa, attende negli Stati nazionali e in Europa una composizione e un nuovo equilibrio che può essere realizzato in un Mercato Unico solo con una soluzione unitaria.

 

2.3.6 Giustizia.

 

Fra gli articoli che fissano e richiamano i diritti già riconosciuti spicca ,ai nostri fini, l’art.47 sul diritto ad un rimedio effettivo   anche perché per la prima volta la Corte di Giustizia (127) ha fatto riferimento a quel precetto e alla Carta di Nizza, la quale si dice non ha ancora valore obbligatorio ma ” costituisce un parametro per giudicare la legittimità di atti” (128), ed ha comunque  valore di principio generale del diritto  comunitario (129), ribadito dalla Corte dei diritti dell’uomo (130) che attribuisce valore anche alle Spiegazioni allegate alla norma dal Presidium della Convenzione.

Da questo rapido elenco risultano del tutto evidenti le potenzialità della Carta nel delineare i tratti di un diritto privato europeo. Resta da precisare le modalità di interpretazione e di applicazione e sono opportune alcune osservazioni  e un approfondimento

 

3.  Interpretazione e applicazione.

 

Quando sarà ratificato il nuovo Trattato e il nuovo art. 6, ove al primo comma si dice che i diritti, le libertà e i principi della Carta hanno lo steso valore legale dei trattati, l’efficacia diretta consentirà di considerare  tale testo come diritto dell’Unione ad ogni effetto. Sicchè sarà possibile la stessa disapplicazione del diritto interno contrastante con il suo contenuto (131). Sino ad allora è certo il suo valore giurisprudenziale ed occorre precisare i criteri di interpretazione e applicazione.

Ricordo che  nel nuovo art. 6 (secondo il testo approvato dal Consiglio europeo) si dice che  la Carta ha lo stesso valore giuridico dei Trattati ma non amplia le competenze in essi definite; si precisa che i diritti, le libertà e i principi devono essere interpretati in linea con le disposizioni generali del Titolo VII  e le relative spiegazioni;  e si conclude che i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri ,costituiscono i principi generali del diritto comunitario.

Tutti questi aspetti  richiedono un’attenta analisi.

 

3.1. Diritti e principi.

 

Nel Titolo VII della Carta si dettano criteri rigidi di interpretazione ribaditi nelle Spiegazioni , le quali   nel testo dell’art. 6 e nel protocollo voluto del Regno unito assumono un particolare valore, riconosciuto di recente dalla stessa Corte europea dei diritti umani (132).  E’ bene ricordare che gli art. 51 e 52  furono modificati in occasione della approvazione del Trattato costituzionale e che essi sono ora espressamente richiamati in quella versione. Su questi due articoli occorre soffermarsi.

Nel primo  (51 ex II-111) si delimitano gli effetti della Carta e si stabilisce che “essa si applica alle istituzioni e agli organi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà (art.6 .2 TUE)” come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione.

Pertanto, si dice, tali soggetti “rispettano i diritti e osservano i principi e ne promuovono l’applicazione secondo le rispettive competenze e nei limiti posti dai Trattati”. Per quanto concerne gli Stati membri si ribadisce che l’obbligo di rispettare i diritti fondamentali vale per essi quando agiscono nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione o ( come ha precisato la Corte ) “quando essi danno attuazione alle discipline comunitarie”.

Nel secondo paragrafo si ribadisce che la Carta “non può avere l’effetto di ampliare i compiti assegnati all’Unione”. Sicché i diritti fondamentali producono effetti solo nell’ambito di tali competenze e di conseguenza alle Istituzioni può essere “imposto l’obbligo di promuovere i principi sanciti nella Carta solo nei limiti di queste stesse competenze”.

L’art.52 (ex II-112) concerne la portata  e l’interpretazione dei diritti e dei principi.

Si prevede anzitutto (1) che le restrizioni all’esercizio dei diritti fondamentali possono essere previste dalla legge purchè rispondano a finalità di interesse generale perseguite dalla Comunità e non si risolvano in interventi sproporzionati ed inammissibili.

Si fa riferimento (2) ai diritti già riconosciuti in altre parti del Trattato richiamando le condizioni e i limiti per essi già fissati.

Si ribadisce, infine, l’esigenza di una  necessaria coerenza con le disposizioni della CEDU (3) e la regola, indicata nelle spiegazioni, è duplice. Se i diritti sono identici il significato, la portata e i limiti sono identici. In caso contrario l’Unione può garantire una protezione più ampia ” ma non può situarsi ad un livello inferiore a quello garantito dalla CEDU.

Si precisa poi (nelle spiegazioni) che il richiamo alle tradizioni culturali comuni (4) non mira ad un’impostazione rigida basata sul  ” minimo comune denominatore”. Ciò perché i ” diritti sanciti nella Carta debbono essere interpretati in modo da offrire un elevato livello di tutela che sia consono al diritto dell’Unione e in armonia con le tradizioni culturali comuni.” Segue nel paragrafo n.5 un riferimento espresso ai principi.

Coordinando norma e spiegazioni si ricava quanto segue.

La distinzione fra «diritti» e «principi» è sancita nella Carta.

In base a tale distinzione, i diritti soggettivi sono rispettati, mentre i principi sono osservati (articolo 51, paragrafo 1 ex II-111).

Ai principi può essere data attuazione tramite atti legislativi o esecutivi (adottati dall’Unione conformemente alle sue competenze e dagli Stati membri unicamente nell’ambito dell’attuazione del diritto dell’Unione); di conseguenza, essi assumono rilevanza per il giudice solo quando tali atti sono interpretati o sottoposti a controllo.

Essi non danno tuttavia adito a pretese dirette per azioni positive da parte delle istituzioni dell’Unione o delle autorità degli Stati membri.  E ciò è in linea, si dice, sia con la giurisprudenza della Corte di giustizia (133) sia con l’approccio ai «principi» negli ordinamenti costituzionali degli Stati membri, specialmente nella normativa sociale.

A titolo illustrativo si citano come esempi di principi riconosciuti nella Carta gli articoli 25 (diritto degli anziani), 26 (Inserimento dei disabili) e 37 (tutela dell’ambiente) .  E si ricorda che in alcuni casi è possibile che un articolo della Carta contenga elementi sia di un diritto sia di un principio, come negli articoli 23 (parità fra uomini e donne), 33 ( vita familiare e vita professionale) e 34 ( sicurezza sociale e assistenza sociale) .

Le reazioni in dottrina  sono state molto diverse fra loro (134).

Alcuno legge, nel testo dell’articolo e nella sua  spiegazione , un chiaro tentativo di limitare l’ambito dell’interpretazione giudiziaria che richiama il lungo dibattito ” sulle norme programmatiche della Costituzione italiana e sul loro valore normativo”.  La critica evoca istituti post-rivoluzionari come il réferé législatif  e lamenta  un ingiustificato timore per un  gouvernement des juges  come un ” vecchio spettro che si aggira per l’Europa e per il mondo” (135). Altri osserva che la distinzione non è così terribile, purchè la si intenda bene. Si sottolinea che l’art. 52 ex 112.5 vuol escludere che ” dalla enunciazione di un principio (non di un diritto) si possano ricavare conseguenze immediate e dirette circa posizioni soggettive azionabili in giudizio, se non passando attraverso la interpositio legislationis. Tali principi sono conoscibili giudizialmente solo ai fini della interpretazione delle leggi e degli altri atti europei e ai fini della decisione sulla loro legalità, cioè sulla loro costituzionalità”. Sicchè, si osserva, la norma non si discosta da ciò che  normalmente accade “con riguardo ai principi espressi nella costituzione italiana” (136).

Il vero è che la distinzione fra diritti e principi  è sicuramente un espediente che vuol limitare interpretazioni creative ma, a ben vedere,  essa è  un buon esercizio per  precisare il rilievo dei principi e il rapporto auspicabile  fra la Carta e la sua applicazione. Se non altro perché nel nuovo testo dell’art. 6 si dice espressamente che i diritti fondamentali costituiscono i principi fondamentali del diritto comunitario con un espressione che occorre chiarire.

 

3.2. La Carta e i principi generali del diritto comunitario.

 

Il significato polisenso del termine principi è stato posto in luce in ogni occasione di approfondimento (137) e da ogni studioso del tema. Ma ai nostri fini occorre ricordare due aspetti fondamentali.

Nell’art. 6 del Trattato UE, in vigore dal Trattato di Maastricht del 1992,  si dice che “l’Unione rispetta i diritti fondamentali….in quanto principi generali del diritto comunitario”. Il ricorso ai principi era necessario per una pluralità di motivi :” per consentire una più compiuta ricostruzione di un assetto normativo altrimenti generico o incompleto; per rafforzare alcune interpretazioni; e per costruire ulteriori parametri di legittimità del comportamento delle istituzioni e degli Stati membri” (138).

La Corte di Giustizia ha riconosciuto e garantito una serie sempre più numerosa di diritti fondamentali espressi dalle tradizioni costituzionali comuni e dalle fonti internazionali in materia. La Carta di Nizza ha raccolto e reso più visibili tali situazioni distinguendo nettamente diritti e principi. Tutto ciò è anzitutto sufficiente per riconoscere che si è progressivamente affermata una struttura che potremo definire costituzionale dell’ordinamento comunitario. Al cui interno, come la stessa Corte ha riconosciuto,  esistono diritti e principi primari che non tollerano alcuna restrizione (139)  e diritti o principi che sono soggetti abilanciamento con altri interessi o principi”(140).

Si tratta di precisare, al di là delle dispute terminologiche, la natura e l’ambito di questi ultimi.

A differenza di quanto sostiene Dworkin (141), essi non sono valori che il giudice attinge dalla coscienza sociale ma valori positivizzati che si distinguono dalla norma non per la struttura ma per l’efficacia. Il loro modo di applicazione non è la tecnica logico formale della sussunzione ma la tecnica logica del bilanciamento che nel caso dei diritti sociali può essere influenzata da condizionamenti di fatto ( sviluppo economico del paese, situazione di mercato, livelli di occupazione) (142).

Tali principi richiedono di circoscrivere rigorosamente la discrezionalità del giudice e dell’interprete  ed esigono una rigorosa dottrina del precedente come strumento indispensabile di semplificazione della crescente complessità del sistema (143). Si può solo tentare qualche  indicazione di massima come stimolo al dibattito (144).

Perché un principio soggetto a bilanciamento  possa operare è necessaria una rule prevista dal legislatore o costruita dall’ interprete nella fase di applicazione del diritto (dell’Unione) o di attuazione delle discipline (comunitarie) . Questa attività non crea nuovo diritto perché il caso ricade nella dimensione giuridica se esiste un principio (145). Occorre invece un canone di costruzione giuridica (146) con il quale il  giudice e l’interprete  non inventa nuovi diritti, ma scopre o rivela diritti e doveri  (147).

Si pensi alla recente giurisprudenza della Corte sui diritti sociali fondamentali .

La Direttiva sull’orario di lavoro fissa un periodo di ferie retribuito e  “la Corte applicando il diritto fondamentale alla salute ha  censurato  la legislazione inglese che prevedeva tale prerogativa solo dopo 13 settimane di lavoro ininterrotto, escludendo così da tale diritto  i lavoratori assunti con contratto a termine (148). Con ciò la Corte “ha aperto un varco significativo nel costruire il diritto alle ferie come diritto di tutti i lavoratori, senza che il legislatore nazionale possa condizionarne l’esercizio”(149).

In altre ipotesi la Corte “ha affermato l’imperatività delle norme poste a tutela della salute e sicurezza quali sono da considerare le disposizioni in materia di limiti legali all’orario di lavoro, all’orario massimo settimanale,ai periodi di riposo” e ha stabilito che il diritto alla salute, configurato dalla Direttiva come diritto soggettivo che fa capo al singolo lavoratore, non può essere indebolito da deroghe individuali che il singolo può non essere in grado di conoscere (150).

In questi e in altri casi “tra le pieghe di una imperfetta trasposizione delle direttive si colpisce  l’ esercizio arbitrario dei poteri imprenditoriali che la Corte colloca all’interno di una più comprensiva valutazione circa la responsabilità dello Stato” (151). Ed è chiara  la tecnica esegetica impiegata.

Lo Stato si colloca correttamente sul mercato solo quando adempiendo ai suoi obblighi comunitari garantisce la tutela della persona (salute parità di trattamento, condizioni di lavoro giuste ed eque). Sicché la stessa contrapposizione fra diritti fondamentali e diritti sociali appare qui inconsistente perché l’affermazione dei diritti fondamentali riconosciuti dall’Unione ” limita sin dall’origine l’esercizio dei poteri imprenditoriali” (152).

Tale esemplificazione  può ispirare alcune indicazioni per l’interprete.

“Da un principio costituzionale ( non da un diritto) non si può ricavare direttamente una posizione soggettiva azionabile che non abbia alcuna altra base” (153).

Un principio per essere tale attinge sempre elementi fuori da sé. Per evitare aspetti devianti (come l’assoluto, il sacro, l’ideologia), occorre grande attenzione alla giuridicità del fatto che emerge da una pluralità di fonti (154). Il principio non si applica, insomma, senza una regola laddove il termine non equivale a norma ma a ricerca della rule più adeguata al profilo sostanziale e processuale dell’interesse già protetto (155) dai principi dell’ordinamento comunitario richiamati dall’art.117 della nostra Costituzione.

Sulla base di questi precedenti giurisprudenziali è facile prevedere che la Carta dei diritti avrà una grande incidenza sul diritto interno e comunitario e che l’interprete accorto non avrà particolari impacci.

Il tema dei principi (156) è uno dei  più delicati per la presenza spessissimo di scelte  contrastanti, ma  il giurista deve  rivendicare la solitudine e la specificità del suo lavoro che non può essere guidata “esclusivamente dalle regole formali della deduzione logico-sistematica” (157).  Per un preciso motivo.

Il positivismo radicale “che interrompe ogni comunicazione del sistema  con i principi e con valori metagiuridici” “conduce ad una frattura sempre più drastica fra norma e realtà” e “lascia solo l’uomo … di fronte alla responsabilità di creare dal nulla una norma che fissi il discrimine fra bene e male”, con una scelta che l’uomo e il diritto “non sono in grado di sopportare” (158). Ne sono prova le categorie elaborate nel secolo passato sulla base dei valori del giusnaturalismo moderno che erano poi i valori della società borghese dell’ottocento. Ad essi  sono subentrati, nella società complessa,  i valori della Costituzione (159) nella forma dei diritti fondamentali che non sono  una arbitraria intuizione non percepibile oggettivamente (160).

I diritti e i doveri inderogabili hanno un preciso fondamento.  Non divino o naturale ma antropologico (161), frutto di  una stratificazione consolidata nei secoli e reso evidente, dopo le tragedie del novecento, dal costituzionalismo moderno.

Dignità, Libertà, Solidarietà, Uguaglianza, Cittadinanza, Giustizia sono il prodotto della storia umana  e dell’incontro di culture diverse e insieme “organi respiratori” del sistema normativo.

La vicenda della Carta di Nizza è in questo senso emblematica. Il processo costituente ha avuto da sempre un carattere normativo. Ma la storia di quel documento dimostra il contrario. Dopo essersi impegnati al massimo per inserire quel testo nei Trattati l’ atto formale è divenuto, ora, non essenziale.

La sua diffusione è il segno del rifiuto di alchimie sul valore formale dei diritti e tutto lascia pensare che non saranno dichiarazioni unilaterali, protocolli o limiti all’interpretazione a fermarne o paralizzare il processo che ha inserito la Carta nel sistema delle fonti del diritto comunitario.

 

 

 

 

NOTE:

 

(1) A.Schiavone, I nuovi rapporti tra Stato e Chiesa, in La Repubblica del 10 giugno 2008, p. 26.

(2) A.Schiavone, op. cit., p.IV.

(3) L.Martines, Savonarola.Moralità e politica a Firenze nel Quattrocento, Mondatori, 2008.

(4) L.Martines, op. cit., p. 8. Savonarola ” era il più accanito oppositore del dominio principesco dei Medici ( diventato poi “tirannia”), soprattutto perché sapeva che un governo umano e responsabile non avrebbe potuto realizzarsi senza un forte senso etico, di dedizione al bene generale della comunità e persino al valore dell’anima individuale. Ed è proprio in questo ambito, nel solco aperto dal suo atteggiamento morale, che la politica e il fondamentalismo religioso irruppero sulla scena per contendersi una parte dello stesso campo di azione”. Tanto che  le conseguenze infettarono Firenze e indussero , seppur di malavoglia, pensatori politici come Guicciardini e Machiavelli ad ammettere che ” lo stato, costretto a servirsi di Dio per le proprie finalità politiche, non potesse porsi al di fuori dei confini della religione”

(5) L.Martines, op. cit., p.8. In quel tempo “la politica rappresentava una delle preoccupazioni più urgenti delle classi fiorentine”. Lorenzo era alla fine della sua vita. Il suo erede Piero non dava buona prova di sé. Il lungo governo dei Medici (quasi cinquanta anni) aveva mescolato ” repubblica e tirrania” con segni evidenti sulle regole e la vita istituzionale pervasa da abusi, corruzione, intimidazioni. Al suo arrivo Savonarola era all’apice della maturità . Insegnava logica ai frati di San Marco  conquistando la loro fiducia sino a divenire dopo solo un anno il priore del Convento. Non si recò a “rendere visita” al Magnifico per evitare ogni piaggeria o sudditanza con il potere politico e iniziò, subito, la sua predicazione , prima a San Marco durante l’avvento, poi in Duomo nelle prediche quaresimali ove esplose il suo messaggio ed ebbe inizio la sua azione pubblica”

(6) L.Martines, op. cit., p. 18-28. L’omelia del 6 aprile (1492) era dedicata alla giustizia e rivolta ai Signori che “sono arroganti, amano l’adulazione …non ascoltano la voce dei poveri, si schierano con i ricchi…rimandano i processi” mentre dovrebbero ” fare il possibile per perseguire la pace  e l’eguaglianza, per..lottare contro l’avarizia.. l’invidia, l’odio e la discordia”. Ciò metteva in ovvio imbarazzo Lorenzo perché ” introduceva ..nella sfera religiosa questioni sociali e politiche…e introduceva valori religiosi nella politica”. Tuttavia le virtù del frate il suo ampio consenso e la folta schiera di intellettuali che lo seguivano non solo lo preservò da ogni censura ma accrebbe la sua immagine tanto che il Magnifico lo volle al suo capezzale in punto di morte.

(7) L.Martines, op.cit.,p. 61-62,78-79,81-82.

(8) L.Martines, op. cit., p. 214-215

(9) L.Martines. op. cit., p. 213-223

(10) Nella lettera a del 8 marzo 1497 si imputa al Frate di “secondare i tempi” e di colorire le sue bugie per catturare la  superstiziosa credulità dei suoi ascoltatori”. A Savonarola, pur rivolgendosi “con reverenza” (Discorsi I,11) Machiavelli imputa ambizione e partigianeria (Discorsi I,45) e una visione politica tutta costruita sulla presunta rivelazione di Dio tanto da rovinare ” come la moltitudine cominciò a non credergli” non avendo  lui ” modo a tenere fermi quelli che avevano creduto né a far credere i miscredenti “( Principe Cap. VII) .

(11) perché ” non vi fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in uno popolo che non ricorresse a Dio” e perché ” dove manca il timore di Dio conviene o che quel regno rovini o che sia sostenuto dal timore d’uno principe che sopperisca ai difetto della religione ( Discorsi I, 11).

(12) “per gli esempi rei di quella Corte” la perdita di ogni “devozione e religione e l’impossibilità di una unità politica della penisola. ( Discorsi I, 11)

(13) I. Berlin, Machiavelli, in Controcorrente, Adelphi, 2000,p.   “Dopo Machiavelli tutte le costruzioni moniste sono esposte al contagio del dubbio”  e in particolare ” la certezza che da qualche parte esista un tesoro nascosto… e che una qualche via debba condurvi”.

(14) I. Berlin, op.cit., p.

(15) G. Alberigo, Breve storia del concilio Vaticano secondo, Bologna, 2005, p.126.

(16) E. Balducci, Il cerchio che si chiude, a cura di L.Martini, Marietti, Genova, 1986, p. 43 ss., 51. La rottura dell’unità dei cattolici ha trovato radici forti e determinanti in quegli anni e ha avuto ulteriore impulso nella contestazione del ’68 , “che ebbe a Firenze un suo singolare preludio nei giorni dell’alluvione del ‘66”

(17) E. Balducci, Il cerchio che si chiude, op. cit., p. 52.

(18) Il confronto fa la rielezione trionfale di Bush e il minimo storico, oggi, della sua popolarità attuale ne è un segno preciso. V. E. Gentile, Non nominate Dio invano, Il Sole-24ore, 31 agosto 2008.

(19) Significato è un  dialogo recente, v. De Rita, La modernità della Chiesa, in Corriere della Sera, 13 agosto 2008, che individua una strategia vincente della Chiesa oggi riassunta in tre obbiettivi primari: l’attenzione alla vita delle Comunità locali, l’attenzione privilegiata ai giovani, la gestione articolata del mix fra sacro e santo. La risposta di E.Severinio ( Il Corriere della Sera, 15 agosto 2008) è netta : la vera avversaria del mondo cattolico e religioso è davanti agli occhi di tutti. “Nei territori del mondo, e nei sensi e nelle coscienze dei giovani, sta crescendo l’eco della morte di Dio…Mascherandola o ignorandola si favorisce e si alimenta la falsa coscienza di chi crede che l’avversario sia cosa di poco conto.”

(20) Ascoltare il respiro del mondo, Testimonianze,Quaderni del Cinquantennale, 2, 2007.

(21) G. Alberigo, op.cit.p.121

(22) A. Jacopozzi, “Salvati nella speranza”.Salvare le speranze,in Testimonianze, 456, 2008, p.5ss.

(23) J. Habermas, La Società post-secolare, in Repubblica, 19 luglio 2008, p.39

(24) A.Schiavone, Se la tecnica cancella la morte naturale, in Repubblica, 28 luglio 2008, p.1

(25) V. Mancuso, Libertà di scelta punto di incontro tra laici e cattolici, in Il Corriere della Sera, 22 luglio 2008, p.14

(26) G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Torino, 1992, 122.

(27) Cfr. I. NICOTRA GUERRERA, Vita e sistema di valori nella Costituzione, Milano, 1997, 68 ss. F. CAVALLA, Diritto alla vita, diritto sulla vita, in Dir. Soc., 2008, 1 ss.

(28) A. BALDASSARRE, Diritti inviolabili, in Enc, giur., XI, 1989, 29.

(29) C. CASONATO, Introduzione al biodiritto, Trento, 2006, 61. Si veda anche M.E. GENNUSA, La dignità umana vista dal Lussemburgo, in Quad. cost., 2005, p. 174-176, secondo l’A. la dignità è un concetto “vago e sfuggente, privo non solo di una formalizzazione nella Cedu  (…), ma anche di un substrato comune negli Stati membri che, sebbene tutti concordi circa la sua rilevanza, divergono poi sensibilmente quanto al suo specifico contenuto ed al grado della sua tutela”.

(30) Sul tema v. P. ZATTI, Verso un diritto per la bioetica, in M. MAZZONI ( a cura di), Una norma giuridica per la bioetica, Bologna, 1998, 63 e ss.

(31) Questo pare l’orientamento espresso anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 45/2005 con la quale ha dichiarato l’inammissibilità del referendum abrogativo totale della legge n. 40/2004. La Consulta sottolinea, infatti, che si tratta di una normativa costituzionalmente necessaria dal momento che è “la prima legislazione organica relativa ad un delicato settore che negli anni più recenti ha conosciuto uno sviluppo correlato a quello della ricerca e delle tecniche mediche, e che indubbiamente coinvolge una pluralità di rilevanti interessi costituzionali, i qua,i nel loro complesso, postulano quanto meno un bilanciamento tra di essi che assicuri un livello minimo di tutela legislativa“. Merita precisare che la Corte ha dichiarato l’inammissibilità del referendum abrogativo totale perché ha considerato “la normativa costituzionalmente necessaria” (non anche a contenuto costituzionalmente vincolato) a dimostrazione della doverosità dell’intervento del legislatore in tale settore.

(32) Cfr. C. PICIOCCHI, Le fonti del biodiritto: la complessità del dialogo, in C. CASONATO – C. PICIOCCHI, Biodiritto in dialogo, Padova, 2006, 88 ss.

(33) In un certo senso appartiene a questo modello anche la legge spagnola in materia di procreazione assistita (l. n. 35/1988). Essa infatti, pur ispirandosi a valori opposti a quelli protetti dalle corrispondenti leggi italiana e tedesca, ugualmente pone al centro un interesse prevalente: il principio di autonomia e la libertà di autodeterminazione che prevale sugli altri diritti ed interessi configgenti. Il carattere, per cosi dire, “impositivo” (di una concezione dominante) sembra potersi ricavare anche dalle modalità procedurali con le quali è stata approvata. La maggioranza socialista, infatti, scelse di adottarla con semplice legge ordinaria – e non con legge organica che richiede, per la sua approvazione, maggioranza aggravate – e l’approvazione fu addirittura affidata ad una Commissione parlamentare con funzioni deliberanti: neppure l’intero Parlamento ha partecipato alla sua approvazione.

(34) L. ELIA, Introduzione ai problemi pratici della laicità; F. RIMOLI, Laicità e pluralismo bioetico, entrambi consultabili al sito  http://www.associazionedeicostituzionalisti.it/ .

(35) C. CASONATO, Introduzione al biodiritto, cit., 185.

(36) Sent. 24 aprile 2002, in Guida al diritto, 19 ottobre 2002, n. 40,47.

(37) F. RIMOLI, Laicità e pluralismo bioetica, cit., 11.

(38) Pensiamo ad esempio ai casi dei medici che, dichiarandosi praeter legem obbiettori, si sono rifiutati di prescrivere la c.d. “pillola del giorno dopo” la quale non ha effetti abortivi, ma funzione antiannidatoria di un ovulo già fecondato.

(39) Per un’analisi specifica delle discipline dei principali ordinamenti da cui abbiamo tratto i dati esposti nel § 4 si rinvia ai saggi contenuti in v. C. CASONATO, T.E. FROSINI, La fecondazione assistita nel diritto comparato, Torino, 2006.

(40) Cfr Tribunale di Catania ord. 3 maggio 2004 che ha negato il diritto alla diagnosi pre-impianto ad una coppia di thalassemici. Contra, Trib. Cagliari, ord. 16 luglio 2005, Corte cost., sent. 396/2006; e di recente Trib. Cagliari sent. 22 settembre 2007.

(41) La casistica giurisprudenziale degli ultimi anni mostra chiaramente quali grandi problematiche, anche pratico-applicative, accompagnano le frontiere aperte dalle biotecnologie. Si pensi, ad esempio, al c.d. danno da procreazione o da esistenza, conosciuto negli ordinamenti di common law nella duplice categoria di tort of wrongful birth e tort of wrongful life. Il tort of wrongful birth descrive l’ipotesi in cui i genitori di un bambino nato disabile contestino la negligenza del medico nella diagnosi prenatale e lo accusino per il fatto di non averli informati riguardo alle anomalie del nascituro che, se conosciute, li avrebbero indotti ad optare per l’aborto o a non concepirlo. Nei casi in cui l’azione è stata accolta il risarcimento è stato collegato ai maggiori costi economici e morali che la coppia dovrà sostenere per accudire e curare un figlio menomato. Nel tort of wrongful life, invece, è il bambino stesso che accusa i medici (o i genitori) di aver permesso che nascesse in condizioni menomate. In questo caso il risarcimento dovrebbe soddisfare il danno subito dal bambino per il fatto di essere costretto a vivere in una condizione di handicap. Come è evidente, tali categorie giuridiche sollevano enormi dubbi di carattere etico, dal momento che implicano una visione oltraggiosa della disabilità quale fonte di un’esistenza che sarebbe stato meglio non vivere. Ciò nonostante, esse sono state oggetto di molte pronunce negli Stati Uniti (sull’argomento cfr. A. SCHUSTER, Al margine dello spettro comparatistico: il caso degli Stati Uniti, in C. CASONATO- T.E. FROSINI, La fecondazione assistita nel diritto comparato, cit., 160 ss) .ma anche in Germania (Tribunale costituzionale tedesco del 12 novembre 1997, BVerfGE 96, 375). Per un caso analogo in Italia v. Cass. civ., sez III, 29 luglio 2004, n. 14488 e Cass. civ., sez. III, 14.07.2006, n. 16123.

(42) C. PICIOCCHI, La disciplina giuridica della procreazione medicalmente assistita nell’ordinamento francese, in C. CASONATO, T.E. FROSINI, La fecondazione assistita nel diritto comparato, Torino, 2006, 115.

(43) R. ARNOLD, Questioni giuridiche in merito alla fecondazione artificiale nel diritto tedesco, in C. CASONATO, T.E. FROSINI, La fecondazione assistita nel diritto comparato, cit., 10.

(44) La normativa inglese pur non prevedendo nessun requisito di coppia, riconosce la necessità che il nascituro abbia un padre, indicazione che è stata interpretata come un modo indiretto di proibire l’accesso alle tecniche di fecondazione assistita alle coppie gay o lesbiche, cfr. sul punto S. A.M. MCLEAN, La fecondazione medicalmente assistita nel Regno Unito: il dibattito sulla regolazione giuridica, in C. CASONATO, T.E. FROSINI, La fecondazione assistita nel diritto comparato,cit., 96.

(45) L’analisi del contenzioso giurisprudenziale evidenza ulteriori problematiche connesse ai requisiti per l’accesso alla PMA. Si pone, ad es., il problema di quale soluzione adottare nel caso in cui dopo la fecondazione dell’ovulo, ma prima dell’impianto, la coppia si separi ovvero muoia il partner maschile. Può la donna ottenere l’impianto anche in assenza della volontà del compagno? Cfr. in tal senso Trib. Palermo ( 29 dicembre 1998, in Famiglia e diritto, 1998) che, con una pronuncia precedente alla legge n. 40/2004, aveva ordinato al centro medico “l’immediato adempimento della prestazione professionale”. In altri casi, invece, può sorgere un dissenso nella coppia circa la destinazione degli embrioni: a fronte di un genitore che chieda di procedere all’impianto, può opporsi la richiesta dell’altro genitore di destinarli alla ricerca o di distruggerli tout court. La decisione nell’uno o nell’altro senso si collega all’individuazione di “un diritto a procreare” o “a non procreare” ovvero all’eventuale sussistenza di un obbligo in tal senso per il genitore che, pur avendo prestato il suo consenso, non intenda più dar corso alla gravidanza.

(46) La fecondazione eterologa non va confusa con la c.d. maternità surrogata (altrimenti detta dell'”utero in affitto”) che si realizza sia quando la donna reca in se il frutto di un concepimento derivato da gameti altrui, sia quando fornisce il proprio gamete per ottenere la fecondazione. Così come avvenuto in Italia, anche molti altri ordinamenti si sono trovati a giudicare della legittimità di contratti aventi ad oggetto gravidanze condotte per conto altrui ed in tutti i casi la giurisprudenza, prima e la legge, poi hanno escluso la validità di tali negozi, tanto che anche una disciplina aperta e permissiva come quella spagnola ha disposto la nullità assoluta dei contratti, onerosi e gratuiti, con cui la donna dispone del proprio corpo (riducendosi a “macchina da riproduzione”) in quanto lesivi della sua dignità personale.

(47) Con tale distinzione si vuole indicare la differenza che corre fra l’eutanasia relativa ad un soggetto cosciente che può esprimere (o ha precedentemente espresso) la sua volontà e l’eutanasia relativa ad un soggetto incosciente o incapace di intendere di volere, quale ad esempio il paziente in stato vegetativo permanente o il neonato gravemente handicappato, rispetto al quale si parla di volontà “presunta”. Le due questioni, in verità, pongono problemi sensibilmente diversi pertanto, come spiegherò infra, devono essere tenute adeguatamente distinte.

(48) Il termine eutanasia viene utilizzato per indicare fenomeni molto diversi, nella riflessione filosofica e giuridica, infatti, sono state individuate altre “tipologie” di eutanasia che mi limito a ricordare, non essendo possibile darne adeguatamente conto. Si parla, ad esempio, di eutanasia eugenica (o eugenetica) consistente nell’eliminazione dei soggetti malati, disabili, di etnia diversa o comunque non considerati idonei alla sopravvivenza per alcune esperienze dell’antichità (la famosa rupe spartana) ricordate sia da Platone, (La Repubblica, III, 459c-460, in Opere complete, Roma-Bari, 2003) sia da Aristotele (La Politica, VII, 1335b, Roma-Bari, 1993) e nell’esperienza nazista dell’Euthanasieprogramm nazista. Sono qualificati espressione di “eutanasia economica”, e come tali ritenuti inaccettabili, quegli orientamenti che sottolineano l’eccessivo carico sulle finanze pubbliche rappresentato dal soggetto malato terminale mantenuto in vita artificialmente, senza speranza di guarigione, che sarebbe pertanto opportuno lasciar morire; cfr. per critiche in questo senso F. MANTOVANI, voce Eutanasia, in Dig. disc. pen., 423; R. ROMBOLI, Commento all’art. 5 del codice civile, in A. Scialoja – G, Branca (a cura di) Commentario al codice civile, 1988, 301 e ss. Conosciuta e ancora praticata in molti Paesi è la c.d. eutanasia criminale consistente nella pena di morte, ossia nell’eliminazione (peraltro non necessariamente indolore) di un soggetto responsabile di gravi reati (cfr. F. MANTOVANI, Problemi giuridici dell’eutanasia, in Archivio giuridico, nn. 1-2, 1970, 37. A queste tipologie si aggiungono poi l’eutanasia c.d. sperimentale derivante dalle sperimentazioni medico-farmaceutiche poste in essere su un soggetto, al fine di “testare” l’efficacia di un farmaco o di una terapia, e che hanno l’effetto di provocarne la morte; ed infine l’eutanasia profilattica o solidaristica, consistente nell’uccisione di determinati soggetti al fine di salvare altri o la collettività intera da danni alla salute o alla vita stessa (per queste classificazioni vedi fra i molti R. ROMBOLI, Commento all’art. 5 del codice  civile, cit., 301 ss).

(49) Cfr. C. TRIPODINA, Il diritto nell’età della tecnica. Il caso dell’eutanasia, Napoli, 2004, 168. F. FRENI, Biogiuridica e pluralismo etico religioso, Milano, 2000.

(50) C. TRIPODINA, Il diritto nell’età della tecnica, cit., 177

(51) Sulle molteplici differenze che caratterizzano i fenomeni ricondotti sotto la generica voce di “eutanasia” tornerò puntualmente nel proseguo. Per il momento basti pensare, ad esempio, al diritto al rifiuto di cure che viene riconosciuto anche se ciò può tradursi in un modo per lasciarsi morire (v. § 5.1.1); oppure all’adozione della medicina palliativa generalmente ammessa anche se ciò può condurre alla sedazione terminale (v. § 5.3).

(52) La definizione giuridica di morte è un concetto destinato a variare in relazione al progresso scientifico e tecnologico. Ed invero, fino al settecento la morte era giuridicamente collegata alla esalazione dell’ultimo respiro, successivamente è stata fissata al momento dell’arresto del battito cardiaco; mentre oggi è fatta coincidere con la cessazione delle funzioni celebrali al fine di rendere la nozione giuridica compatibile con la pratica dell’espianto e della donazione di organi.

(53) Cfr. in questi termini D’AIOLA, Diritto di morire?La problematica dimensione costituzionale della fine della vita, in pol.dir., 1998, 615; ID, “Diritto” e “diritti” di fronte alla morte, 202, il quale sottolinea che uno degli aspetti che maggiormente differenziano la richiesta di essere aiutati a morire dal lasciarsi morire è quello della “antinaturalità” della richiesta di eutanasia attiva puntando questa “a porre fine ad una vita umana, e non semplicemente a lasciar che essa si chiuda più velocemente per effetto o a seguito del rifiuto delle terapie di mantenimento”.

(54) In Italia manca una disciplina ad hoc sull’eutanasia e benché l’eutanasia attiva, come vedremo meglio di seguito, sia severamente vietata dal codice penale, le c.d. “direttive anticipate di trattamento” sono state oggetto di vari disegni di legge presentati al Parlamento. Coloro che escludono la liceità dell’eutanasia, anche volontaria, contestano entrambe le forme di richiesta. Rispetto alla richiesta in costanza di malattia dubitano che si possa effettivamente parlare di consenso informato, libero e consapevole dato che nei malati terminali la malattia e le sofferenze facilmente alterano gli stati di coscienza e volontà. Con riferimento alle direttive anticipate di trattamento, invece, sollevano perplessità riguardo al requisito dell’attualità del consenso dal momento che è stato espresso in situazioni cronologicamente distanti ed in condizioni di salute molto diverse. Si ritiene che le condizioni cliniche, fisiche, psicologiche, del paziente mutate a causa della patologia, possono indurre lo stesso a decidere ciò che in una situazione di capacità, ma di inconsapevolezza, sul proprio stato aveva escluso o viceversa. La procura sanitaria è stata, invece, fortemente criticata dato che potrebbe tradursi in una sorta di delega in bianco rilasciata ad un terzo che verrebbe a sostituirsi completamente al paziente nella decisione dei momenti ultimi della sua vita, in contrasto con il principio di autodeterminazione che queste tecniche dovrebbero, al contrario, salvaguardare.

(55) G. AMATO – V. PAGLIA, Dialoghi postsecolari, nella serie I libri di Reset, Venezia, 2006, 90-92 citato da L. ELIA, Introduzione ai problemi pratici della laicità, cit., 8.

(56) Il terzo comma dell’art 579 c.p. prevede tra le cause di invalidità del consenso “le condizioni di infermità mentale o deficienza psichica determinata dal altra infermità di mente” e le stesse condizioni costituiscono aggravanti specifiche della fattispecie di aiuto al suicidio. Dato che la “deficienza psichica” comprende le forme di abbassamento della funzione intellettuale, di indebolimento della funzione volitiva e di menomazione del potere di critica, è molto probabile che questa sia ritenuta sussistente in caso di malattia allo stadio terminale. Perciò, quando non si possa far capo alla figura dell’omicidio del consenziente (o dell’aiuto al suicidio), per il ricorrere di una delle condizioni indicate dalle norme, si deve applicare la disciplina dell’omicidio volontario comune ex art. 575 c.p. Sul punto v. C. TRIPODINA, Il diritto nell’età della tecnica..,cit., 63 ss.

(57) P. BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, 385 e ss.

(58) In questo senso P. BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, cit.,  385 e ss. A. D’ALOIA, Diritto di vivere e di morire?, cit., 612. Nella giurisprudenza costituzionale si vedano le sentenze 23 giugno 1994, n. 258, in Giur. cost., 1994, 2097, 22 giugno 1990, n. 307, in Giur. cost., 1990, 1874 ss.

(59) Il secondo alinea dell’art. 32, comma 2, secondo parte della dottrina pone una riserva di legge c.d. rinforzata in quanto quest’ultima trova uno specifico limite al suo contenuto dispositivo, non potendo imporre trattamenti sanitari che in qualche modo superino i limiti del rispetto della persona umana. Si veda in questi termini R. ROMBOLI, La libertà di disporre del proprio corpo: profili costituzionali, in L. STORTONI (a cura di) Vivere: un diritto o un dovere? Riflessioni sull’eutanasia, Trento, 1992, 15 e ss; F. MODUGNO, Trattamenti sanitari “non obbligatori” e Costituzione, in Diritto e società, 1982, 313.

(60) In questi termini F. MODUGNO, Trattamenti sanitari “non obbligatori” e Costituzione, 312 ss; R. ROMBOLI, Commento all’art. 5 del codice civile, cit., 339; F.FRENI, Biogiuridica e pluralismo etico-religioso, cit, 127; A. D’ALOIA, Diritto di morire?, cit., 611. Contra l’idea che l’art. 32, comma 2, legittimi il rifiuto delle cure anche quando questo possa condurre alla morte: P.A. RIECI – M.O. VENDITTI, Eutanasia, diritto a morire e diritto di rifiutare le cure:equivoci semantici e prospettive di riforme legislative, in La giustizia penale, 1993, I, c. 283; L. EUSEBI, Sul mancato consenso al trattamento terapeutico: profili giuridico penali, in Rivista  italiana di medicina legale, 1995, 735.

(61) F. MANTOVANI, Aspetti giuridici dell’eutanasia, cit., 78 secondo il quale il medico non pone in essere nessuna omissione giuridicamente rilevante, non essendo più tenuto a curare, e la morte non è imputabile a lui”. F. GIUNTA, Diritto di morire e diritto penale. I termini di una relazione problematica, in M. MAZZONI (a cura di), Una norma giuridica per la bioetica, Bologna, 1998, 256, che afferma “quando il malato esercita il suo pieno diritto di morire, la sua richiesta in tal senso fa cessare l’obbligo giuridico di agire del medico e la sua posizione di garanzia rispetto alla salute del paziente”.

(62) Il dibattito intorno alla possibilità di riconoscere una copertura costituzionale all’eutanasia attiva e all’aiuto al suicidio in parte si inserisce nella questione circa il carattere chiuso o aperto del catalogo dei diritti inviolabili tutelati dalla Costituzione. Secondo l’interpretazione di una parte della dottrina l’art. 2 conterrebbe solo una formula “chiusa” riassuntiva delle altre previsioni costituzionali,  pertanto  sarebbero garantite slo le libertà espressamente riconosciute nel testo costituzionale. Cfr. in questi termini A. PACE, Problematica delle libertà costituzionali. Parte generale, Padova, Cedam, 1985, 3 ss: P. BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, cit., 54 ss.Una parte della dottrina interpreta l’art. 2 come una norma aperta  che dunque può coprire l’affermazione di altre posizioni inviolabili oltre a quelle espressamente sancite dalla carta costituzionale (G. AMATO, Libertà: involucro del tornaconto e della responsabilità individuale?, in Pol. dir., I, 1990, 47 ss. A. BARBERA, Commento all’art. 2 Cost, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna, Zanichelli, -Roma, 1975,  84 ss.

(63) I. NICOTRA GUERRERA, Vita e sistema di valori nella Costituzione, Milano, Giuffrè, 1997, 147 ss.

(64) G.P. CALABRO’, Valori supremi e legalità costituzionale, Torino, 1999, 158 ss.

(65) V. per tutti P. BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, cit., 59 ss.

(66) Portata alle estreme conseguenze, da questa tesi si ricaverebbe che gli art. 579 e 580 c.p. sono incostituzionali nella misura in cui impediscono il suicidio a chi non può praticarlo da solo.

(67) Che potrebbero essere sostanziali, ad es. gravità o irreversibilità della patologia, gravità delle sofferenze fisiche e psichiche, e procedurali, ad es. acquisizione del consenso informato, requisiti di attendibilità del consenso, accertamento dell’assenza di stati depressivi del soggetto, previsione di un periodo di “ripensamento” tra il momento della richiesta e il momento della sua attuazione ecc..

(68) Anche in questo caso, naturalmente, presupposto fondamentale dell’ammissibilità del diritto ad essere aiutato a morire sarebbe la piena capacità di autodeterminazione del soggetto: solo in questo senso  l’eutanasia sarebbe riconosciuta come diritto alla propria morte.

(69) Reperibile al sito http://www.lucacoscioni.it/

(70) Pubblicate in Bioetica, 2003.

(71) Pubblicata in Il diritto di famiglia e delle persone, 1/2008, con nota di F. GAZZONI, La Cassazione riscrive la norma sull’eutanasia, ivi, 64 ss.

(72) La Corte di Appello di Milano, ord. 25 giugno 2008, applicando i due criteri elaborati dalla Corte di Cassazione nella sentenza citata, ha autorizzato il distacco della macchina di alimentazione ed idratazione artificiale che tiene in “vita” la donna in stato vegetativo permanente dal 1992.

(73) Si veda al riguardo C. CASONATO, Introduzione al biodiritto, 131 e ss.

74) Le sentenze citate in materia di substituted judgement sono commentate in G. PONZANELLI, Il diritto a morire: l’ultima giurisprudenza della Corte del New Jersey, in Foro.iIt., parte IV, 1988, coll. 291-308.

(75) Pubblicata in Foro.it., Parte IV, 1991, coll.66-72, con nota di A. SANTOSUOSSO, Il paziente incosciente e le decisioni sulle cure: il criterio della volontà dopo il caso Cruzan, ivi.

(76) Ed invero nel caso Cruzan la Corte Suprema ha negato che i familiari della paziente in stato vegetativo permanente potessero intervenire quali surrogate decision makers dal momento che la volontà del soggetto incapace non era stata adeguatamente provata.

(77) Cfr. la legge dello Stato della California, l. n. 3060/1976, nota come Natural Death Act, e la normativa federale c.d. Uniform Determination Act del 1985 emanata al fine di armonizzare la disciplina dei diversi Stati in materia di testamenti di vita e di interruzione delle cure dei pazienti terminali afflitti da malattia incurabile o irreversibile.

(78) Per una previsione in questo senso cfr. il Natural Death Act, sez. 7191 lett. b).

(79) Il testo definitivo del Trattato, elaborato dalla Conferenza Intergovernativa, è stato approvato durante il Consiglio europeo informale di Lisbona del 18 e 19 ottobre 2007 e sarà firmato dagli Stati membri nel dicembre 2007. Alla firma farà seguito il processo di ratifica in tutti i 27 paesi. Il nuovo trattato dovrebbe entrare in vigore prima delle prossime elezioni del parlamento europeo del giugno 2009.

(80) Nel testo del protocollo allegato si dice quanto segue .Art.1   1. La carta non estende la facoltà della Corte di Giustizia o di qualsiasi corte o Tribunale del Regno Unito, di affermare che le leggi, i regolamenti o le disposizioni amministrative, pratiche o azioni del Regno Unito non siano conformi con i diritti fondamentali, le libertà e i principi che questa afferma.  2 In particolare , e per evitare dubbi, il Titolo IV della Carta non crea diritti rivendicabili dinanzi ad un organo giurisdizionale e applicabili al Regno Unito a meno che il Regno Unito non abbia istituito tali diritti nella propria legislazione nazionale. Art. 2  Qualora una disposizione della Carta faccia riferimento a diritti e pratiche nazionali ,questa sarà applicabile nel Regno Unito nella misura in cui i diritti o i principi che contiene sono riconosciuti nel diritto o pratiche del Regno Unito. V il testo del mandato del Consiglio europeo in http://www.europa.eu.it/ CIG 2007 p. 12.

(81) V. sul punto G. Vettori, ( a cura di ) Carta europea e diritti dei privati, Padova, 2002; Id. Carta europea e diritto dei privati in Riv. dir. civ. 2002, pp. 669-695, p. 686; L’Europa dei diritti:Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, a cura di R. Bifulco- M. Cartabia-A. Celotto, Bologna ,2001; I diritti fondamentali dopo la Carta di Nizza. Il costituzionalismo dei diritti, a cura di G.F. Ferrari, Milano,2001; Contratto e costituzione, in Europa,  a cura di G. Vettori, Padova, 2005; e per una sintesi efficace F. Panetti, Autonomia contrattuale e persona nella dialettica tra diritti sociali e libertà individuali:un percorso europeo, in Riv. dir. civ. 2007, I, p.517ss.; per una visione critica P. Grossi, Le molte vie del Giacobinismo giuridico. Ovvero ‘La Carta di Nizza’, il progetto di ‘Costituzione Europea’ e le insoddisfazioni di un storico del diritto, in Mitologie giuridiche della modernità, 2.ed, Milano,2007,p.127 ss.

(82) V. Catalogo dei diritti e Costituzione europea, op. cit., p. 358.

(83) V. R. Del Punta, Mercato, Lavoro, Diritti fondamentali, in Carta europea e diritti dei privati,op. cit, p.169 ss.

(84) M. Fioravanti, La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nella prospettiva del costituzionalismo moderno,in Carta europea e diritti dei privati, a cura di G. Vettori, cit., p.206  “Altro discorso… è quello che scorge nella Carta l’inizio, ancora difficile e contraddittorio, di un processo alla fine del quale sia legittimo parlare di un popolo europeo in senso normativo, come insieme di individui in parte titolari di diritti differenziati sul piano nazionale, ma comunque sempre più letti ed interpretati nel quadro di un comune patrimonio costituzionale. Ma se di “popolo europeo” si può parlare è solo in questo senso, ed in conseguenza di questo processo, e non come suo presupposto, come soggetto costituente originario, nella linea, probabilmente oramai esaurita sul piano storico, delle Costituenti nazionali democratiche”

(85) M. Fioravanti, op. cit. p 208.

(86) M. Fioravanti, op. cit., p.209.

(87) S. Rodotà, Nel silenzio della politica i giudici fanno l’Europa, in (a cura di) G. Bronzini, V. Piccone, La Carta e le Corti, Chimienti, 2007, p.23.

(88) S. Rodotà, op. cit, p.24.

(89) M. Fioravanti, op. cit. p. 209.

(90) A. Pace, A che serve la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,in Giust. cost., 2001,p.193 ss.; U. De Siervo, L’ambigua redazione della Carta dei diritti fondamentali nel processo di costituzionalizzazione dell’Unione Europea, in Diritto Pubblico, 2001,p.55 ss..

(91) Weber, Il futuro della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in Riv. It. dir. pubb. comunit.,2002,31 ss.

(92) Pocar, commento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in Commentario breve ai Trattati della Comunità e dell’Unione europea, Padova 2001, p.1179 ss.

(93) A. Barbera, La Carta dei diritti:una fonte di ri-cognizione?, in Diritto Unione Europea,2001,p.241 ss.

(94) Così S. Rodotà, Nel silenzio della politica i giudici fanno l’Europa, in La Carta e le Corti,cit. p. 24 e il volume curato da Bisogni,Bronzini,Piccone, I giudici e la carte dei diritti dell’Unione europea, Chimienti, 2006.

(95) V.G. Bronzini, V. Picone, Parlamento europeo,Corte di giustizia e corte di Strasburgo rilanciano la Carta di Nizza : un messaggio alla futura Conferenza intergovernativa?, in http://www.europeanrights.eu/ ,5.5.2007.

(96) Prima fra tutte A. Celotto-G. Pistorio, L’efficacia giuridica della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (rassegna giurisprudenziale 2001-2004), in Giur. it., 2005 , p. 427 ss.

(97) CGCE 9 ottobre 2001, C-377/98 sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche e CGCE 19 marzo 2004 C-196/03.

(98) Caso 36/02 [ 2004] ECR I-09609 (ECJ)

(99) v. Conclusioni dell‘Avvocato generale Six-Hackl del 18 marzo 2004, in particolare nn.ri 82-91.

(100) G. Pistorio, L’influenza della Carta di Nizza nelle sentenze della Corte di giustizia in materia di eguaglianza e dignità della persona, in http://www.europeanrights.eu/ 5.5.2007 p.6

(101) nello stesso senso v. Caso 260/89 ERT [1991] ECR I-2925 (ECJ); Caso Connolly v Commissione [2001] ECR I-1611, 37 (ECJ); caso 94/00 Moquette Frères [2002] ECR I-9011,25 (ECJ); Caso Schmidberger [2003] ECR I-5659,71 (ECJ).

102) V.G. Pistorio, L’influenza della Carta di Nizza nelle sentenze della Corte di Giustizia in materia di eguaglianza e dignità della persona, in www.europeanrights.eu , 5.5.2007

(103) G. Pistorio, L’influenza della Carta di Nizza nelle sentenze della Corte di Giustizia in materia di eguaglianza e dignità, cit., p 5.

(104) Corte Cost. 24 aprile 2002, n.135 in Foro it., 2004, I, 390, dichiarando infondata una questione di costituzionalità in merito all’estensione della disciplina delle intercettazioni delle comunicazioni fra presenti.

(105) Corte Cost. 24 ottobre 2002, n.445, in Foro it., 2003, I, 1018.

(106) Cartabia, Celotto, La giustizia costituzionale in Italia dopo la Carta di Nizza, in Giur. cost.,2002,p.4476.

(107) vedi entrambi  i provvedimenti in A.Celotto-G.Pistorio, op. cit, p. 430

(108) Corte europea dei diritti dell’uomo, 11 luglio  1991, n. 28957/95 § 100.

(109) G. Vettori, Carta europea e diritti dei privati,  in Riv. dir. civ. 2002, p.674 ss.

(110) Caso 453/99 del 20 settembre 2001, in Foro it. 2002, c. 75 ss; v. anche G. Vettori, Diritto dei contratti e “costituzione” europea, op. cit. p. 163 ss. Una Corte inglese aveva formulato il quesito se un contraente di un intesa restrittiva della concorrenza potesse chiedere tutela nei confronti dell’altra parte che aveva imposto una clausola ingiustamente vantaggiosa. La pretesa era sembrata al giudice nazionale in contrasto con il principio che non si può trarre beneficio dal proprio comportamento illecito, e tale è senz’altro l’adesione ad un intesa illecita per contrasto con la normativa comunitaria. Da qui la richiesta di intervento della Corte di Giustizia la quale ha ricordato, anzitutto, che i Trattati hanno dato vita ad un ordinamento integrato nei sistemi nazionali, che crea diritti direttamente o tramite l’imposizione di obblighi; ha risposto poi che la tutela non può essere esclusa a priori in base al diritto dell’Unione purchè il giudice nazionale tenga in conto una serie di elementi di valutazione quali il contesto giuridico ed economico nel quale le parti si trovano, il rispettivo comportamento, l’eventuale posizione di inferiorità grave di una nei confronti dell’altra, tale da compromettere o da annullare la libertà di negoziare le clausole del contratto.

(111) V. A. Lucarelli, commento sub art. 17, in L’Europa dei diritti, op. cit., p. 139 ss.

(112) Su tale vicenda v. M. Trimarchi , La proprietà nella costituzione europea, in Costituzione europea e interpretazione della Costituzione italiana, a cura di G. Iudica e G. Alpa, Napoli, ESI, 2006, p.259 ss, ma v. per il diritto interno le osservazioni di Giannini, Basi costituzionali della proprietà privata, in Pol. Dir., 1971, p. 465 ss. e ,. in particolare, di L. Mengoni, Proprietà e libertà, in Riv. crit. dir. priv.,1988, p.445.

(113) V. M. Comporti,( a cura di) La proprietà nella Carta europea dei diritti fondamentali, Milano, 2005; ed ivi S. Rodotà, Il progetto della Carta europea e l’art.42 Cost., p.162 e F. Lucarelli, Il diritto di proprietà. Valori costituzionali e valori condivisibili alla luce dei Trattati europei, p. 28 ss.;G. Vettori, Carta Europea e situazioni dei privati, op. cit., p. 2 ss.

(114) CGCE 30 aprile 1996, C-13/94, in Racc.,1996,2143.

(115) CGCE 7 gennaio 2004, in C-117/01, in Racc.2004, I-541. v. sul punto G. Pistorio, L’influenza della Carta di Nizza nelle sentenze della Corte di giustizia in materia di eguaglianza e dignità della persona, cit. p.7.

(116) CGCE 27 aprile 2006, in C-423/04 citata ancora da G. Pistorio, op. cit. p.7

(117) v. per tale ricognizione A. Celotto, G. Pistorio,L’efficacia giuridica della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, cit. p.430 ss.

(118) S. Sciarra, Diritti fondamentali, principi generali di diritto europeo: alcuni esempi nella recente giurisprudenza della Corte di Giustizia, in La Corte e le Corti, cit.,  p.105  e il richiamo del caso Bectu  Causa C-173/99 The Queen v. Secretary of State for Trade and Industry, ex parte Broadcast-ing, Entertainment Cinematrographic and Theatre Union , 26.6.2001, Racc. 2001,I-4881 ove si afferma che i diritti sociali non sono affatto subordinati ai diritti economici. V. anche le conclusioni dell’Avvocato Generale Tizzano , 8 febbraio 2001, punti 26 e 27 in C-133/OO, 8 maggio 2001.

(119) C-397/01, 5.10.2004, Racc.,2004,I-8835. 2 “La corte sostiene che il diritto alla salute, configurato dalla Direttiva come diritto soggettivo che fa capo al singolo lavoratore, non può essere indebolito da deroghe individuali” così. S.Sciarra, op. cit. p.109.

(120) S. Sciarra, op. cit. p.118-119.

(121) V. A.Celotto- G.Pistorio, op.cit.p.433 e il richiamo a TAR Emilia Romagna 20 giugno 2002,n.959 e TAR Sicilia del 10 dicembre 2003, n.79 in tema di violazione dei minimi retributivi e salariali.

(122) V. ancora A. Celotto, G. Pistorio, op. cit., p.434.

(123) v. M. Fioravanti, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nella prospettiva del costituzionalismo moderno, cit.

(124) su cui v. Cartabia- Weiler, L’Italia in Europa. Profili istituzionali e costituzionali, Bologna, 2000, p.233 ss.

(125) C. Marzuoli, Carta europea dei diritti fondamentali, “Amministrazione” e soggetti di diritto:dai principi sul potere ai diritti dei soggetti, in Carta europea e diritti dei privati, cit., p.255 ss.

(126) così A.Celotto-G.Pistorio, op. cit., p. 436

(127) CGCE 27 giugno 2006, C-540/03, in Dir. immigrazione e cittadinanza, 2006, 3, 110.

(128) G. Bronzini, V. Picone, Parlamento europeo, Corte di Giustizia e Corte di Strasburgo rilanciano la Carta di Nizza: un messaggio alla futura conferenza intergovernativa?, in http://www.europeanrights.eu/ , 5.5.2007.

(129) CGCE 13 marzo 2007  Unibet, C-432-05, in GUCE C95/9 del 28 aprile 2007.

(130) Corte europea dei diritti dell’uomo, 19 aprile 2007 ( Vilho Eskelinen e altri / Finlandia), ric. N. 63235/00

(131) A. Celotto, Giudici nazionali e carta di Nizza, cit. p.43 Sin ad allora è certo il valore interpretativo e giurisprudenziale del testo e sarà possibile che esso svolga una funzione primaria con la tecnica della interpretazione conforme che è stata estesa di recente dalla Corte di Giustizia anche al diritto comunitario non direttamente applicabile e in particolare alle Direttive il cui termine di trasposizione non sia ancora scaduto[1].  Si è fatto notare così che “l’obbligo di interpretazione conforme costituisce uno degli effetti “strutturali” della norma comunitaria che consente assieme allo strumento più “invasivo” dell’efficacia diretta, l’adeguamento del diritto interno ai contenuti e agli obbiettivi dell’ordinamento comunitario”[1], e che se tale obbligo si impone per ogni norma di diritto comunitario, a prescindere dalla diretta applicabilità, questa è la strada maestra per consentire ai giudici una applicazione “più vincolante della Carta di Nizza” (ID., op. loc. cit.).

(132) Corte europea dei diritti dell’uomo, 19 aprile 2007 (Vilho Eskelinen e altri /Finlandia ), cit.

(133) cfr. in particolare la giurisprudenza sul «principio di precauzione» di cui all’articolo 174, paragrafo 2 del trattato CE (sostituito dall’articolo III-233 della Costituzione): sentenza del TPG dell’11 settembre 2002, causa T-13/99 Pfizer c. Consiglio, con numerosi rinvii ai precedenti giurisprudenziali e una serie di sentenze sull’articolo 33 (ex 39) in merito ai principi della normativa agricola, ad es.: sentenza della Corte di giustizia, causa C-265/85 Van den Berg, Racc. 1987, pag. 1155, C 310/458 IT Gazzetta ufficiale dell’Unione europea 16.12.2004. V. sul punto il bel volume di G. Comandè ( a cura di), Gli strumenti della precauzione:nuovi rischi, assicurazione e responsabilità, Milano, 2006.

(134) Nelle conclusioni del Consiglio europeo svolto a Bruxelles il 21 e 22 giugno 2007 si è deciso che la Carta dei diritti assuma valore giuridico con il richiamo dell’art.6 dei Trattati ,richiamando il Titolo VII sulla interpretazione e applicazione. Salvo  la dichiarazione unilaterale della  Polonia e il protocollo aggiuntivo voluto dal Regno Unito.

(135) A. Pizzorusso, Una Costituzione “ottriata”,in E. Paciotti, (a cura di ), La Costituzione europea, Roma, 2003, p.47ss.

(136) V. Onida, Il problema della giurisdizione, in E. Paciotti, ( a cura di), La costituzione europea, cit. p.137 ss.

(137) Classici gli studi di V. Scialoja, Del diritto positivo e dell’equità, Camerino,1880 che si basa su di una concezione legalista e di G. Del Vecchio, Sui principi generali del diritto,Archivio giuridico, 1921 che fonda invece la sua teoria su una solida visione giusnaturalistica. V. anche gli atti del Convegno promosso nel 1940 dall’Università di Pisa, Studi sui principi generali dell’ordinamento giuridico, a cura dell’ Università di Pisa, 1943, e sulle tematiche più recenti N. Bobbio,Principi generali del diritto, in Noviss. Dig. it,Torino,vol. XIII, pp.892 ss. e in particolare gli atti del Convegno organizzato dall’Accademia dei Lincei, I principi generali del diritto, Roma, 1992. ed ivi  A. Falzea ,Relazione introduttiva,p.12 ss. ; e la limpida sintesi di P. Perlingieri, La dottrina del diritto civile nella legalità costituzionale, in Rass. dir. civ.,2007,2,p. 487ss.

(138) R. Adam, Principi generali e introduttivi,in Il diritto privato dell’Unione europea, a cura di A.Tizzano, Tomo I, nel Tratt. Dir. priv., (diretto da) M. Bessone, Torino, 2000, p.73

(139) CGCE 12 giugno 2003, C-112/00 ( Schmidberger ), in Racc.,2003,I-5659

(140) V. sul tema ,in generale, L. Mengoni, I principi generali del diritto e la scienza giuridica, in I principi generali del diritto, cit. p.318 ss.

(141) R. Dworkin, Law’s Empire, Cambridge-London, 1986, p. 40ss.

(142) Così L. Mengoni, ult. op. cit., p. 325.

(143) G. Zagrebelsky, Diritto per :valori, principi o regole?, cit .p.865 ss. La Corte Costituzionale italiana e la Corte di Giustizia hanno assunto un atteggiamento esemplare. Entrambe ,per ragioni diverse, escludono l’esistenza di un “ordine concreto di principi e di valori costituzionali dal quale scaturiscano scelte positivamente vincolanti per il legislatore”. Ciò avrebbe in Italia degradato la legge a semplice esecuzione dei precetti costituzionali e consentito alla Corte di occupare il posto della politica e del dialogo democratico, mentre in Europa avrebbe legittimato una lesione delle identità nazionali da parte dei Giudici contro un principio solenne del diritto comunitario”

(144) G. Zagrebelsky, ult. op. cit. Le due Corti, invece, hanno utilizzato un controllo esterno della legge che si basa su pochi e chiari presupposti. Indicare i principi costituzionali che un certo caso legislativo pone in luce esaminando se ” il legislatore li ha valutati e valorizzati in modo non manifestamente irragionevole”; isolare i principi costituzionali ” che non possono essere ignorati” senza fissare, in positivo, “le regole che se ne devono trarre e senza dedurre le conseguenze in un ordine assiologico predefinito”

(145) G. Zagrebelsky, op. cit. p. 887.

(146) G. Zagrebelsky, op. cit. p. 888.

(147) G. Zagrebelsky, op. cit. p. 888.

(148) S. Sciarra, Diritti fondamentali, principi generali di diritto europeo: alcuni esempi nella recente giurisprudenza della Corte di Giustizia, cit. p. 108.

(149) S. Sciarra, op. cit. p. 118.

(150) S. Sciarra, op. cit. p. 117

(151) S. Sciarra, op. cit. p. 118.

(152) S. Sciarra, op. cit. p. 119

(153) V. Onida, Il problema della giurisdizione, cit., p.133.

(154) E. Ghiozzi, Postmodernismo giuridico e giuspositivismo, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2006, p.801 ss.

(155) Il termine rule non coincide, è noto, nella civil Law con il riferimento alla norma e assume nella stessa common Law un significato da accertare caso per caso. Indica per lo più la regola giurisprudenziale ma anche il principio, il regolamento, l’ordine, la misura a seconda del sostantivo cui si lega. Unito alla parola construction la rule assume, appunto, il senso di canone di costruzione giuridica ed è in questa accezione che è opportuno usarla con un preciso scopo.

In tal modo si vuol ricordare che il diritto dei contratti ha oggi il compito primario di percepire e di attuare un ordine complesso di valori e principi che si sta definendo nella Unione Europea.

Diritti e rimedi. Tensione ordinante e tutele efficienti sono strumenti che l’interprete dovrà utilizzare per questo sforzo costruttivo comune alla giurisprudenza teoria e pratica.

(156) P. Rescigno, Conclusioni, in I principi generali del diritto, Convegno dell’Accademia Nazionale dei Lincei, (Roma 27-29 maggio 1991), Roma,1992, p.345.

(157) L. Mengoni,Diritto e tecnica, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2001, p. 6.

(158) L. Mengoni, Diritto e tecnica,cit.p.6. ma v. ora la nuova edizione della poderosa opera di P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, secondo il sistema italocomunitario delle fonti, 3 ed., Napoli, ESI, 2006.

(159) V. ancora, da ultimo, G. Zagrebelsky, La virtù del dubbio, Intervista su Etica e Diritto a cura di G. Preterossi, Roma-Bari, 2007, p.59 ss. ,73 ” non potendoci affidare a strutture normative oggettive, precedenti e indipendenti dal puro esercizio del potere- il nomos non scritto e immutabile di Antigone….- è diventato inevitabile mettersi d’accordo. Ecco qua: la costituzione è un “mettersi d’accordo” laddove la legge è un “mettere d’accordo”; una parolina in più o in meno per esprimere una grande differenza.”

(160) Così  N. Irti, Nichilismo giuridico, Bari-Roma, 2004; Id., Il salvagente della forma, Bari-Roma,2007, p. V  ss.

(161) v. da ultimo R. Sacco, Antropologia giuridica, Bologna, 2007; ma v. anche  l’Enciclica Centesimus annus, Edizioni Paoline, Milano 1991, p. 5 ss. e G. Vettori, La struttura antropologica dei diritti fondamentali, in Giovanni Paolo II. Le vie della Giustizia. Itinerari per il terzo millennio. Omaggio dei giuristi a Sua Santità nel XXV anno di Pontificato, Bardi Editore, Roma, 2003, p.324 ss.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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