La Corte di Cassazione torna a chiedersi se una persona fisica che, al di fuori dell’esercizio della sua attività professionale, presti fideiussione a garanzia del debito di un soggetto professionista, vada considerata alla stregua di un consumatore oppure debba essere qualificata come professionista c.d. di riflesso. La questione non è meramente teorica, ma presenta importanti ricadute pratiche, implicando l’applicabilità o meno della disciplina consumeristica di protezione, anche con riferimento alla individuazione della competenza giurisdizionale.
Non a caso, la pronuncia che qui si segnala origina dalla opposizione, proposta dal debitore principale e dal suo fideiussore (moglie e marito), contro il decreto ingiuntivo emesso da una banca per debiti derivanti da un mutuo chirografario e da uno scoperto di conto corrente. Tale controversia implica, però, la preliminare questione dell’individuazione della competenza giurisdizionale. Difatti, la banca, sull’assunto che il debitore principale e il fideiussore abbiano la qualifica di consumatori, incardina il giudizio davanti al Tribunale di Fermo, cioè quello di residenza dei condebitori. Il giudice, invece, accogliendo l’eccezione degli opponenti, dichiara la propria incompetenza a favore del Tribunale di Ascoli Piceno, cioè quello di residenza della banca; ciò in quanto nel contratto di mutuo vi è una clausola che riserva espressamente la competenza all’autorità giudiziaria nella cui giurisdizione si trova la sede legale della banca, salvo che il cliente rivesta la qualità di consumatore. Simile clausola è contenuta anche nel contratto di fideiussione che accede al mutuo. Nella specie, secondo il giudice adito, il debitore stipula il mutuo quale titolare di una ditta individuale nell’ambito della sua attività professionale, mentre il fideiussore interviene quale persona fisica non professionista; sicché, in virtù del principio per cui la qualità del debitore principale attrae quella del fideiussore, la competenza dovrebbe essere quella del tribunale della sede legale della banca, con esclusione delle regole consumeristiche.
La banca decide, allora, di ricorrere per cassazione con istanza per regolamento di competenza, persistendo nel sostenere la competenza del tribunale adito, giacché le parti non hanno mai espresso la volontà di considerare come foro esclusivo il diverso foro della sede della banca.
La decisione della Corte di Cassazione muove da due accertamenti preliminari.
In primo luogo, si osserva che, nel caso in esame, le clausole sulla competenza territoriale predisposte dalla banca nei due contratti sono di tenore e di portata diversi. In applicazione di principi oramai consolidati (cfr. Cass., n. 10016/1994), la Corte accerta che nel contratto di fideiussione vi è la chiara ed espressa previsione, concordata da entrambe le parti, di una electio fori in via esclusiva per il luogo ove ha sede la banca, mentre nel contratto di mutuo una tale pattuizione non trova riscontro. In secondo luogo, la Corte ricostruisce l’esatta qualifica con cui i condebitori sono intervenuti a stipulare il contratto. Di fronte alla pacifica qualifica di consumatore propria del fideiussore, il quale presta garanzia in considerazione del rapporto di coniugio che lo lega alla debitrice principale, quest’ultima, secondo la Corte, non è da ascrivere alla categoria dei consumatori – come sostenuto, invece, dalla banca -, avendo essa contratto il mutuo nell’ambito della sua attività professionale.
Ebbene, nella specie, è vero che il contratto di fideiussione reca una clausola con l’electio fori esclusiva per il luogo ove ha sede la banca, ma è anche vero che il fideiussore riveste pacificamente la qualifica di consumatore. Sicché, per stabilire se sia applicabile la disciplina consumeristica, nonostante la previsione di una electio fori esclusiva, secondo la Corte, non può più essere richiamato il principio per cui «la persona fisica che presta fideiussione per la garanzia di un debito ricadente su di un soggetto “professionale”, non assume lo status di consumatore» (cfr. Cass., n. 314/2001; Cass., n. 10107/2005; Cass., n. 13643/2006; Cass., n. 25212/2011; Cass., n. 16827/2016; Cass., n. 24846/2016). Tale orientamento tradizionale, avallato anche da un lontano precedente della Corte di Giustizia – secondo cui la disciplina consumeristica si applica «solo quando il contratto principale si configuri come atto di consumo» (CG 18 marzo 1998, causa C-45/96) – troverebbe giustificazione nel carattere di accessorietà che connota l’obbligazione fideiussoria. E in effetti, l’argomento del vincolo di accessorietà tra i due contratti sarebbe confortato anche dal dato normativo (artt. 1939, 1941 e 1945 c.c.), da cui emerge il collegamento “necessario, unilaterale e funzionale” che intercorre tra i due negozi.
L’orientamento giurisprudenziale descritto è stato contestato dalla giurisprudenza di legittimità tanto nel 2005 (Cass., n. 449/2005), quanto in tempi più recenti. In particolare, in un’ordinanza del 2018 la Corte di Cassazione (cfr. Cass., n. 32225/2018) richiama i principi enunciati dalla Corte di Giustizia in due note pronunce del 2015, con le quali è stato completamente ribaltato il precedente indirizzo (cfr. CG 19 novembre 2015, causa C-74/2015; CG 14 settembre 2016, causa C-534/2015) [già segnalate in questa rivista il 3 marzo 2017]. La teoria del professionista c.d. di riflesso viene superata sull’assunto per cui l’oggetto del contratto è irrilevante ai fini della individuazione della disciplina applicabile, posto che «le regole uniformi concernenti le clausole abusive devono applicarsi a “qualsiasi contratto” stipulato tra un professionista e un consumatore». Ciò che conta, infatti, è la qualità dei contraenti, cioè la circostanza che essi stipulino il contratto nell’ambito della loro attività professionale o al di fuori di questa. In tale prospettiva, è vero che il contratto di fideiussione è accessorio rispetto al contratto principale da cui deriva il debito che garantisce, ma «dal punto di vista delle parti contraenti, esso si presenta come un contratto distinto quando è stipulato tra soggetti diversi dalle parti del contratto principale». Se ne deve concludere, quindi, che l’accessorietà, pur connotando la struttura dell’obbligazione fideiussoria, non può arrivare a incidere sulla qualificazione dell’attività, professionale o meno, di uno dei contraenti.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione, con la sentenza in esame, conferma il superamento della teoria del professionista c.d. di riflesso e, in applicazione dei principi enunciati dalla Corte di Giustizia, identifica il criterio per la determinazione della disciplina da applicare nella valutazione, da condurre in concreto, se il rapporto contrattuale di fideiussione rientri o meno nell’ambito delle attività estranee all’esercizio della professione svolta dal soggetto garante. La sostanza del rapporto deve, dunque, prevalere sul ruolo formale della posizione del debitore principale.
Nel caso di specie, allora, il fideiussore, avendo agito esclusivamente in ragione del rapporto di coniugio con la debitrice principale e, quindi, per finalità non inerenti all’esercizio della propria attività professionale, deve essere considerato alla stregua di un consumatore, con conseguente individuazione della competenza territoriale nel tribunale in cui risiede, cioè il Tribunale di Fermo.
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