ISSN 2239-8570

Il rifiuto del trattamento salvavita da parte dell’amministratore di sostegno, di Antonio Gorgoni

di Antonio Gorgoni – Ricercatore di diritto privato

 

Trib. Modena, decreto 13 maggio 2008 

 

SOMMARIO: 1. Il caso e il problema del testamento biologico. – 2. Gli argomenti del giudice tutelare, l’atto di designazione e le direttive anticipate.  

1. Il caso e il problema del testamento biologico. 

   Il giudice tutelare del Tribunale di Modena, nel decreto in commento (1), applica il principio del consenso informato e autorizza l’amministratore di sostegno a negare, nel nome e per conto della beneficiaria, quando quest’ultima non potrà autodeterminarsi a causa della malattia, il consenso al trattamento salvavita costituito dalla ventilazione forzata con tracheostomia.  Prima di esaminare la motivazione a sostegno del provvedimento esponiamo il caso e la questione che esso pone.  Una signora pienamente capace di intendere e di volere, affetta da sclerosi laterale amiotrofica, veniva informata della necessità di ricorrere, in tempi brevi, alla respirazione forzata, tecnica medica invasiva. In tale momento, continuava l’informativa, non sarebbe stato possibile prestare il consenso stante lo stato confusionale cagionato dall’insorgere della crisi respiratoria.   La paziente, presa coscienza del tragico prossimo futuro, quasi del tutto paralizzata ma ancora lucida, esprimeva al marito, prima di ritrovarsi nell’impossibilità di comunicare, il proprio convinto rifiuto della respirazione artificiale. Questa volontà era raccolta e trascritta dallo stesso marito.  A questo punto il Responsabile dell’Ufficio Tutele dell’Azienda USL di Modena proponeva, ai sensi dell’art. 406 ult. co. cod. civ., nell’interesse della signora, ricorso per la nomina dell’amministratore di sostegno.  Il giudice tutelare, recatosi in ottemperanza all’art. 407 co. 2 cod. civ nel luogo in cui si trovava l’interessata, si sentiva comunicare da quest’ultima in modo univoco, coerente e deciso la volontà di non volere essere sottoposta ad alcuna pratica invasiva occorrente per la sopravvivenza quando se ne renderà necessario l’impiego per l’avanzamento della malattia. Lo psichiatra confermava al giudice l’irreversibilità dello stato patologico dell’ammalata, l’ineluttabile e rapida progressione del morbo, nonché la futura perdita della capacità di autodeterminazione.  La vicenda pone il problema della legittimità del rifiuto delle cure destinato a valere in un tempo futuro, dunque del c.d. testamento biologico o di vita. Ora, se non si può più dubitare del diritto di ricusare un trattamento medico, necessario per sopravvivere e da applicarsi immediatamente, qualche incertezza persiste, invece, in relazione all’intervento da svolgersi in futuro e preventivamente respinto dall’interessato.  Si potrebbe sostenere l’irrilevanza di tale volontà negativa in mancanza di una specifica normativa al riguardo. Spetterebbe al legislatore stabilire il diritto del malato di manifestare, in previsione della perdita di coscienza, volontà contraria a trattamenti sanitari che mantengono in vita. Proprio in tal senso si sono espressi la Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica nei ricorsi alla Corte Costituzionale per conflitto di attribuzione tra poteri nei confronti della Corte di Cassazione (2) e della Corte d’Appello di Milano (3) che, decidendo sul caso Englaro, avrebbero interferito con una prerogativa del legislatore.  La Consulta ha correttamente dichiarato inammissibile i ricorsi i quali, invece di contestare la riconducibilità delle pronunce giudiziali alla funzione giurisdizionale o di lamentare il superamento dei limiti a garanzia di altre attribuzioni costituzionali, hanno delineato un percorso logico-giuridico alternativo rispetto a quello censurato, trasformando così il giudizio previsto dall’art. 134 Cost. in un “atipico mezzo di gravame avverso le pronunce dei giudici” (4).  Certamente la mancanza di una legge sul “testamento di vita” lascia aperti alcuni interrogativi che il medico dovrebbe sciogliere quali, ad esempio, la forma della volontà (scrittura privata o atto pubblico) nonché il tipo di prognosi occorrente per eseguirla. Tuttavia, sebbene tali incertezze andrebbero eliminate con un’apposita normativa auspicata da più parti, il nostro ordinamento – vedremo – contiene alcune norme su cui fondare la rilevanza della decisioni assunte sulla fine della propria vita.  Nel caso in esame si è resa necessaria la nomina dell’amministratore di sostegno perché la paziente, non potendo più scrivere, aveva espresso la propria volontà negativa al marito il quale l’aveva trascritta; occorreva, pertanto, l’intervento del giudice tutelare per accertare l’esistenza di tale volontà. Ma sul potere dell’amministratore di sostegno e del tutore di rifiutare, nel nome rispettivamente del beneficiario e dell’interdetto, trattamenti salvavita si appunta l’obiezione secondo cui il rappresentante legale non potrebbe disporre della vita del soggetto protetto (5).  In realtà questa conclusione è fuorviante perché non si tratterebbe di decidere sulla vita del rappresentato ma di eseguire la volontà di quest’ultimo, pertanto è sempre il diretto interessato a decidere della propria esistenza e non un altro al suo posto (6). La questione saliente è piuttosto verificare se il nostro diritto consenta al soggetto di esprimere il dissenso ad un trattamento salvavita che dovrà essere eseguito in un futuro più o meno prossimo (7). Il Tribunale di Modena, nel decreto in commento, fornisce una risposta positiva autorizzando l’amministratore di sostegno a negare, nel nome e per conto della beneficiaria, il consenso alla ventilazione forzata quando l’evolversi della malattia richiederà tale atto salvifico.   

     2. Gli argomenti del giudice Tutelare, l’atto di designazione e le direttive anticipate.           

   Il giudice tutelare del Tribunale di Modena è chiamato a pronunciarsi sulla rilevanza giuridica del rifiuto di trattamenti salvavita da praticare in futuro, in un ordinamento che non ha ancora emanato una legge sul testamento biologico. Ciononostante, sulla scia di quanto affermato dalla Cassazione con riguardo al “caso Englaro”, il giudice ribadisce il principio, desunto dagli artt. 2, 13 e 32 Cost., del consenso informato che si concretizza nel diritto fondamentale di accettare, rifiutare o interrompere la terapia.  L’art. 32 Cost., si afferma nel decreto, garantisce il diritto non di morire ma di vivere l’evento morte naturale “con modalità coerenti all’autocoscienza della dignità personale quale costruita dall’individuo nel corso della vita attraverso le sue ricerche razionali e le sue esperienze emozionali”. In sostanza l’individuo deve poter scegliere come affrontare le conseguenze della propria malattia: se procrastinare la morte accogliendo un certo trattamento oppure se lasciare che la patologia compia il suo decorso. In quest’ultimo caso siamo in presenza del rifiuto delle cure, atto legittimo, e non dell’eutanasia pietosa attiva, pratica, invece, penalmente sanzionata che si ha quando il medico interrompe, con una condotta positiva, il nesso causale tra la malattia e la morte cagionando il decesso anticipato del paziente.  Dall’art. 32 Cost. si ricava, infatti, che la salute è un diritto non un dovere dell’individuo: la regola è la non obbligatorietà dei trattamenti sanitari a fronte della eccezionalità dell’obbligo, disposto con legge, di sottoporsi ad un trattamento medico. Dunque, se la salute è tutelata come diritto fondamentale dell’individuo e se il trattamento sanitario obbligatorio è disposto soprattutto per salvaguardare uno specifico interesse collettivo, ne consegue l’incoercibilità del vivere quale principio costituzionale (8).     Anche l’art. 13 Cost., nella lettura della Consulta (9), contribuisce, sebbene il decreto non si soffermi sul punto, a legittimare il rifiuto delle cure. Esiste uno stretto collegamento tra il consenso all’attività medica e l’art. 13 co. 1 Cost. poiché la libertà di disporre del proprio corpo deve essere ricondotta alla “libertà personale”. Così il diritto di decidere i trattamenti sanitari è estromesso dall’orbita esclusiva del diritto alla salute e collocato in quella più estesa del diritto alla libertà dell’individuo, il cui necessario corollario è il consenso informato.   Alla luce dell’interpretazione delle norme appena indicate, il soggetto capace di intendere e di volere può rifiutare o chiedere al medico di interrompere un trattamento salvifico. Nel primo caso il sanitario dovrà astenersi dal praticare l’intervento mentre, nel secondo, dovrà interromperlo essendo il consenso legittimazione e fondamento di ogni trattamento.  Se, invece, il soggetto si trovi in stato vegetativo permanente irreversibile e non ha lasciato alcuna disposizione scritta sulla pratica medica invasiva che lo mantiene in vita, tale pratica – si afferma nel decreto – può essere interrotta se il giudice si persuade, in virtù elementi probatori convincenti, che l’individuo, quando era cosciente riteneva lesiva della propria dignità la protrazione dell’esistenza in stato vegetativo.  Queste soluzioni non sorprendono essendo conseguenti al principio di diritto del consenso informato. Potrebbe, tuttavia, permanere qualche dubbio qualora il rifiuto del trattamento sia destinato a valere nel futuro: spetterebbe al legislatore stabilire se e a quali condizioni tale rifiuto acquisisca rilevanza giuridica.      Ma il giudice tutelare, nel decreto in esame, ritiene già esistente nel nostro ordinamento una disposizione che consente di dettare direttive anticipate sugli interventi medici necessari nel futuro. Tanto da affermare che “appare di difficile confutazione la conclusione dell’assoluta superfluità di un intervento del legislatore volto a introdurre e disciplinare il c.d. testamento biologico”. L’art. 408 co. 1 c.c. sancisce che “L’amministratore di sostegno può essere designato dallo stesso interessato, in previsione della propria eventuale futura incapacità, mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata”. La norma, che letteralmente prevede solo il diritto di designare l’amministratore, consentirebbe, secondo il giudice, di inserire in tale atto anche le direttive anticipate.   L’interpretazione, già prospettata in dottrina (10), non sembra incontrare obiezioni convincenti. Se la volontà del paziente è presupposto indefettibile del trattamento medico e se l’amministratore di sostegno può essere designato in previsione della propria incapacità, non si vede perché precludere all’interessato la possibilità di formalizzare, nello stesso atto di designazione, le proprie decisioni sugli interventi medici che potrebbero riguardarlo (11). Naturalmente, queste decisioni dovranno essere eseguite soltanto se il quadro scientifico e tecnologico con riferimento al quale sono state assunte sia rimasto immutato. Altrimenti la volontà espressa in passato dovrà essere reputata non più attuale.  

Note

(1) Trib. Modena, 13 maggio 2008.

(2) Cass., 16 ottobre 2007, n. 21748, in questo sito; in Guida al dir. 2007, 3, p. 29 ss.; in Fam. pers. e succ., 2008, 6, p. 508 ss., con nota di A. GORGONI, La rilevanza giuridica della volontà sulla fine della vita non formalizzata nel testamento biologico.

(3) Corte App. Milano, 9 luglio 2008, in Guida al dir., 2008, 30, p. 62 ss.

(4) Secondo la Corte Cost., ordinanza 8 ottobre 2008, n. 334, in Guida al dir., 2008, 42, p. 42 ss., “le parti ricorrenti, pur escludendo di volere sindacare errores in iudicando, in realtà avanzano molteplici critiche al modo in cui la Cassazione ha selezionato ed utilizzato il materiale normativo rilevante per la decisione o come lo ha interpretato”. I ricorrenti contestano tutti i riferimenti normativi su cui la Cassazione ha incentrato i propri argomenti per ammettere la rilevanza della volontà contraria ai trattamenti invasivi che mantengono in vita chi è affetto da una patologia irreversibile.

5) Su questo argomento hanno fatto leva i ricorsi, già citati, della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica alla Corte Costituzionale. Segnatamente si è affermato, quanto alla tutela, che il potere di cura attribuito dall’art. 357 c.c. al tutore non comprende affatto la prerogativa di disporre della vita del soggetto tutelato. Il giudice avrebbe dovuto – si dice nel ricorso del Senato – non autorizzare il tutore ma sollevare questione di legittimità costituzionale degli artt. 357 e 424 c.c. nella parte in cui precluderebbero la piena tutela del diritto alla salute.

6) La Cass., 16 ottobre 2007, n. 21748, cit., ha ben chiarito questo aspetto affermando che il rifiuto della cure deve essere una decisione assunta dal rappresentato quando era capace di intendere e di volere e non una scelta del rappresentante.

7) L’attacco più radicale al “testamento di vita” si sostanzia nel ritenere sempre inattendibile, perché non attuale, la decisione assunta nella condizione di benessere psico-fisico giammai paragonabile alla malattia la quale stravolgerebbe qualsiasi convinzione o programma precedentemente maturati. In verità quest’assunto prova troppo perché se certamente una volontà scritta, espressa molti anni addietro rispetto all’evento invalidante, richiama cautela e rigore nel valutarne l’attualità, non si può certo escludere che quest’ultimo carattere vi sia pur a distanza di tempo dalla manifestazione della volontà. Inoltre, presumendo la mancanza di attualità, si discriminerebbero i soggetti che non possono, alla luce del decorso di certe malattie o del carattere improvviso di certi eventi, esprimere la volontà in ordine ai trattamenti desiderati o non voluti.

8) Corte Cost., 2 giugno, n. 218, in Foro it., 1995, I, c. 46 ss.9) Corte Cost., 22 ottobre 1990, n. 471, in Foro it., 1991, I, c. 14 ss.; Corte Cost., 9 luglio 1996, n. 238, in Fam. e dir., 1996, 5, p. 419 ss.

10) G. BONILINI –A. CHIZZINI, L’amministrazione di sostegno, p. 101, 121, 206 ss.

11) La dottrina ha rilevato come eventuali linee-guida riportate nell’atto di designazione non siano vincolanti per il giudice tutelare adito al fine di nominare l’amministratore di sostegno, perché spetta all’organo giudiziario individuare i poteri dell’amministratore (art. 405 co. 4 nn. 3 e 4 c.c.). Ciò è senz’altro vero in generale, ma il giudice non potrà ignorare le direttive anticipate espresse dal soggetto capace di intendere e di volere contenute nell’atto di designazione, pena la violazione del principio del consenso informato.         

 

 

 

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