ISSN 2239-8570

La proposta di direttiva sui diritti dei consumatori: luci ed ombre nel futuro della tutela contrattuale, di Massimiliano Dona

Massimiliano Dona – Segretario Generale dell’Unione Nazionale Consumatori

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Contesto normativo e finalità dell’intervento. – 3. Struttura della proposta di direttiva. – 4. Luci ed ombre nell’impatto sul Codice del Consumo. – 5. Il quadro definitorio – 6. La tutela informativa – 7. Le vendite aggressive – 8. La vendita di beni di consumo – 9. Le clausole abusive nei contratti – 10. Disposizioni generali e finali – 11. Conclusioni

 

 

1.     Premessa

Dopo un periodo (almeno apparente) di stanca, l’Europa inaugura una nuova stagione di interventi rivolti alla protezione del consumatore. Negli ultimi mesi, infatti, si sono materializzate due iniziative tendenti, la prima ad esplorare nuovi scenari di tutela collettiva nella prospettiva di dar vita ad una “class-action” europea (1); l’altra rivolta a dare finalmente corpo all’ambizioso progetto di revisione dell’acquis comunitario (cioè il complesso delle regole che riguardano la tutela giuridica del consumatore).

La revisione delle direttive di protezione del consumatore, in particolare, è un impegno destinato a segnare il livello di tutela dei cittadini europei per i prossimi decenni. Molte delle attuali direttive, del resto, risalgono agli anni ottanta e da tempo si era giudicato necessario un intervento di ammodernamento. L’iniziativa comunitaria su questo versante prende le forme di una Proposta di Direttiva “sui diritti dei consumatori” (2) che intende riformulare e coordinare in un unico provvedimento quattro importanti direttive che assorbono, in pratica, l’intera tutela negoziale del consumatore. Quando sarà approvata la nuova direttiva i cittadini europei avranno a disposizione un quadro uniforme di regole valide per tutti i contratti di consumo: dalle clausole vessatorie, al regime della garanzia, dalle vendite “porta a porta” a quelle “a distanza”.

Il compito che le Istituzioni europee si sono date  è impegnativo: il diritto dei consumatori è andato sedimentandosi in questi anni negli ordinamenti degli Stati membri e l’Europa ha allargato i suoi confini a realtà giuridicamente assai variegate. Guardando più da vicino la proposta di direttiva, al confronto con le direttive preesistenti e con il nostro Codice del Consumo emerge, come ci si accinge di dimostrare, un quadro tra luci ed ombre.

 

2.     Contesto normativo e finalità dell’intervento

Nel mese di ottobre 2008 la Commissione Europea ha presentato la proposta di direttiva del Parlamento e del Consiglio COM (2008) 614, quale risultato del riesame dell’acquis riguardante i diritti contrattuali dei consumatori, già iniziato con l’adozione del Libro Verde dell’8 febbraio 2007.

Come detto, la proposta persegue l’ambizioso obiettivo della revisione ed armonizzazione di quattro precedenti direttive: la numero 85/577/CEE, relativa alla tutela dei consumatori nei contratti negoziati fuori dai locali commerciali, la direttiva 93/13/CEE, concernente le clausole abusive nei contratti, la direttiva 97/7/CE, riguardante i contratti a distanza e la direttiva 1999/44/CE, inerente taluni aspetti della vendita e delle garanzie dei beni di consumo.

Tali direttive vengono oggi ad essere coinvolte dalla proposta della Commissione, che mira a creare un complesso unitario di norme per disciplinare in modo uniforme alcune prescrizioni, ma anche semplificando e aggiornando le norme esistenti, nella prospettiva di creare un quadro unitario di regole valide per tutti gli Stati membri

È bene ricordare, infatti, che le direttive preesistenti contengono clausole di armonizzazione minima, che consentono agli Stati membri di mantenere o adottare norme più severe in materia di tutela dei consumatori. Tale approccio ha provocato, fin ad ora, il risultato di un quadro normativo frammentato all’interno del mercato europeo. A ciò si aggiunga il lievitare dei costi per le imprese che desiderano operare a livello transfrontaliero (3), con conseguente rischio di discriminazioni geografiche verso i consumatori residenti nei Paesi “periferici”.

Tale rischio è aggravato dal Regolamento CE n. 593/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (c.d Regolamento Roma I che entrerà in vigore alla fine del 2009), secondo il quale i consumatori che concludono un contratto con un operatore commerciale estero non possono essere privati della protezione derivante dalle norme inderogabili del loro paese di residenza: un commerciante che desidera vendere a livello transfrontaliero, dovrà quindi sostenere notevoli spese (consulenze legali ed altri adempimenti) per essere certo di rispettare il livello di tutela vigente nel paese del consumatore.

È perfettamente comprensibile che tale disomogeneità comporta una resistenza delle imprese a vendere a consumatori oltre frontiera, traducendosi in un pregiudizio per lo stesso consumatore, il quale non può beneficiare completamente del mercato interno in termini di quantità di offerte disponibili e di convenienza (4).

Ecco spiegata una delle principali ragioni per cui la nuova Direttiva intende proporsi con un approccio di armonizzazione massima o completa (5), tale da uniformare il livello di protezione assicurato ai consumatori europei sul versante contrattuale.

A queste esigenze deve aggiungersi la necessità di ammodernare il quadro normativo nel campo della protezione dei consumatori: nell’attuale scenario è evidente un certo deficit di coordinamento (6); mentre alcune regole vigenti sono ormai obsolete ed ogni ulteriore tentativo di coordinamento da parte degli Stati membri riesca di complicare ancor più il frammentato acquis riguardante i diritti dei consumatori (si pensi, sena andar lontano all’importante iniziativa realizzata in Italia con il Codice del Consumo (7)).

Senza dubbio è un fatto il carente sfruttamento da parte dei consumatori del potenziale transfrontaliero delle vendite a distanza, che dovrebbe essere uno dei principali risultati tangibili del mercato europeo. Per convincersene basterà osservare, rispetto alla crescita significativa di questi commerci negli ultimi anni, il limitato numero di vendite realizzate oltre frontiera (8).

Da questo punto di vista l’iniziativa della Commissione non può che essere condivisa, anche se la scelta di ricorrere ad un approccio di armonizzazione completa andrà confrontato con il risultato concreto in termini di innalzamento dei livelli di tutela esistenti. Un miglior funzionamento del mercato interno, aumentando la fiducia del consumatore nei suoi acquisti e riducendo la riluttanza delle imprese ad operare a livello transfrontaliero, sono finalità fondamentali che non possono in alcun modo prescindere da una verifica concreta sugli impatti in termini di garanzia di protezione

Nella sua risoluzione del 16 luglio 2007 il Parlamento europeo, a seguito della consultazione pubblica sul Libro Verde riguardante il riesame dell’acquis relativo al consumatore (9), raccomandava di intraprendere questo obiettivo tramite un’azione legislativa, esprimendo la sua preferenza per l’adozione di uno strumento sotto la forma della direttiva orizzontale, basata sull’armonizzazione completa e mirata. Oggi che la proposta ha preso forma, però, questa valutazione deve essere riproposta alla luce dei contenuti recentemente presentati per verificare se possono dirsi realizzati.

Per verificare se possono dirsi realizzati gli auspici della Commissione (10), anche per quegli ordinamenti che possiedono già un elevato grado di consumer protection (l’armonizzazione completa, se da un lato è la via più rapida per realizzare un quadro di norme comuni, dall’altro sopprime sostanzialmente ogni autonomia legislativa degli Stati membri, i quali non potranno adottare o mantenere norme divergenti, ancorché più garantiste per il consumatore).

 

3.     Struttura della proposta di direttiva

La proposta di direttiva si compone di sessantasei considerando e di cinquanta articoli, distribuiti in sette capi, secondo un ordine concettuale diverso rispetto al nostro Codice del Consumo

Il Capo I riguarda  l’oggetto, le definizioni (art. 2),  il campo di applicazione della direttiva e si chiude con la clausola di armonizzazione completa contenuta nell’art.4.

Il Capo II (11) entra nel merito degli obblighi informativi gravanti sui professionisti ed introduce una previsione originale con riguardo agli intermediari che concludono contratti in nome e per contro di un altro consumatore, in modo tale che sia chiaro che questo, risultando concluso tra due privati, non è soggetto alla disciplina della direttiva in questione.

Il Capo III (12) è dedicato alla disciplina dei contratti a distanza e dei contratti negoziati fuori dei locali commerciali. Viene ammodernato il quadro informativo ed uniformata la regolamentazione del diritto di recesso (tempi, esercizio ed efficacia). In esso si fa anche riferimento ad un modulo standardizzato da utilizzare per il recesso riprodotto nell’allegato I B.

Il Capo IV (13) riformula la direttiva 99/44/CE  su taluni aspetti della vendita e delle garanzie dei beni di consumo, segnalandosi per la nuova disciplina del passaggio del rischio.

Il Capo V (14) è riservato alla disciplina dei contratti in generale e riflette ampiamente le disposizioni della direttiva 93/13/CE sulle clausole abusive, della quale vengono ad essere modificati anche gli allegati contenenti le clausole che sono considerate abusive in qualsiasi circostanza (c.d. lista nera, contenuta nell’Allegato II), e quelle presuntivamente abusive (c.d. lista grigia, contenuta nell’Allegato III). Detti elenchi possono essere modificati solo mediante la “procedura di comitato” prevista dall’art. 40 della nuova proposta di direttiva.

Il Capo VI (15) contiene le “disposizioni generali”, includendovi anche l’articolo in merito alla fornitura non richiesta, mentre il Capo VII (16), riguarda le “disposizioni finali”.

 

4.     Luci ed ombre nell’impatto sull’ordinamento italiano

Come si è avuto modo di evidenziare, pur considerando la necessità di agevolare lo sviluppo del mercato interno, il consumerista non può accettare che la proposta di direttiva abdichi all’esigenza di concreti ed effettivi miglioramenti del quadro giuridico di tutela dei consumatori nell’ambito contrattuale.

Le vigenti direttive in materia di clausole vessatorie, contratti negoziati al di fuori dei locali commerciali, contratti a distanza e garanzie sulla vendita dei beni di consumo, rappresentano, infatti, a tutt’oggi un quadro di tutela sufficientemente radicato. Lo scenario giuridico è senz’altro perfettibile, anche se una pregevole opera di coordinamento si è recentemente realizzata grazie al Codice del Consumo

È evidente, nel momento in cui si chiede ai consumatori europei di metabolizzare nuove regole di vita, si deve essere certi che queste siano migliorative, tanto più in virtù del nuovo approccio d’armonizzazione: la proposta di direttiva avrà un impatto determinante nelle quotidiane dinamiche di consumo ed è dunque inaccettabile il  rischio di un abbassamento dei livelli di protezione attualmente  riconosciuti.

Per quanto riguarda l’impatto delle misure previste dalla proposta sull’ordinamento italiano, è opportuno un primo approfondimento di dettaglio la ricaduta sull’attuale ordinamento di consumo. Si tenga conto, in questo percorso, del regime “europeo” dato dalle attuali direttive, ma non si può trascurare di leggere la proposta  in controluce rispetto al Codice del Consumo italiano. È ancora una volta il nuovo approccio a richiedere di essere rigorosi nella valutazione d’impatto: come anticipato, la proposta di direttiva abbandona il principio dell’armonizzazione minima, che ha consentito per, da oltre 25 anni, agli Stati nazionali di mantenere o introdurre nei loro ordinamenti disposizioni di maggior tutela dei consumatori rispetto a quanto previsto dalle direttive, per abbracciare quello dell’armonizzazione completa (c.d. full harmonization), Secondo l’art. 4 della proposta di direttiva, “gli Stati membri non possono mantenere o adottare nel loro diritto nazionale disposizioni divergenti da quelle stabilite dalla presente direttiva, incluse le disposizioni più o meno severe per garantire al consumatore un livello di tutela diverso”.

 

5.     Il quadro definitorio

L’art. 1 della proposta definisce l’oggetto del provvedimento spiegando che l’intervento “intende contribuire al corretto funzionamento del mercato interno e al conseguimento di un’elevato livello di tutela dei consumatori”.

Tra le definizioni elencate all’art. 2, il consumatore è individuato nella “persona fisica che, nei contratti oggetto della presente direttiva, agisca per fini che non rientrano nel quadro della sua attività professionale”. La nozione è analoga a quella contenuta nel nostro Codice del Consumo, che definisce il consumatore come la “persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta” (17).  La proposta, riprende le definizioni di consumatore indicate nelle dir. 85/577/CEE e dir. 1999/44/CE (18), riferendosi al “quadro” dell’attività professionale. Probabilmente il nostro Codice di settore lascia più spazio alla tutela del consumatore, anche se si tratta di sottigliezze se paragonate alla definizione della controparte professionale: fortemente critica deve essere, infatti, la valutazione circa l’utilizzo del termine “commerciante” quale controparte del rapporto di consumo. È davvero inspiegabile la ragione che può avere indotto il legislatore europeo a questa indebita restrizione, a meno che non si tratti di una svista nella traduzione della direttiva nella versione italiana (19). È auspicabile un ritorno alla nozione di “professionista”, già ampiamente utilizzata dal diritto comunitario (20) e ripresa nel nostro Codice del Consumo ed anche la precisazione (ormai pacifica negli ordinamenti di molti paesi membri) che può trattarsi tanto di una persona giuridica privata quanto di una persona giuridica “pubblica”.

Va accolto con favore, invece, il riferimento ai “contratti misti” art. 2, par.3 nell’ambito della definizione dei contratti di vendita. Si consente così di riferirsi anche a quelli che hanno ad oggetto contemporaneamente vendita di beni e fornitura di servizi, colmando così una lacuna che ha generato diversi contrasti interpretativi, soprattutto in riferimento all’inclusione dei contratti d’opera nell’ambito della vendita.

Con riguardo all’ordinamento italiano, la definizione di bene di consumo come “bene mobile materiale” (art. 2, par.4)  rischia  invece di comprimere la tutela rispetto al nostro Codice del Consumo, che ex art. 128 comma 2 lett. a, parla di “qualsiasi bene mobile”, includendovi pertanto anche i software e altri prodotti digitali che restano invece esclusi dalla proposta di direttiva (21).

Una nota positiva merita invece la definizione di “contratto a distanza” che sembra ampliare la tutela rispetto al Codice del Consumo: quest’ultimo (art. 50, comma 1, lett. a) definisce  il contratto a distanza  quello concluso nell’ambito di un sistema di vendita o di prestazione di servizi a distanza organizzato dal professionista (22). La proposta di direttiva, invece, ritiene sufficiente che “il commerciante ricorra all’uso di uno o più mezzi di comunicazione a distanza”, ricomprendendovi pertanto anche le vendite a distanza di tipo occasionale, in quanto non effettuate nell’ambito di un sistema “organizzato” dal venditore.

Altra imperfezione, forse anch’essa dovuta soltanto a problemi di traduzione, la ritroviamo all’art. 8, lett. a, in merito alla nozione di “contratto negoziato fuori dei locali commerciali”, dove la proposta lo identifica come qualsiasi contratto di vendita o di servizi negoziato “lontano” dai locali commerciali (23).

 

Detto ampliamente della clausola di armonizzazione completa, contenuta nell’art. 4, va rimarcato che tale principio espone ad un rischio aggiuntivo rispetto a quelli enunciati: sopprimendo  ogni autonomia legislativa degli Stati membri, tra i suoi effetti negativi va annoverato l’azzeramento dell’effetto propulsivo a favore della stessa politica comunitaria, spesso svolto in passato proprio dalle iniziative dei singoli Stati membri, anche su iniziativa delle associazioni dei consumatori.

 

6.     La tutela informativa

La tutela informativa offerta dalle nuove regole si configura in modo articolato e completo: il nuovo scenario di tutela, tuttavia, risente complessivamente di alcune lacune. Se per un verso, infatti, va apprezzato il fatto di stabilire obblighi generali di informazione validi per la conclusione di “qualsiasi contratto di vendita o di servizi” (art. 5, par. 1), altrove i profili informativi danno la sensazione di essere stati un po’ ammorbiditi (24).

L’art. 5 elenca alcune categorie di informazioni che devono essere fornite al consumatore prima della conclusione “se non sono già apparenti dal contesto”. Tale inciso però offre il fianco a possibili contrasti interpretativi che potrebbero tradursi in un indebito vantaggio per il professionista: sarebbe più opportuno riferirlo alla sola lettera a, che richiama in particolare “le caratteristiche principali del prodotto”.

Inoltre, lascia sbalorditi quanto stabilito dall’art. 5, lett. c: non è accettabile che il prezzo delle spese di consegna possa essere omesso (in particolari circostanze), né  che il legislatore abbia trascurato di rendere obbligatoria l’informazione sul costo dell’utilizzo della tecnica di comunicazione a distanza (25),  quale informazione che il consumatore deve ricevere in tempo utile, prima della conclusione di qualsiasi contratto a distanza.

Parziale consolazione deriva dal prevedere che se il commerciante non adempie agli obblighi di informazione sulle spese aggiuntive, il consumatore non è tenuto a pagarle (art. 6, par. 1) . È questa la più efficiente sanzione avverso la violazione degli obblighi informativi.

Ha fatto molto discutere in sede di dibattito anche l’art. 7, par. 1, che individua uno specifico obbligo informativo a carico degli intermediari i quali, secondo la direttiva, prima della conclusione del contratto, dovrebbero dar notizia al consumatore di agire a nome e per contro di un altro consumatore, in modo tale da rendere esplicito che il contratto resta al di fuori della tutela di consumo

È probabile che nelle intenzioni degli estensori della proposta questa disposizione, fosse diretta ad una più trasparente informazione del consumatore, al quale spesso l’intermediario non offre la preventiva comunicazione circa il suo effettivo ruolo nell’affare (26). Tuttavia, nonostante le buone intenzioni, queste prescrizioni, ben lungi dal consentire l’emersione di pratiche scorrette, potrebbero arrecare un inatteso restringimento della definizione di professionista, nonché una riduzione dell’ambito di applicazione della direttiva, a tutto danno dei consumatori.

Ecco allora che bene farebbe il legislatore europeo, onde evitare comportamenti elusivi, a precisare che in capo all’intermediario resta comunque salva la responsabilità professionale per l’attività di intermediazione svolta; diversamente ogni contratto di intermediazione (si pensi allo stesso mercato degli immobili) correrebbe il rischio d’essere sottratto dall’applicazione della direttiva per il solo fatto che il commerciante abbia dichiarato al consumatore di agire in qualità di intermediario tra due consumatori.

 

7.     Le vendite aggressive

Volgendo lo sguardo al Capo III, l’art. 8 precisa che esso si applica ai contratti a distanza e ai contratti negoziati fuori dei locali commerciali. Tra gli obblighi di informazione, troviamo quello che dovrebbe essere il naturale contraltare della norma sugli intermediari appena descritta: l’art. 9, lett. f indica, quale parte integrante del contratto, la dichiarazione da parte del professionista che lo stesso è “concluso con un commerciante e di conseguenza il consumatore gode della protezione prevista dalla presente direttiva”. Ad oggi questa trasparenza è già prevista all’art. 60 del Codice del Consumo, sempre in materia di vendite a distanza, ma non si spiega perché debba essere limitata alle vendite aggressive, visto che invece la norma sugli intermediari ha carattere generale.

Un’altra novità che si vorrebbe introdurre con la nuova direttiva riguarda la previsione di un modulo standardizzato da utilizzare per esercitare il recesso del consumatore. Detto modulo dovrà essere incluso nello stesso buono d’ordine (art. 10, par. 1), ma per la verità, non essendo necessarie formalità particolari, esso è sostanzialmente inutile se non dal punto di vista informativo, aiutando a ricordare che c’è la possibilità di sciogliersi dal contratto.

La proposta di direttiva, si sofferma (sempre nell’art. 10) sui “requisiti formali per i contratti negoziati fuori dei locali commerciali” per i quali si prevedono due condizioni di validità: la necessaria sottoscrizione di un buono d’ordine da parte del consumatore, se il contratto è su supporto cartaceo; la necessaria consegna di una copia dell’ordine nei casi in cui questo sia “su un altro mezzo durevole”. Sul punto la norma non è -per la verità- chiarissima, ma sarebbe bello poter desumere che sia sanzionato a pena di nullità l’omessa consegna di copia del contratto all’aderente:l’osservazione delle concrete dinamiche di consumo spiega, infatti, che proprio con la mancata consegna del contratto prende l’avvio quel processo di sviamento informativo che pregiudica il percorso di autotutela del consumatore.

Per il resto l’articolato è deludente nella parte in cui individua i requisiti formali richiesti per i contratti a distanza (art. 11). Il  paragrafo 1, prevede che le informazioni debbano essere fornite (o messe a disposizione del consumatore) prima della conclusione del contratto, in un linguaggio semplice e comprensibile e in modo leggibile. Così, non solo preoccupa il concetto di “messa a disposizione”, ma anche la clausola di chiusura (in modo  “appropriato al mezzo di comunicazione messa impiegato”) che. può rivelarsi pregiudizievole per il consumatore, essendo il professionista che sceglie il mezzo di comunicazione secondo le sue esigenze organizzative (27).

Nell’art. 11, paragrafo 2 si ribadisce (28) che, qualora sia “il commerciante a telefonare al consumatore al fine di concludere un contratto a distanza, il primo dovrà rivelare la sua identità e lo scopo commerciale della telefonata all’inizio della conversazione”. Tuttavia, dobbiamo dire che il nostro Codice del Consumo, all’art. 52, comma 3, prevede tale obbligo sia sanzionato “a pena di nullità del contratto”.

A conferma del sospetto che proprio sul versante informativo possa essersi principalmente esercitata la lobby imprenditoriale, si deve segnalare la scarsa protezione assicurata dal paragrafo 4 dell’art. 11: “il consumatore riceve la conferma di tutte le informazioni, su un mezzo durevole, entro un tempo ragionevole dopo la conclusione di qualsiasi contratto a distanza e al più tardi al momento della consegna dei beni oppure quando è iniziata l’esecuzione del servizio”. In questo modo, molte informazioni rilevanti (solo per fare un esempio, le stesse indicazioni riguardanti l’ esercizio del recesso) potranno essere fornite successivamente alla conclusione al momento della consegna, con conseguente serio aggravamento della posizione del consumatore dal punto di vista dell’asimmetria informativa contrattuale.

Infine, l’ultimo paragrafo dell’art. 11, vietando agli Stati membri di imporre requisiti formali diversi da quelli indicati dalla direttiva, non consentirà più di rendere obbligatorio per i consumatori del nostro Paese di ricevere informazioni in lingua italiana, come oggi previsto dal nostro Codice del consumo ex art. 52, comma 4).

In ordine alla “durata del periodo di recesso”, l’art. 12 della proposta individua espressamente i termini per il ripensamento a 14 giorni di calendario unificando il periodo su  scala europea.

Sul punto va precisato infatti che le precedenti direttive non prevedevano esplicitamente un termine (29) e così facendo avevano consentito ai singoli Stati di stabilire diversi periodi per il cosiddetto cooling-off period. In Italia, com’è noto, questo termine è stato per lungo tempo di sette giorni di calendario (per le vendite fuori dei locali commerciali) e di dieci lavorativi (per le vendite a distanza): un bel rompicapo per il consumatore costretto a confrontarsi non solo con due diversi termini temporali, ma anche con due diverse modalità di calcolo (giorni di calendario per le prime, giornate lavorative per le vendite a distanza). Tali difficoltà, come è noto, erano poi state sanate dal nostro legislatore, uniformando termini e modalità di calcolo in quei dieci giorni lavorativi previsti attualmente dall’art. 64 del Codice del Consumo.

A ben volere, però, per quanto riguarda la realtà italiana, cambia poco perché i quattordici giorni stabiliti nell’art. 12, paragrafo 1, sono giorni di calendario e dunque non molto distanti dagli attuali dieci giorni lavorativi (30). Circa le condizioni del recesso, la proposta non specifica espressamente in questo articolo la gratuità del recesso,  che si può comunque desumere dal successivo art. 17, paragrafo 1, che pone “a carico del consumatore solo il costo diretto della restituzione dei beni”. Sarebbe stato più opportuno utilizzare la formula attualmente propria dell’art. 64 Codice del Consumo: “il consumatore ha diritto di recedere senza alcune penalità e senza specificarne il motivo”.

Un imperdonabile abbassamento di tutela va osservato, invece,  nella previsione delle decorrenze: nel caso di contratti negoziati fuori dei locali commerciali, il termine per recedere decorrerebbe, secondo la proposta, “dal giorno in cui il consumatore firma il buono d’ordine e, qualora quest’ultimo non sia su supporto cartaceo, da quando riceve una copia dell’ordine su un altro mezzo durevole”. In realtà, nel Codice del Consumo, all’art. 65 lett. b), il c.d. periodo di raffreddamento nei contratti negoziati fuori dei locali commerciali (31).

Inspiegabilmente, l’ultimo paragrafo dell’art. 12 prevede espressamente che sia possibile l’adempimento delle obbligazioni contrattuali di contratto prima della scadenza; a dir la verità ciò non era precluso nel precedente regime, ma esplicitare questa possibilità sembra proprio un ingiustificato regalo al mondo imprenditoriale, soprattutto se riguardato alla luce della vessatoria previsione dell’art. 16, par. 2 , del quale si dirà tra breve. Al contrario, non si vede perché, trattandosi di una proposta che si vorrebbe migliorativa, non si possa, come per la disciplina della multiproprietà, formulare un espresso divieto di adempimento anticipato. È evidente ai più che, non di rado, proprio l’aver ormai adempiuto alla propria obbligazione pagando il prezzo spinge il consumatore a rinunciare alla facoltà di ripensamento.

Nel caso in cui il commerciante non fornisca al consumatore le informazioni sul diritto di recesso, il periodo di ripensamento è prorogato ex lege: spira tre mesi dopo che il venditore abbia adempiuto pienamente ai suoi altri obblighi contrattuali (art.13). Questa norma è sostanzialmente in linea con quanto già previsto (32), anzi forse migliorativa per quanto riguarda il dies a quo (33), ma resta lacunosa nel caso di mancata informativa “totale”. Ci saremmo attesi di più dall’art. 13 per rimediare alle frequenti situazioni nelle quali la comunicazione sulla facoltà di recedere è omessa del tutto, così rendendo inutile la proroga del termine perché il consumatore non ne sarà mai informato (34). Meglio sarebbe stato prevedere, per il caso di omissione informativa totale, la nullità dell’intero contratto (35).

Quanto alle modalità per esercitare il recesso l’art. 14, prevede che il consumatore debba informare il commerciante della sua decisione “mediante un mezzo durevole”. La precedente formulazione sembrava meno ambigua: ci si chiede cosa si intenda precisamente con l’espressione “mezzo durevole” e se, nello specifico, possano essere ricompresi in essa il telegramma, il fax e la e-mail che, secondo il Codice del Consumo, ex art. 64, secondo comma, possono anticipare la raccomandata (36).

Opportunamente il secondo paragrafo dello stesso articolo 14 prevede la possibilità per il venditore di offrire al consumatore anche l’opzione di compilare un modulo di recesso direttamente fornito dal sito web. In tal caso il commerciante dovrà trasmettere al consumatore, una conferma di ricevimento del recesso per e-mail.

Gli effetti del recesso sono spiegati dall’art. 15 della proposta con una formulazione letterale non cristallina. “L’esercizio del diritto di recesso pone termine agli obblighi delle parti”: sia di eseguire il contratto che di concluderlo, nel caso in cui un’offerta sia stata fatta dal consumatore (37). Sarebbe stato meglio, in realtà, spiegare esplicitamente che il consumatore può non pagare o avere indietro il denaro già versato.

Stupefacente l’accondiscendenza del legislatore europeo alle pressioni del trade relativamente agli obblighi del professionista in conseguenza del rituale esercizio del diritto di recesso. A mente dell’art. 16, paragrafo 2, il commerciante sarebbe legittimato a “trattenere il rimborso finché non abbia ricevuto o ritirato tutti i beni oppure finché il consumatore non abbia dimostrato di aver restituito i beni “. Si tratta di una vera assurdità che non tiene in minima considerazione il concreto svolgimento delle cose: nella realtà dei traffici è spesso il consumatore ad essere riluttante davanti alla possibilità di recedere per via dei costi necessari a restituire il bene e per il timore che il commerciante ometta (o renda difficoltosa) la restituzione del prezzo pagato. Ecco allora che la proposta dovrebbe prevedere esattamente il contrario, consentendo al consumatore di trattenere il bene finché non abbia ricevuto il rimborso del prezzo da parte del venditore: la Commissione sembra dimenticare in questo frangente che da un lato c’è una parte privata e dall’altro un professionista che -eventualmente- avrà gioco facile nel recuperare la somma nel caso in cui sia il consumatore a violare gli obblighi di restituzione.

Per quanto riguarda gli obblighi del consumatore nel caso di recesso, l’art. 17 paragrafo 1, dispone che “il consumatore restituisca i beni o li consegni al commerciante o ad un terzo autorizzato  a riceverli, entro 14 giorni dalla data in cui comunica il suo recesso al commerciante, purché quest’ultimo non abbia offerto di ritirare egli stesso i beni”. La norma esplicita un altro grave affronto all’equilibrio contrattuale: evidentemente il termine di restituzione di quattordici giorni per il consumatore, non è neppure pari rispetto ai trenta previsti (art. 16, par. 1) per il rimborso da parte del commerciante di qualsiasi pagamento ricevuto. 

Ma un’altra disattenzione per gli interessi dei consumatori (ed un abbassamento di tutela rispetto agli attuali livelli (38)) riguarda la possibilità di utilizzare il bene nelle more del cooling-off  period. Qui la proposta dà una risposta assai poco garantista prevedendo che il consumatore resta responsabile della “diminuzione del valore dei beni risultante da una manipolazione oltre a quella necessaria per accertare il valore e il funzionamento del bene” (art. 17 par. 2). Questa espressione non spiega di che cosa risponda il consumatore in concreto. Interrogata sul punto, la Commissione ha affermato che sarebbe consentito all’acquirente di utilizzare il bene come se si trovasse all’interno del negozio. Ma ciò è inaccettabile e potrebbero derivarne ampi contrasti interpretativi (39).

Una nota positiva riguarda invece la disposizione finale del paragrafo 2 dell’art. 17, che esonera il consumatore dal costo per i servizi forniti, in pieno o in parte, durante il periodo di recesso. Si introduce così un regime più garantista rispetto a quello del Codice del Consumo (40), anche se sarà necessario tener conto di quanto si dirà tra breve circa l’art. 19, lett. a.

Apprezzabile è, inoltre, la previsione dell’art. 18 che, nel caso di recesso esercitato dal consumatore nelle vendite aggressive, “annulla” automaticamente eventuali contratti accessori, senza costi per il consumatore (anche se sarebbe stato preferibile citare espressamente i contratti di credito al consumo). Il nostro Codice peraltro aveva già innovato sul punto grazie alla norma contenuta nell’art. 67, comma 6, dove si stabilisce che qualora il prezzo di un bene o di un servizio sia interamente o parzialmente coperto da un credito concesso dal professionista, il contratto di credito si intende risolto di diritto, senza alcuna penalità, nel caso in cui il consumatore eserciti il diritto di recesso.

Inoltre, a norma del’art. 19, lett. a della proposta di direttiva, il diritto di recesso non è esercitabile in caso di vendita a distanza di servizi, se l’inizio dell’esecuzione  del contratto  avviene prima della scadenza del termine per recedere. Sul punto la nuova normativa trascura quello che, negli anni di applicazione della direttiva 97/7/CE ha rappresentato un preoccupante vulnus nella protezione di consumo, lasciando campo aperto al professionista che, intendendo precludere al consumatore la facoltà di recedere, decida di dare avvio alla fornitura del servizio. Ed allora meglio sarebbe stato aggiungere “su espressa richiesta del consumatore” (41).

Infine, per l’esclusione riguardante “la fornitura di giornali, periodici e riviste” (lett. f), sarebbe auspicabile prevedere la stessa regola indicata per i software nella lett. e: escludere il recesso solo nel caso in cui il consumatore apra il bene sigillato.

Merita di essere segnalata, infine, una maggiore raffinatezza delle norme riguardanti l’applicabilità del recesso alla fornitura di beni  o servizi ulteriori da parte del professionista che sia intervenuto presso l’abitazione del consumatore. A norma dell’art. 19, possono realizzarsi due situazioni: “contratti per i quali il consumatore abbai richiesto l’esecuzione immediata da parte del commerciante al fine di rispondere ad un’urgenza immediata” (lett. b) ed il caso di  “contratti per i quali il consumatore ha specificatamente richiesto al commerciante, mediante la comunicazione a distanza, di visitare il suo domicilio al fine di riparare o eseguire la manutenzione sulla sua proprietà” (lett. c). La buona notizia è che in entrambe queste fattispecie sarà consentito di recedere dal contratto per i beni o servizi supplementari forniti dal professionista e diversi da quelli strettamente connessi all’intervento presso l’abitazione del consumatore. Nella pratica, infatti, non è raro che il professionista approfitti della “chiamata” del consumatore per offrire forniture ulteriori alle quali, quindi, grazie al nuovo regime, si applicheranno le norme sul ripensamento.

 

8.      La vendita di beni di consumo

Il Capo IV, come anticipato, è rubricato: “Altri diritti dei consumatori specifici ai contratti di vendita”. Ancora una volta il linguaggio lascia a desiderare, ma sembra potersi desumere l’intenzione del legislatore europeo di stabilire una disciplina generale valida in generale per ogni fattispecie di vendita, ivi compresi i contratti d’opera (art. 21 par. 2).

La proposta interviene sulla c.d. direttiva “garanzie” (42), la più recente tra quelle oggetto della riforma dell’acquis dei consumatori e dunque, almeno teoricamente, la meno bisognosa di un intervento di revisione. Tuttavia, come si è già avuto modo di ricordare (43) si tratta, invece di  una disciplina che ha dato luogo a notevoli contrasti interpretativi.

Il paragrafo 3 dell’art. 21 affronta uno degli aspetti nevralgici, quale è quello dei pezzi di ricambio utilizzati per riparare il bene in garanzia. Ma senza risolverlo, almeno dal punto di vista dell’acquirente: si esclude, infatti, che queste norme possano essere applicate “ai pezzi di ricambio sostituiti dal commerciante per rimediare al difetto di conformità dei beni mediante riparazione”. È evidente che sarebbe stato opportuno prevedere il contrario, almeno per i pezzi di ricambio facilmente individuabili, come prodotti a sé stanti.

L’art. 22 va ad occuparsi dei termini di consegna, argomento che non era precedentemente oggetto di regolamentazione, almeno in via generale (44). La proposta della Commissione è di stabilire che “se le parti non hanno concordato altrimenti, il commerciante consegna i beni (…) entro trenta giorni dalla data di conclusione del contratto”. A ben vedere, però, questa novità non è necessariamente migliorativa del livello di tutela del consumatore che, per certi tipi di beni, può certamente confidare in  termini di consegna più brevi. Si specifica, inoltre, che in caso di consegna tardiva o di mancata consegna, “il consumatore ha diritto al rimborso di tutte le somme versate entro sette giorni dalla data di consegna”, ma l’espressione resta ambigua. Da un lato il dies a quo andrebbe chiarito specificando che i sette giorni decorrono dalla data “prevista” per la consegna. Sarebbe poi opportuno rendere la norma più precisa in ordine alle ulteriori conseguenze del ritardo (quali ad esempio l’eventuale risarcimento del danno) e circa lo scioglimento delle parti dalle rispettive obbligazioni, come naturale conseguenza del mancato adempimento nel termine legale.

Il legislatore europeo si è fatto carico, inoltre, di introdurre una ulteriore novità, costituita dalla regola secondo cui il commerciante sostiene il rischio e i costi legati al deterioramento o alla perdita del bene fino al momento in cui il consumatore “prende il possesso materiale dei beni” (art. 23, par. 1). Questa disposizione, che nei lavori preparatori ha preso il nome di regola sul passaggio del rischio, può rivelarsi particolarmente utile per l’ordinamento italiano quale eccezione all’ordinario principio consensualistico del trasferimento della proprietà.

Per il resto la disciplina delle vendite di beni di consumo resta incentrata sull’obbligo del commerciante di consegnare i beni conformi al contratto di vendita secondo le presunzioni declinate nell’art. 24, par. 2.

Rispetto al precedente regime (45), si conferma l’esclusione del difetto di conformità se questo “trova la sua origine in materiali forniti dal consumatore”. Sul punto era però forse lecito aspettarsi di più dalla revisione dell’acquis, se è vero che, negli anni di vigenza di questa regola, non sono mancati i contrasti interpretativi, essendo il professionista, secondo la giurisprudenza italiana, colui che ha il dovere professionale di verificare la compatibilità dei materiali forniti. Difatti, sulla base dell’asimmetria informativa che caratterizza generalmente ogni contratto business to consumer, sembra irrazionale pretendere che sia il consumatore a dover riconoscere l’idoneità di certi materiali, mentre molto più logico sarebbe prevedere che a questa verifica collabori l’esperienza e la capacità del professionista (46).

Una inspiegabile inversione di tendenza si rintraccia in uno dei momenti più delicati nell’intera architettura delle vendite di consumo. Il riferimento è alle gerarchie dei rimedi azionabili dal consumatore nel caso di difetto di conformità: l’art. 26, invertendo chiaramente il regime precedente, dispone che la scelta tra i rimedi primari (riparazione o sostituzione) spetti al commerciante (47).

Degno di nota, invece, il consistente innalzamento di tutela che risiede nella previsione parte dell’art. 26 par. 4, lett. d, della proposta di direttiva: il consumatore può ricorrere a qualsiasi rimedio previsto dalla norma se “lo stesso difetto si è manifestato più di una volta entro un breve periodo di tempo”. Si tratta, infatti, di situazioni ricorrenti nella pratica che, alla luce delle nuove norme, potrebbero essere risolte favorevolmente per l’acquirente consentendogli di porre fine all’annosa controversia, richiedendo la risoluzione del contratto (48).

Decisamente trascurata è la parte della proposta di direttiva inerente i costi degli interventi in garanzia: l’art. 27 par. 1, dispone che “il consumatore ha diritto al rimedio del difetto di conformità senza alcun costo”. La formulazione è meno analitica rispetto a quella contenuta nella direttiva 1999/44/CE che, nell’art. 3 par. 4, aggiungeva: “l’espressione ‘senza spese’ (…) si riferisce ai costi necessari per rendere conformi i beni, in particolar modo con riferimento alle spese di spedizione e per la mano d’opera e i materiali”. È facile intravedere il rischio di qualche furbizia da parte dei venditori scorretti che tenteranno di addebitare spese al consumatore, cosa che era più complicata realizzare nel precedente regime (49).

Un approfondimento meriterebbe la precisazione contenuta nel paragrafo 2 dell’art. 27: pur utilizzando un’espressione ambigua, sembra consentire al consumatore il risarcimento del danno in caso di mancato ripristino della conformità in garanzia, introducendo così un pregevole ampliamento di tutela: è ben noto che il disagio derivante al consumatore dalla necessità di ricorrere ad un intervento in garanzia non è necessariamente attenutato dal ripristino (pur gratuito) della conformità.

Forse il più appariscente innalzamento di tutela risiede però nella previsione dell’art. 28 che, mantenendo un termine di garanzia legale pari a due anni dalla data in cui il rischio è passato al consumatore, specifica al paragrafo 2 che “se il commerciante ha rimediato al difetto di conformità mediante la sostituzione del bene, egli è responsabile (…) se il difetto di conformità si manifesta entro due anni dal momento in cui il consumatore o un terzo designato dal consumatore ha acquistato il possesso materiale dei beni sostituiti”. In tal modo si introduce un termine di garanzia specifico per il bene sostitutivo: a giudicare dall’esperienza maturata nei primi anni di vigenza delle norme sulla garanzia “europea”, questo aspetto era fonte di grande preoccupazione per i consumatori che avevano beneficiato di una sostituzione.

La riforma progettata nella proposta di direttiva incide anche sulla “garanzia commerciale”, regolata dall’art. 25. Su questo versante, però, si può notare   la minore analiticità dell’espressione qui utilizzata, rispetto a quella di “garanzia convenzionale ulteriore”, presente nel nostro Codice all’art. 128, c. 2, lett. c. Sul punto sembra di potersi sostenere che l’attuale dir. 1999/44/CE sia più garantista: come parametro dell’efficacia della garanzia commerciale, infatti, sono indicati i contenuti della pubblicità, anche in presenza di una dichiarazione di garanzia (art. 6, par.1). L’art. 29 della nuova proposta, invece, si limita invece ad enunciare che “la garanzia commerciale vincola giuridicamente il garante secondo le condizioni stabilite nella dichiarazione di garanzia”. Solo “in assenza di tale dichiarazione, la garanzia commerciale è vincolante alle condizioni stabilite nella pubblicità relativa”. Si può assumere, dunque, una rilevanza più contenuta del messaggio pubblicitario che, invece, sempre più spesso, come dimostra l’osservazione della realtà, fa leva sul tema “garanzia”, descrivendo servizi in maniera difforme da come realmente messi a disposizione del consumatore.

Inoltre, secondo la normativa attuale (ed anche nell’art. 133, c. 4, Codice del Consumo) si specifica che la garanzia debba essere redatta in lingua italiana  e in caratteri non meno evidenti di quelli di altre lingue, mentre la nuova proposta omette tali dettagli, aprendo la strada a possibili scorrettezze.

Si richiama infine l’attenzione sul fatto la proposta di direttiva tace in ordine al diritto di regresso del venditore nei confronti del produttore o altri responsabili della catena distributiva (nel Codice di Consumo, all’art. 131 comma 1). Trattandosi di una prescrizione irrilevante ai fini del rapporto di consumo, si condivide tale snellimento, anche perché simili prescrizioni erano spesso strumentalizzate dai venditori per giustificare da parte loro la violazione delle norme sulla garanzia.

 

9.      Le clausole abusive nei contratti

Il Capo V si dedica, sulla falsariga della direttiva 93/13/CE attualmente vigente (50), alle clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori. Tuttavia, un significativo spostamento della prospettiva sembra albergare già nelle prime intenzioni di riforma del legislatore europeo: l’art. 30 par. 1 della proposta, infatti, limita il campo di applicazione di questa disciplina ai “contratti redatti in anticipo” ed ai “contratti standard prestabiliti”. Al contrario, sia la direttiva preesistente (art. 3 par. 2) che il Codice del Consumo (art. 34 comma 4) considerano vessatorie le clausole contrattuali concluse tra professionista e consumatore, purché “non siano state oggetto di trattativa individuale”, includendo quindi nel vaglio di vessatorietà anche le clausole contenute in contratti redatti per disciplinare singoli affari tra il professionista ed un consumatore.

Qui la variazione nell’ambito di tutela riconosciuta al consumatore non è affatto irrilevante ed anzi rappresenta uno degli aspetti più preoccupanti della riforma in atto, non tanto in termini di rischi concreti (51), quanto per il fatto di lasciare preoccupanti vuoti di tutela in uno scenario che la proposta di direttiva vorrebbe colmare raffinando lo strumentario posto a protezione del consumatore.

Il par. 3 dello stesso articolo, esclude l’applicazione del presente capo “alle clausole che riproducono disposizioni legislative o regolamentari imperative conformi al diritto comunitario, nonché principi o disposizioni di convenzioni internazionali di cui gli Stati membri o la Comunità sono parte”. Tale prescrizione è allineata all’omologa statuizione contenuta nella dir. 93/13/CE, ma la clausola di armonizzazione massimale impedirà al legislatore italiano di mantenere in vigore la prescrizione contenuta nell’art. 34 c. 3 del Codice che si limita ad escludere la vessatorietà delle clausole “che riproducono disposizioni di legge ovvero che siano riproduttive o attuative di principi contenuti in convenzioni internazionali delle quali sino parti contraenti tutti gli Stati membri dell’Unione europea o l’Unione europea”. Le cose cambieranno significantemente perché, se le nuove norme saranno confermate, sarà impossibile anche in Italia accertare la vessatorietà di una clausola che sia stata approvata con un provvedimento amministrativo di natura regolamentare.

In ottemperanza al principio di trasparenza, “le clausole contrattuali sono messe a disposizione del consumatore in modo da offrirgli l’effettiva opportunità di conoscerle prima di concludere il contratto, tenendo conto del mezzo di comunicazione utilizzato” (art. 31 par. 2). Si tratta di una novità apprezzabile nella prospettiva di accrescere l’informazione di cui il consumatore dovrebbe beneficiare nella fase prodromica alla conclusione del contratto. Anche se si dovrà fare i conti con la scelta del mezzo di comunicazione utilizzato, che di fatto rimane nella discrezionalità del professionista.

Dovrebbe invece avere importanti ricadute concrete l’art. 31, par. 3, a norma del quale sarà richiesto “consenso espresso del consumatore per qualsiasi pagamento oltre alla remunerazione per l’obbligo contrattuale principale del commerciante”. Si realizza in pratica una sorta di sistema dell’opt – in  per le eventuali spese aggiuntive, in modo da garantire la trasparenza e la certezza delle clausole contrattuali concluse dal consumatore.

Per quanto riguarda la valutazione di vessatorietà, l’attuale proposta riprende la formulazione letterale della precedente direttiva, considerando (art. 32 par. 1) abusiva la clausola se, “malgrado la prescrizione della buona fede, determina, a danno del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti da contratto”. Sembrerebbe quindi individuarsi definitivamente nello squilibrio tra diritti e doveri delle parti l’unico presupposto della vessatorietà. Com’è noto questo aspetto è stato uno dei nodi interpretativi più dibattuti all’atto del recepimento in Italia della dir. 93/13/CE, discutendosi per oltre un decennio della valenza da attribuire all’espressione “malgrado la buona fede” (52).

Nella valutazione di equità della clausola contrattuale, a mente del par. 2, “l’autorità competente a livello nazionale tiene conto anche del modo in cui è stato redatto il contratto e comunicato al consumatore da parte del commerciante”. Non è ancora immaginabile quali ricadute potranno derivare da questa prescrizione che sembra materializzare una valutazione più complessiva del comportamento tenuto dal soggetto professionale (53).

Per ragioni di certezza giuridica la nuova direttiva prevede una nuova “lista nera” di clausole contrattuali considerate abusive in qualsiasi circostanza e pertanto vietate senza riserve (allegato II della proposta di direttiva), nonché una “lista grigia” di clausole contrattuali ritenute inique fintanto che il commerciante non provi il contrario (allegato III). Può essere utile accennare un confronto con l’allegato alla Dir. 93/13/CE (54) per verificare che, mentre il primo allegato della proposta sembra maggiormente dettagliato, il secondo sembra mancare di descrivere alcune fattispecie rilevanti: nessun cenno, infatti, a clausole che prevedano l’adesione del consumatore a clausole di cui non ha avuto di fatto possibilità di prendere conoscenza prima della conclusione del contratto (55).

Si osservi, inoltre, che mentre il nostro Codice stabilisce espressamente quale clausola presuntivamente vessatoria quella tendente a “stabilire come sede del foro competente sulle controversie località diversa da quella di residenza o domicilio elettivo del consumatore”, (art. 33 c. 2 lett. u), la nuova proposta resta sostanzialmente silenziosa (56). Tale scelta deriva probabilmente dalla necessità di coordinare queste norme con la disciplina della competenza giudiziale nelle controversie transfrontaliere, già oggetto del Regolamento CE 593/2008. Tuttavia non sarebbe inopportuno ribadire il disvalore verso la clausola tendente a stabilire la competenza presso un giudice diverso da quello di residenza o domicilio del consumatore (57).

Si osservi, infine, che anche nel Capo V manca la previsione del diritto di regresso del venditore nei confronti del fornitore per danni che ha subito in conseguenza della declaratoria di nullità della clausola vessatoria, come previsto invece espressamente dal comma 4 dell’art. 36 del Codice del Consumo. 

 

10.   Disposizioni generali e finali

Il Capo VI riguardante le “Disposizioni generali”, si apre con l’art. 40,  secondo il quale “la Commissione è assistita dal Comitato per le clausole abusive nei contratti dei consumatori”: si tratta di un interessante modo di procedere che dovrebbe consentire alle nuove norme di restare al passo con i tempi. Gli art.41 (“Applicazione”), 42 (“Sanzioni”), 43 (“Carattere imperativo delle disposizioni) dovrebbero assicurare, infine, a queste regole di tradursi rapidamente in diritto vivente (58).

Secondo l’art. 44, gli Stati membri sono tenuti ad adottare “misure appropriate per informare il consumatore delle disposizioni nazionali di recepimento della presente direttiva” ed incoraggiare “i commercianti e i responsabili del codice ad informare i consumatori in merito ai propri codici di condotta”. Sarà di vitale importanza che anche il nostro Paese si impegni seriamente in una capillare campagna informativa, risiedendo proprio nello scarso grado d’educazione dei cittadini, il principale motivo di disapplicazione dello scenario di tutela. Strategico, altresì, il riferimento ai codici, quali fonti integrative, strumento ancora poco utilizzato e divulgato presso la cittadinanza.

Tra queste ultime norme, proprio nell’ambito delle “disposizioni generali“, si ritrova, quasi a sorpresa, la norma relativa alla “fornitura non richiesta”, con un rinvio all’allegato I della direttiva 2005/29/CE riguardante l’elenco delle pratiche commerciali considerate in ogni caso sleali ed in particolare al punto 29 che considera pratica commerciale aggressiva quella che “esige il pagamento immediato o differito o la restituzione o la custodia di prodotti che il professionista ha fornito, ma che il consumatore non ha richiesto, salvo nel caso dei beni di sostituzione di cui all’articolo 7, paragrafo 3, della direttiva 97/7/CE”(59).

Il Capo VII, rubricato “Disposizioni finali”, stabilisce l’abrogazione delle quattro direttive riformate (art. 47) con il richiamo ad una “tavola di concordanza” riprodotta nell’Allegato V, che sarà utile strumento per studiosi ed addetti ai lavori. L’art. 48 prevede una procedura di riesame dopo 5 anni dall’entrata in vigore.

 

11.  Conclusioni

L’intervento comunitario che viene materializzandosi con la proposta di Direttiva COM (2008) 614 è stato presentato come un momento di svolta nel processo normativo per la sua idoneità  ad introdurre concreti ed effettivi miglioramenti del quadro giuridico di tutela dei consumatori nell’ambito dei rapporti contrattuali.

Il primo esame dell’articolato induce ad una necessaria cautela e non solo perché (non possiamo ignorarlo) si tratta del risultato minimo di un processo avviato con ben altre ambizioni, ma anche per via dei molti nodi che restano ancora da sciogliere: certamente le vigenti direttive necessitano di una consistente opera di aggiornamento e di un efficace coordinamento se vogliono tener fede  allo scopo di offrire una tutela più estesa ed efficace ai consumatori in tutti i Paesi membri, aumentando così la loro fiducia nel mercato.

Sul percorso intrapreso, però, aleggia ancora qualche preoccupazione: la proposta, come più volte sottolineato, rappresenta un mutamento radicale nell’approccio UE relativo alla politica e alla legislazione dei consumatori, abbandonando l’ormai tradizionale principio dell’armonizzazione minima per sposare l’armonizzazione completa. E’ chiaro che su tale nuova strategia la Commissione fonda le speranze di rimuovere gli ostacoli che ancora pregiudicano la piena realizzazione del mercato interno. Di questo si deve certamente tener conto, ma perché questo percorso non sia foriero di insidie per i consumatori europei, si deve pretendere uno sforzo ulteriore da parte delle Istituzioni europee nel fronteggiare le lobbies imprenditoriali che sperano di assicurarsi scenari normativi meno sensibili agli interessi dei consumatori. Su questo versante le organizzazioni di consumatori stanno mettendo in campo ogni necessario sforzo per sensibilizzare i governi nazionali sui rischi dell’armonizzazione massimale.

Il risultato è che in alcuni Paesi, come nella vicina Francia, si è riusciti nel mobilitare le istituzioni che ora manifestano alcune giuste preoccupazioni: la Commission des affaires européennes du Senat, pur non manifestando assoluta contrarietà rispetto alla scelta di introdurre delle definizioni comuni (come quelle di consumatore, di professionista o di consegna), nel contempo è assai critica nei confronti dell’armonizzazione totale che non permetterebbe al singolo Stato membro di conservare le sue specificità in materia(60).

Il Senato francese conclude che “ritenere l’opzione di un’armonizzazione massimale in materia di diritti dei consumatori, comporterebbe  una scelta di rigidità nella tutela” e si auspica dunque che “tale strumento possa meramente contenere delle definizioni, dei principi generali e delle regole modello in ambito di diritti contrattuali, pur mantenendo una chiara volontà di flessibilità, tale da tener conto delle diversità di tradizione giuridica dei vari Paesi membri”, in pieno rispetto del principio di sussidiarietà (61).

Di diverso spessore, si deve ammettere, il parere reso dalla Commissione Affari Europei del Senato italiano in data 16 dicembre 2008: “la decisione di mantenere un livello minimo di armonizzazione dei diritti dei consumatori rappresenta un ostacolo oggettivo al completamento del mercato internazionale, che potrà essere effettivamente rimosso solo creando una regolazione unica basata su strumenti comuni”. Ed ancora: “l’armonizzazione completa è uno degli aspetti regolatori chiave per aumentare considerevolmente la certezza legale sia per i consumatori che per i professionisti, in modo tale che entrambi possano contare su di una struttura regolatrice comune basata su chiari e definiti concetti legali”.

Fortunatamente, in questa fase non hanno mancato di far sentire la loro voce le organizzazioni di consumatori operanti nel nostro Paese (62). Del resto, di fronte ad un’iniziativa che cambierà il livello di protezione riconosciuto  ai consumatori europei, abbiamo il dovere di guardare con diffidenza all’armonizzazione completa ogni qual volta questa propone livelli di tutela non adeguati alle normative vigenti, alle esperienze maturate, ai tempi che corrono. Poter garantire una maggiore uniformità nella normativa è un valore, ma non in termini assoluti. E’ solo uno dei parametri per operare le valutazioni di impatto; esso è secondario rispetto al grado di protezione che deve essere assicurato ai cittadini nelle dinamiche di consumo.

Siamo ad un momento epocale, che non può svolgersi senza un maggior dialogo fra l’UE, i singoli Stati membri e le aggregazioni dei consumatori, così da definire un testo che risponda nel miglior modo possibile all’effettiva esigenza di tutela richiesta dagli attuali mercati.

 

NOTE:

(1) Anche se a Bruxelles il termine class action è tabù e si preferisce parlare di collective redress, su questo tema è in corso un’ampia consultazione con un Libro Verde promosso dalla Commissaria europea ai consumatori, la bulgara Meglena Kuneva. È significativo che si riconosca l’importanza di facilitare l’accesso ai mezzi di ricorso collettivo anche nella prospettiva di rafforzare il mercato comune: come si può leggere nello stesso Libro Verde, “questo obiettivo si può raggiungere soltanto se i consumatori sono consapevoli del fatto che, se hanno un problema, i loro diritti saranno fatti valere ed adeguatamente compensati”.

(2) Si tratta del provvedimento COM (2008) 614, “Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sui diritti dei consumatori“, disponibile all’indirizzo <http://ec.europa.eu/consumers/rights/docs/COMM_PDF_COM_2008_0614_F_IT_

PROPOSITION_DE_DIRECTI VE.pdf>

(3) Secondo l’Eurobarometro 2008, il 60% dei commercianti ritiene che i costi addizionali dovuti al fatto di dover adempiere a diverse normative nazionali costituiscano un importante ostacolo al commercio transfrontaliero tra imprese e consumatori e circa la metà del 75% dei commercianti che attualmente non vende a livello transfrontaliero ha indicato che lo farebbe se ci fosse un’armonizzazione delle normative esistenti.

(4) Inoltre, la Commissione ha più vlte segnalato che detta frammentazione rende altresì difficile condurre campagne educative di consumer protection a livello europeo e applicare meccanismi alternativi di composizione delle controversie.

(5) L’approccio dell’armonizzazione completa è stato introdotto per la prima volta con la direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali, segnando un nuovo inizio di tutela nel settore dei diritti contrattuali dei consumatori.

(6) Solo per fare un esempio, si pensi da riguardo al diritto di recesso, a livello europeo si registrano diverse definizioni e variegati termini di esercizio.

(7) Introdotto con il d. lg. 6 settembre 2005, n. 206. Il Codice “armonizza e riordina le normative concernenti i processi di acquisto e consumo, al fine di assicurare un elevato livello di tutela dei consumatori e degli utenti” (Art.1) Per la bibliografia in merito, si veda ALPA-ROSSI CARLEO, Codice del Consumo. Commentario, Napoli, 2005; CUFFARO, Codice del Consumo, Milano, 2006; VETTORI (a cura di), Codice del consumo. Commentario, Padova, 2007; per gli interventi modificativi realizzati alla fine del 2007, sia consentito rimandare a DONA, Pubblicità, pratiche commerciali e contratti nel Codice del Consumo, Torino, 2008.

(8) Tale discrepanza è rilevante soprattutto per le vendite via internet, che attendono ancora di vedere realizzate a pieno le prospettive di crescita. Secondo i dati raccolti dall’UE e pubblicati in un comunicato stampa dell’8 ottobre 2008, già 150 milioni di cittadini UE – un terzo della nostra popolazione – fa acquisti tramite internet, ma fin’ora soltanto 30 milioni di loro fa acquisti transfrontalieri on-line. Nel complesso, gli acquirenti transfrontalieri spendono una media di 800 euro all’anno, pari ad un totale di 24 miliardi di euro, il che dimostra le enormi potenzialità del mercato interno che si realizzerebbero se un maggior numero di persone si avventurassero a fare acquisti al di fuori dei propri confini.

(9) La Commissione ha ricevuto oltre 300 risposte dalle associazioni dei consumatori e delle imprese, dagli Stati membri, dal Parlamento europeo, dal Comitato economico sociale, da accademici, da giuristi e da altri interessati

(10) Secondo quanto si legge nella Relazione di accompagnamento della proposta di direttiva, la determinazione maturata è in linea con il principio di proporzionalità, limitandosi a regolamentare alcuni aspetti chiave del diritto contrattuale dei consumatori e non interferendo con le categorie generali, come la capacità di concludere contratto o le modalità per ottenere il risarcimento del danno. Si offre così agli Stati il necessario margine di manovra per mantener i principi base del diritto contrattuale nazionale

(11) A partire dall’art. 5, rubricato “Informazioni per i consumatori”.

(12) A partire dall’art. 8, rubricato “Informazioni per il consumatore e diritto di recesso per i contratti a distanza e per i contratti negoziati fuori dei locali commerciali”

(13) A partire dall’art. 21, rubricato “Altri diritti del consumatore specifici ai contratti di vendita.”

(14) A partire dall’art. 30, è rubricato “Diritti dei consumatori in materia di clausole contrattuali”.

(15) A partire dall’art. 40, rubricato “Disposizioni generali”.

(16) A  partire dall’art. 47.

(17) Per approfondimenti si veda KIRSCHEIN, Commento all’art.3, comma 1, lett. a) e c) del Codice del Consumo, in Codice del Consumo. Commentario, a cura di Alpa – Rossi Carleo, Napoli, 2005, p. 65; ed inoltre ASTONE, Ambito di applicazione soggettiva. La nozione di “consumatore” e “professionista”, in Clausole vessatorie nei contratti del consumatore, a cura di Alpa – Patti, Milano, 2003, p. 172.

(18) In particolare, la Direttiva 85/577/CEE definisce il consumatore come “la persona fisica che, per le transazioni disciplinate dalla presente direttiva, agisce per un uso che può considerarsi estraneo alla propria attività professionale “; mentre la Direttiva  1999/44/CE intende il consumatore come “qualsiasi persona fisica che, nei contratti soggetti alla presente direttiva,agisce per fini che non rientrano nell’ambito della sua attività commerciale o professionale “.

(19) Nel testo in lingua inglese si usa il termine “trader”, mentre nella versione francese il termine “professionnel”

(20) Ad eccezione della sola dir. 85/577/CEE  che si limita a parlare di “commerciante”.

(21) Ad onor del vero, però, detto ampliamento di tutela era stato realizzato dal legislatore italiano, il quale (come gli era consentito fare grazie alla clausola di armonizzazione minima) aveva omesso l’aggettivo “materiali”, pur  previsto  dalla Direttiva n. 1999/44/CE.

(22) Sulla falsariga della Direttiva 97/7/CE che, (art. 2, n. 1), definisce il contratto a distanza come “qualunque contratto avente per oggetto beni o servizi stipulato tra un fornitore e un consumatore nell’ambito di un sistema di vendita o di prestazione di servizi a distanza organizzato dal fornitore che, per tale contratto, impieghi elusivamente una o più tecniche di comunicazione a distanza fino alla conclusione del contratto, compresa la conclusione del contratto stesso”.

(23) La versione inglese indica  il contratto negoziato al di fuori dei locali commerciali come “any sales or service contract concluded away from business”, mentre il testo francese recita “contrat de vente ou de service conclu en dehors d’un établissement commercial”.

(24) Una regola così generale avrebbe una particolare utilità nell’ordinamento italiano dove neppure il Codice del Consumo è riuscito a rimediare (se non in parte) alla farraginosità della tutela informativa.

(25) Indicato invece nel nostro Codice del Consumo ex art. 52, comma 1, lett. h). Si pensi che anche la Direttiva 97/7/CE che, all’art. 4, lett. g), indica fra le informazioni preliminari che il consumatore deve ricevere in tempo utile prima della conclusione di qualsiasi contratto a distanza il “costo dell’utilizzo della tecnica di comunicazione a distanza, quando è calcolato su u8na base diversa dalla tariffa di base”.

(26) Con la conseguenza che, nella fase patologica del rapporto, il consumatore potrebbe essere nell’impossibilità di invocare la tutela di consumo (si veda nella prassi  gli acquisti effettuati sul sito www.E-bay.com o il caso del venditore di auto che offra agli acquirenti vetture che detiene “in conto vendita”).

(27) Discorso analogo vale per il paragrafo 3 dell’art. 11, laddove si fa riferimento alle informazioni “minime” che è obbligatorio fornire nel caso in cui il contratto sia concluso mediante un mezzo che consente uno spazio o un tempo limitato per visualizzare le informazioni (così nel caso degli “spot lampo” televisivi o radiofonici, ci sarà da aspettarsi un livello informativo assai deludente).

(28) Lo faceva già a direttiva n. 97/7/CE all’art. 4, par. 3.

(29) Vedi direttive n. 85/577/CEE relativa ai contratti negoziati fuori dei locali commerciali e n. 97/7/CE  in materia di contratti a distanza.

(30) Più allarmante il quadro a livello europeo, molti ordinamenti prevedono termini decisamente più ampi.

(31) Così come nelle direttive. Vedi art 3, par. 1 della dir. 85/577/CEE per i contratti negoziati fuori dei locali commerciali e l’art. 6, par. 1, della dir. 97/7/CE, in merito ai contratti a distanza.

(32) Si veda l’art. 6 della direttiva 97/7/CE.

(33) L’attuale decorrenza del termine prorogato muove, per i beni, dal giorno del loro ricevimento da parte del consumatore e, per i servizi, dal giorno di conclusione del contratto.

(34) Per approfondimenti sul recesso del consumatore si rimanda a RUVOLO, “Il diritto di recesso nei contratti negoziati fuori dei locali commerciali e nei contratti a distanza”, in Caringella – De Marzo (a cura di), “I contratti dei consumatori”, Torino, 2007, 347.

(35) Scambio non irragionevole se vero che questa sanzione è stata ritenuta possibile come dimostra la previsione della forma scritta a pena di nullità per i contratti negoziati fuori dei locali commerciali ex art. 10, par. 2, della proposta.

(36) La direttiva 85/577/CEE si limita ad utilizzare il termine “comunicazione”.

(37) Tutto sommato in linea con le vecchie direttive che tuttavia erano più analitiche. Si veda,nello specifico, la parte finale dell’art. 5 della dir. 85/577/CEE, dove si  prevede che “con l’invio della comunicazione il consumatore è liberato da tutte le obbligazioni derivanti dal contratto rescisso”.  L’art. 6, comma 2, della direttiva 97/7/CE,  dispone che “se il diritto di recesso è stato esercitato dal consumatore conformemente al presente articolo, il fornitore sarà tenuto al rimborso delle somme versate dal consumatore, che dovrà avvenire gratuitamente. Le uniche spese eventualmente a carico del consumatore dovute all’esercizio del suo diritto di recesso sono le spese dirette alla spedizione dei beni al mittente “

(38) Si trascrive l’art. 67, comma 2, del Codice del Consumo: “Per i contratti riguardanti la vendita di beni, qualora vi sia stata la consegna della merce , la sostanziale integrità del bene da restituire è condizione essenziale per l’esercizio del diritto di recesso. È comunque sufficiente che il bene sia restituito in normale stato di conservazione, in quanto sia stato custodito ed eventualmente adoperato con l’uso della normale diligenza”.

(39) Potrebbe ritenersi che un capo di abbigliamento sportivo avrà un valore minore se indossato più volte durante il periodo di ripensamento, ma cosa dire di un cellulare che, all’interno di un negozio, non si può certo utilizzare neppure per fare una telefonata di prova?

(40) Art. 66, Cod. Cons.

(41) Analogamente, sarebbe preferibile richiedere la “espressa richiesta del consumatore” anche in merito alla lett. “c”, che esclude la facoltà di recesso nel caso di “fornitura di beni confezionati su misura o chiaramente personalizzati… “, in quanto sono frequenti i casi di personalizzazioni offerte in “omaggio” all’insaputa del consumatore, al solo scopo proprio di eludere il diritto di recesso.

(42) Si tratta della Dir. 1999/44/CE “su taluni aspetti della vendita e delle garanzie sui beni di consumo“.

(43) Per approfondimenti si vedano ZACCARIA-DE CRISTOFORO, La vendita dei beni di consumo. Commento agli artt. 1519-bis – 1519-nonies del Codice Civile introdotto con d. lgs. 2 febbraio 2002, n. 24 in attuazione della Direttiva 1999/44/CE, Padova, 2002. Ed anche DONA, “La vendita dei beni di consumo”, in Caringella -De Marzo, (a cura di) ., “I contratti dei consumatori”, UTET, 2007, 571 ss.

(44) Un termine per la consegna è previsto nel Codice del Consumo solo per i contratti a distanza (art. 54)

(45) Art. 129, c. 3, Cod. Cons.

(46) In tal senso si è espressa la Corte di Cassazione ritenendo che l’ “appaltatore, nell’ambito della sua discrezionalità nel compimento della prestazione tecnica si assume il rischio di un’opera difettata quando abbia accettato, senza riserve, materiali forniti dal committente, sebbene questi presentino vizi o difformità riconoscibili da un tecnico dell’arte” (Cass., 10.12.1994, n. 10580, MGC, 1994). Sul punto sia consentito di rimandare a DONA, Pubblicità, pratiche commerciali e contratti nel Codice del Consumo, cit., 211:

(47) E’ bene sottolineare che la direttiva 1999/44/CE (art. 3, par. 3) e con essa anche il nostro Codice del Consumo (art. 130, c. 3), attribuisce tale scelta al consumatore, riconoscendolo in tal modo come titolare di un diritto di selezione nei confronti delle opzioni di tutela previste dalla legge. A tale decisione non può far vero ammettere che, secondo l’attuale regime, la scelta del rimedio da parte del consumatore avverrà “salvo che il rimedio sia oggettivamente impossibile o eccessivamente oneroso rispetto all’atto” (art. 130, c.3)

(48) Sia consentito rimandare a DONA, Pubblicità, pratiche commerciali e contratti nel Codice del Consumo, cit.: ” il testo di legge parla di riparazioni (o sostituzioni) al plurale: quante ne deve sopportare il consumatore, se la prima non va a buon fine? La legge tace su questo punto e, di nuovo, tale silenzio alimenterà le controversie, mentre sarebbe stato preferibile seguire l’esperienza americana laddove si prevede una presunzione di difformità nel caso in cui si rendano necessari più di un certo numero di ricoveri di riparazione”.

(49) Sul tema si è espressa recentemente la Corte di Giustizia con la sentenza del 17 aprile 2008 (causa C-404/06) che, riferendosi alla normativa tedesca di recepimento della direttiva 1999/44/CE, richiama proprio la proposta di direttiva in esame e precisamente il considerando 41: il consumatore, oltre a non dover sopportare alcun costo per rimediare al difetto di conformità, non deve neppure compensare il commerciante per l’uso del bene difettoso. La conclusione cui perviene la Corte è che la legge tedesca sulla vendita, prevedendo che, qualora l’acquirente avesse optato per la consegna di un nuovo bene in sostituzione del precedente, sarebbe stato assoggettato all’applicazione della disciplina sul recesso dal contratto, la quale implica la riconsegna delle prestazioni ricevute e la restituzione degli utili ottenuti (intendendosi per utili, ai sensi dell’art. 100 del BGB, i vantaggi derivanti dall’uso della cosa o dal godimento del diritto) osta alle prescrizioni della proposta e, considerando l’approccio dell’armonizzazione massima, non potrà mantenersi in vigore.

(50) Per approfondimenti sul recepimento nell’ordinamento italiano si veda CARINGELLA, Il lungo viaggio verso la tutela del consumatore quale contraente per definizione debole” in Caringella-De Marzo, “I contratti dei consumatori”, Torino, 2007, 1.

(51) Si veda, sul punto, MINERVINI (“Dei contratti del consumatore in generale”, Torino, 2006, 44) secondo il quale, pur essendo evidente che sono assoggettati alla disciplina della vessatorietà tanto il contratto standard, quanto il contratto predisposto dal professionista appositamente per una singola operazione, “il pericolo di una fuga nella contrattazione individuale non va sopravvalutato: i tempi ed i costi del negoziato individuale sono tali da rendere quanto meno improbabile siffatta fuga”

(52) Per una panoramica sull’ampio dibattito sia consentito rimandare a DONA, Il Codice del Consumo, regole e significati, Torino, 2005, 62.

(53) La dir. 93/13/CE si limitava a disciplinare la forma del contratto, se redatto per iscritto, prevedendo alcune regole interpretative (attuale art. 45 del Codice del Consumo).

(54)  Tradotto all’atto del recepimento dapprima all’interno del Codice Civile (art. 1469-bis, c. 2), quindi nel Codice del Consumo (art. 33 c. 2 e art. 36 c. 2).

(55) Secondo il Codice del Consumo, una simile clausola meritava d’essere inserita all’interno della “lista nera”, cioè fra quelle clausole comunque vessatorie, in ogni circostanza (art. 33 c. 2 lett. l), e ripresa poi al’art. 36 c.2 lett. c)  Cod. cons.).

(56) Limitandosi a comprendere fra le clausole comunque abusive la lett. c, che riguarda in generale la facoltà di “sopprimere o limitare il diritto del consumatore di adire le vie legali o le vie del ricorso, in particolare obbligando il consumatore a rivolgersi esclusivamente all’arbitrato non disciplinato da disposizioni giuridiche”.

(57) Per quanto attiene all’ordinamento italiano, va ricordato, inoltre, che la vessatorietà della clausola che stabilisce la competenza di un foro diverso da quello di residenza o domicilio elettivo del consumatore ha costituito il grimaldello grazie al quale la nostra giurisprudenza (Cass. S. U. Ord. N. 14669/2003) ha introdotto nel sistema il principio del “foro del consumatore”, che ha segnato una pietra miliare nell’innalzamento della tutela di consumo nell’ambito della gestione delle controversie e nell’accesso alla giustizia.

(58) Si osservi l’art. 42 par. 1, secondo il quale è rimesso agli Stati membri di adottare “le sanzioni da irrogare in caso di violazione delle norme nazionali adottate conformemente alla presente direttiva e adottano tutte le misure necessarie per assicurarne l’applicazione. Le sanzioni previste devono essere efficaci, proporzionate e dissuasive”.

(59) È bene ricordare che la materia della “fornitura non richiesta” fece la sua comparsa  nella direttiva 97/7/CE in materia di contratti a distanza (art.9), per poi essere ripresa dalla direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali scorrette. Dopo il recepimento di questa direttiva, nel 2008, ha portato alla riforma dell’art. 57 del Codice del Consumo.

(60) Si legge nel parere: “indubbiamente con l’armonizzazione minimale le regolamentazioni possono differenziarsi fra i Paesi, creando delle difficoltà di accesso per le imprese ai diversi mercati  e un ostacolo per i consumatori nel conoscere i loro diritti. In tal modo l’armonizzazione massimale risolverebbe sicuramente il problema della frammentazione giuridica ma, non tenendo conto della diversità dei regimi applicabili nei vari Paesi, è probabile che il livello di protezione dei consumatori venga fissato così ad un stadio intermediario, che potrà comportare paradossalmente un arretramento di tutela per certi Paesi”.

(61) Nella sua replica, la Commissione europea, dopo aver ribadito che “la proposta di direttiva rispetta pienamente i principi di sussidiarietà” precisa che “il testo della proposta si limita ad armonizzare certi aspetti delle regole imperative della protezione dei consumatori applicabili ai contratti tra consumatore e professionista”. Ed aggiunge: “dall’analisi di impatto e dal processo di consultazione approfondito, si dimostra che solo tali aspetti sono essenziali per migliorare il funzionamento del mercato interno nell’interesse di consumatori e imprese e l’armonizzazione completa sarà dunque limitata a questi caratteri di tutela, non proponendosi affatto di armonizzare il diritto generale dei contratti che è contenuto nel codice civile francese né tutti gli aspetti del codice del consumo”.

(62)  Il parere approvato dal Consiglio Nazionale dei Consumatori e degli Utenti (C.N.C.U.) nella seduta del 27 febbraio 2009 manifesta una critica marcata rispetto alla proposta di direttiva e formula alcune dettagliate richieste di emendamento (il documento è disponibile sul sito http://www.tuttoconsumatori.it/).

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