ISSN 2239-8570

Le Sezioni Unite in tema di parto anonimo e ricerca delle origini da parte dell’adottato, di Francesca Sartoris


DOCUMENTI ALLEGATI

Nella sentenza che si segnala le Sezioni Unite sono state chiamate a dirimere il contrasto esistente nella giurisprudenza di merito in materia di parto anonimo e diritto del figlio non riconosciuto alla nascita ad accedere alle informazioni che riguardano le proprie origini.

A monte del riferito contrasto vi è la pronuncia della Corte Costituzionale n. 278, del 2013 con la quale era stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 28, comma 7, Legge n. 184/1983 (come sostituito dall’art. 177, comma 2, D.Lgs. n. 296/2003) nella parte in cui non prevede la possibilità per il giudice di dare corso alla richiesta del figlio adottato di conoscere l’identità della madre naturale che, al momento del parto, ha dichiarato di non voler essere nominata ai sensi dell’art. 30, comma 1, D.P.R. n. 396/2000. La Consulta aveva, infatti, rilevato la mancata previsione di un apposito procedimento, stabilito dalla legge, che consentisse di interpellare la madre, con la massima riservatezza, in modo da verificare la eventuale revoca di tale dichiarazione.

Per effetto della sentenza della Corte Costituzionale, è stata affermata l’esistenza del diritto del nato da parto anonimo a conoscere le proprie origini con il limite della accertata persistenza della volontà della madre biologica di mantenere il segreto. Contestualmente, però, è sorto un problema interpretativo con riguardo al peso da attribuire all’inciso presente nel dispositivo della sentenza (“attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza”), dalla cui risoluzione dipende l’inquadramento della pronuncia della Corte Costituzionale nell’ambito delle diverse tipologie decisorie.

Quest’ultima questione di diritto ha originato il contrasto giurisprudenziale che le Sezioni Unite sono state chiamate a risolvere per definire gli spazi e i limiti di intervento del giudice comune nell’esercizio concreto del suo potere giurisdizionale.

Brevemente di seguito le posizioni a confronto. Secondo un primo indirizzo, con il richiamato inciso la Corte Costituzionale ha istituito un’esplicita riserva di legge. La sua efficacia dipende, quindi, dal successivo intervento del legislatore, il solo a poter prevedere e disciplinare le modalità attraverso cui il giudice dovrà procedere all’interpello della madre ignota su richiesta del figlio.

La sentenza della Corte Costituzionale costituisce, dunque, una pronuncia additiva di principio con rinvio alla legge per la necessaria definizione della disciplina di dettaglio. Da tale natura dipende l’impossibilità di una attuazione per via giudiziaria della stessa, in quanto l’intervento del giudice sarebbe creativo ex novo di un procedimento e rappresenterebbe un’indebita invasione dei poteri spettanti agli altri Poteri dello Stato.

Secondo l’opposto indirizzo ermeneutico, il principio enunciato dalla Corte Costituzionale si presta ad essere subito attuato dal giudice comune. A tal fine egli può dedurre la regola per il caso concreto dalla disciplina generale, ancorché solo a titolo precario.

Il Collegio, compiuta una ricognizione approfondita della pronuncia della Corte Costituzionale, muove dal rilevare come essa costituisca una pronuncia di accoglimento che non si limita a sancire il diritto del figlio a scoprire le proprie origini accedendo alla sua storia parentale. Nella stessa, infatti, la Consulta riconosce al soggetto interessato anche la possibilità di esercitare concretamente tale diritto chiedendo al giudice di interpellare la madre al fine di verificare se persiste ancora la sua volontà di restare anonima.

Attribuire una simile facoltà è il compromesso necessario per garantire un adeguato bilanciamento degli opposti interessi coinvolti in simili vicende familiari. Se fosse negata la possibilità per il giudice di riscontrare l’attualità della scelta compiuta dalla donna al momento del parto, di fatto, si continuerebbe a dare applicazione al testo dell’art. 28, comma 7, Legge n. 184/1983 negando, così, effettiva tutela al diritto del figlio. Esito, questo, non consentito in ragione degli effetti che la dichiarazione di illegittimità costituzionale produce ai sensi degli artt. 136 Cost. e 30, comma 3, Legge n. 87/1953.

In base alla ricostruzione compiuta, le Sezioni Unite ritengono che la pronuncia della Consulta sia una sentenza additiva di principio. Un principio opposto rispetto a quello desumibile dalla norma dichiarata incostituzionale, in quanto volto a conferire al giudice il potere di interpellare la madre rimasta anonima su richiesta del figlio.

Il fatto che la sentenza non introduca regole di dettaglio self executing quanto al procedimento di consultazione della donna, ma rimetta al legislatore il compito di provvedere al riguardo, non esonera gli organi giurisdizionali dall’applicazione diretta dell’espresso principio. Con la conseguenza che ricade sul giudice comune il compito di individuare e dedurre, dal quadro normativo generale esistente, soluzioni applicative utilizzabili medio tempore per dare risposta ai singoli casi bisognosi di definizioni. Solo, così, infatti, è possibile assicurare, anche in attesa dell’intervento legislativo, effettività ed operatività al principio formulato dalla Consulta, nonché garantire ai soggetti coinvolti la possibilità, sul piano pratico, di esercitare i loro diritti fondamentali.

Indicazioni utili a tal fine vengono offerte dalle Sezioni Unite. Innanzitutto, il Collegio evidenzia i criteri-guida delineati dalla Consulta dai quali non può prescindersi. Essa indica non solo il tipo di attività (l’interpello) e chi debba svolgerla (il giudice), ma anche quando e con quali modalità deve essere condotta (su istanza del figlio e nel massimo rispetto del diritto alla riservatezza della madre). Dopodiché, segnala nello specifico un procedimento “base” che il giudice comune può mutuare dall’ordinamento (il procedimento di volontaria giurisdizione di cui all’art. 28, co. 5 e 6, Legge n. 184/1993) e alcuni referenti normativi utili (l’art. 93 Codice in materia di protezione dei dati personali; art. 28, co. 6, Legge n. 184/1993).

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