ISSN 2239-8570

Le Sezioni Unite risolvono il contrasto sulla natura della comunione de residuo, di Lorenzo Vergassola


DOCUMENTI ALLEGATI

Le Sezioni Unite, chiamate a risolvere una questione di massima importanza, si pronunciano sulla natura del diritto, al tempo dello scioglimento della comunione legale, spettante al coniuge non già proprietario, in relazione ai beni facenti parte della comunione de residuo, che risultino ancora esistenti a tale data, secondo gli artt. 177 lett. b) e c) nonché 178 cod. ci

La situazione giuridica oggetto di iniziale controversia riguarda la qualificazione del diritto spettante al coniuge non imprenditore sui beni in titolarità dell’altro consorte, acquistati da quest’ultimo (non come beni personali) e destinati all’esercizio della propria attività imprenditoriale, nonché sui relativi incrementi aziendali e sugli utili, afferenti all’impresa individuale costituita dal medesimo dopo il matrimonio vigente il regime patrimoniale legale, da valutarsi al momento della loro separazione personale giudiziale.

L’ordinanza interlocutoria (della Sezione II civile, n. 28872/2021) nonché la sentenza delle Sezioni Unite civili in commento (n. 15889/2022) ripercorrono le principali opinioni dottrinali e giurisprudenziali in materia, evidenziando in specie come i magistrati, anche di legittimità, non abbiano prima d’ora affrontato la questione con la dovuta ponderazione.

In tema di comunione de residuo, in conformità al dato normativo, vi è solitamente concordia nell’assegnare al diritto dell’altro coniuge una natura differita (si concretizza al tempo dello scioglimento della comunione legale) ed eventuale (sorge solo se a tale data i beni interessati siano ancora presenti nel patrimonio del coniuge già titolare). Tuttavia, dal punto di vista della sua configurazione giuridica, la Suprema Corte ricorda come, nel tempo, oltre a due proposte più articolate, si siano prevalentemente sviluppati due orientamenti generali contrapposti: la teoria del diritto reale e quella del diritto di credito.

Secondo la prima concezione, alla data di cessazione del regime legale, su quanto soggetto alla regolamentazione de residuo si produce automaticamente una comproprietà tra i coniugi, che diventano titolari dei beni in comunione ordinaria, in parti uguali.

Tale inquadramento è stato avallato dal Tribunale di Cagliari (5 novembre 2003) relativamente al primo grado della vicenda in analisi, il quale ha accolto la domanda dell’attrice, coniuge non esercente attività imprenditoriale, riconoscendo in capo alla medesima il diritto di proprietà per la quota di 1/2 sui beni oggetto del contendere.

Nel ripercorrere le precedenti posizioni della giurisprudenza, la Cassazione riscontra come tale posizione sia stata sostenuta dalla stessa Corte in altre occasioni (Cass. n. 2680/2000; Cass. n. 7060/2004; Cass. n. 19567/2008; Cass. n. 13760/2015).

Nel bilanciamento tra gli interessi coinvolti, la natura reale del diritto spettante all’altro coniuge attribuisce particolare rilevanza alla solidarietà familiare, in armonia con lo spirito della Riforma del Diritto di Famiglia del 1975, diretta a tutelare il nucleo familiare (art. 29 Cost.) e il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), oggi estesa anche ad altri modelli (cfr. Legge n. 76/2016 e art. 2 Cost.). Come si evince dal provvedimento in esame, l’indirizzo della realità viene motivato in virtù di una serie di fattori:

– il tenore letterale delle norme, che fa propendere per la fattispecie reale (l’art. 177 cod. civ. prevede la formulazione «Costituiscono oggetto di comunione» e l’art. 178 cod. civ. quella «si considerano oggetto di comunione»);

– l’art. 192 cod. civ., che regola i rimborsi e le restituzioni da effettuare alla cessazione della comunione, non ha cura di richiamare i casi oggetto di attenzione, così desumendosi l’esclusione dell’esistenza di un diritto di credito in tali circostanze;

– il vantaggio ermeneutico di unificare le problematiche della natura giuridica e del trattamento normativo della comunione (già) immediata e di quella differita, nella fase successiva al dissolversi del regime di legge;

– il diritto reale offre maggiori garanzie all’altro coniuge, il quale, divenendo contitolare della cosa, eviterebbe il concorso con i creditori dell’altro consorte, che si verificherebbe qualora il suo diritto fosse invece di natura obbligatoria, in ragione della mancanza di una natura privilegiata del credito.

Quanto alla comunione de residuo inerente agli elementi aziendali dell’impresa di uno dei due coniugi, vengono effettuate alcune precisazioni:

– l’attribuzione di un mero credito pecuniario vanificherebbe l’aspettativa del coniuge non esercente l’impresa alla partecipazione all’ulteriore aumento di valore dei beni aziendali intervenuto dopo lo scioglimento della comunione legale;

– il coniuge non imprenditore rimane estraneo alla responsabilità per i debiti scaturenti dall’attività imprenditoriale, la cui rilevanza si spiega solo ai fini di determinare il valore netto dei beni aziendali, poiché il diritto reale si calcola sul valore del patrimonio detratti i debiti sorti in epoca anteriore alla cessazione del regime patrimoniale legale.

A questa visione si oppone la prospettiva creditizia, secondo cui, al momento dello scioglimento della comunione legale, all’altro coniuge spetta un diritto di credito, da valutarsi a tale data, pari al 50% dell’ammontare dei frutti o dei proventi de residuo, ovvero del valore dei beni aziendali e/o dei connessi incrementi dell’impresa oggetto di comunione residuale, al netto delle passività.

Questa ricostruzione è fatta propria, riguardo al caso in esame, dalla Corte di Appello di Cagliari (n. 557/2019) nonché dalle Sezioni Unite, le quali rammentano come tale opzione sia stata supportata anche da altre pronunce della stessa Corte di legittimità (Cass. n. 7060/1986; Cass. n. 4533/1997; Cass. n. 42182/2010; Cass. n. 6876/2013; Cass. n. 4286/2018).

Secondo i giudici nella loro massima formazione, a favore del diritto di natura obbligatoria milita la necessità di bilanciare le esigenze solidaristiche familiari, pur quantitativamente garantite, con altri diritti di pari dignità costituzionale, quali la tutela della proprietà privata (artt. 41-42 Cost.) e la remunerazione del lavoro (art. 35 Cost.). Le argomentazioni portate a sostegno sono le seguenti:

– il dato letterale, che rappresenta la più solida motivazione riportata dall’impostazione avversa, non sembra insuperabile, ove si osservi che il verbo «considerare» impiegato dall’art. 178 cod. civ., piuttosto che «essere» adoperato dall’art. 177 cod. civ., denota un’ambiguità semantica che potrebbe essere ricondotta a una precisa volontà di sottoporre la comunione de residuo, e specialmente quella di impresa, a un regime normativo diverso da quello ordinario che connota i beni destinati a ricadere immediatamente in comunione legale; in questo senso, è rispettato il canone dell’art. 12 delle preleggi, in base al quale la lettera della norma è un limite invalicabile dell’interpretazione, che è uno strumento percettivo e recettivo e non anche correttivo o sostitutivo della voluntas legis;

– l’omissione nell’art. 192 cod. civ. del credito in capo al coniuge non già proprietario si giustifica per l’esaustività della disciplina della comunione de residuo nelle norme appositamente dettate;

– è priva di razionalità una soluzione che imponga l’incremento dei legami economici fra i due coniugi proprio quando si sono prodotte vicende che ne dovrebbero invece comportare la cessazione.

In merito segnatamente alla comunione differita degli elementi aziendali relativi all’impresa di uno dei coniugi, il Massimo Collegio espone una serie di riflessioni:

– anche a seguito dell’ultimo ragionamento ora svolto, non è giustificabile alcuna aspettativa del consorte non imprenditore verso i futuri aumenti di valore dei beni aziendali, giacché, con la cessazione del regime legale, vengono meno quelle esigenze solidaristiche che fondano la pretesa di compartecipazione alle fortune del coniuge imprenditore;

– la comunione in senso reale mal si concilia con la connotazione, anche immateriale (si pensi all’avviamento), della categoria degli «incrementi» di cui all’art. 178 cod. civ.;

– la maggioranza dei sostenitori della realità ritiene che la comunione insorga sul «saldo attivo del patrimonio aziendale», nozione che, da un lato, in quanto attiene a calcoli economici, non si adatta al diritto reale, dall’altro, per coerenza, implica che delle passività debba essere chiamato a risponderne anche il coniuge non imprenditore;

– l’insorgenza di una comunione sui beni aziendali creerebbe ripercussioni negative per i terzi che hanno avuto rapporti con l’impresa del singolo coniuge, i quali subirebbero una dimidiazione della garanzia patrimoniale, che potrebbe scoraggiare i creditori dal continuare a riporre fiducia nella gestione successiva allo scioglimento della comunione legale;

– la comproprietà si tradurrebbe in una menomazione dell’autonomia e della libertà gestionale dell’imprenditore, con il rischio che la conflittualità tra i coniugi, che spesso caratterizza alcune delle fattispecie che determinano le cessazione del regime patrimoniale legale, possa riverberarsi anche nelle scelte che afferiscano ai beni aziendali caduti nella comunione de residuo, creando una possibile paralisi dell’attività imprenditoriale;

– altrettanto illogica è la circostanza che, nel caso di morte del coniuge non imprenditore, sui beni aziendali si verrebbe a creare la comunione tra il coniuge esercente l’impresa e gli eredi dell’altro consorte, che potrebbero essere estranei al nucleo familiare ristretto;

– il carattere ordinario della comunione potrebbe vanificare la continuità dell’impresa, posto che, in assenza di una specifica previsione che contempli una prelazione a favore del coniuge imprenditore, all’esito della divisione, ove il complesso aziendale non risultasse comodamente divisibile, ben potrebbe chiederne l’attribuzione il coniuge non imprenditore, ovvero, in assenza di richieste in tal senso da parte dei condividenti, si potrebbe addivenire all’alienazione a terzi;

– si presenterebbe così un evidente contrasto con l’esigenza, manifestata a livello nazionale ed europeo, di assicurare la sopravvivenza delle imprese, come può evincersi anche dall’introduzione della disciplina del patto di famiglia (Legge n. 55/2006).

Infine, le Sezioni Unite precisano che il credito vantato dal coniuge non imprenditore a titolo di comunione de residuo non ha carattere privilegiato, in quanto non è annoverato tra le ipotesi tassative di legge (cfr. art. 2741 cod. civ.). Né può applicarsi la legittima causa di prelazione dell’art. 189, comma 2 cod. civ., in quanto tale norma si riferisce ai beni per i quali sia sorta una comunione reale (e non de residuo, che importa invece la nascita di un diritto obbligatorio). In ogni caso, le esigenze di protezione del coniuge non imprenditore potrebbero trovare adeguata tutela mediante la proposizione di opportune iniziative anche cautelari, come la richiesta di un sequestro conservativo.

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