ISSN 2239-8570

Le Sezioni Unite sulla nullità selettiva degli ordini di investimento, di Chiara Sartoris.


DOCUMENTI ALLEGATI

Con la sentenza in esame, le Sezioni Unite prendono posizione in ordine alla dibattuta questione dell’ammissibilità dell’uso selettivo della nullità nei contratti di intermediazione finanziaria.

L’ordinanza della I sezione della Corte di Cassazione (n. 23927/2018) si è posta il problema se l’investitore, parte di un contratto-quadro nullo per difetto di forma (ex art. 23 T.U.F.), possa chiedere al giudice di limitare le conseguenze della sentenza di nullità a singoli ordini di attuazione del contratto-quadro, escludendo che la patologia si estenda a colpire tutti gli altri ordini emessi nel corso del rapporto negoziale.

Già l’ordinanza interlocutoria (cfr. Cass., n. 23927/2017) – a suo tempo qui segnalata – evidenzia la grande importanza e attualità della questione tratteggiata per l’intreccio tra temi specifici della disciplina dell’intermediazione finanziaria e la disciplina generale della nullità del contratto. Non solo, ma la stessa incide anche profondamente sulla tendenza evolutiva del rimedio della nullità in funzione protettiva, contribuendo a chiarirne e completarne il complesso statuto.

Molteplici e variegate sono le soluzioni interpretative avanzate nel tempo sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza. Le Sezioni Unite le ripercorrono tutte per escludere, innanzitutto, i due orientamenti più estremi.

Parte della dottrina nega radicalmente la legittimità dell’uso selettivo della nullità di protezione, sull’assunto che il regime protettivo si esaurisca nella legittimazione esclusiva del cliente a far valere l’invalidità per difetto di forma. Con la conseguenza che i connessi effetti caducatori e restitutori potrebbero essere fatti valere da entrambe le parti, in quanto opererebbero le regole comuni sull’indebito ai sensi degli artt. 2033 e 1422 c.c. (cfr. Cass., n. 6664/2018).

Un’altra parte della giurisprudenza, all’opposto, tende ad ammettere senza alcuna limitazione l’uso selettivo della nullità, ritenendolo coerente con l’operatività a esclusivo vantaggio del cliente, in quanto diretta conseguenza dell’esercizio di un diritto predisposto dall’ordinamento in suo favore. Talché, all’intermediario sarebbe preclusa ogni possibilità di avvalersi di quella dichiarazione di nullità e dei relativi effetti restitutori (cfr. Cass., n. 8395/2016).

Entrambe le tesi illustrate, per la loro assolutezza, vengono, oggi, rigettate dalle Sezioni Unite, le quali prospettano una soluzione tesa a ricercare un difficile punto di equilibrio tra due esigenze contrapposte: garantire gli investimenti operati dai privati con i loro risparmi, da una parte; tutelare la posizione dell’intermediario contro sacrifici economici sproporzionati, in nome dell’interesse più generale alla certezza dei rapporti sui mercati finanziari.

Sulla base di questa impostazione, i giudici assumo come “criterio ordinante” l’applicazione del principio di buona fede e di correttezza contrattuale, così come sostenuto dai principi solidaristici di matrice costituzionale, ma concependolo in modo difforme dagli indirizzi interpretativi che sinora si sono espressi sul punto.

Il principio di buona fede, nella forma della exceptio doli generalis, è stato invocato da quanti, in dottrina e in giurisprudenza, si sono preoccupati di evitare un uso distorsivo del rimedio e, quindi, di individuare un limite all’azione selettiva. Tale principio, tuttavia, non è stato preso in considerazione in modo sempre univoco.

Secondo una prima tesi, l’eccezione di dolo sarebbe esperibile per impedire, in via generale, l’uso selettivo della nullità di protezione, sull’assunto che ove l’azione sia diretta a colpire soltanto gli investimenti non redditizi, questa sarebbe sempre intrinsecamente connotata da un intento opportunistico, che travalica la funzione protettiva impressa dal legislatore al rimedio (cfr. Cass., nn. 12388-12389-12390/2017).

Secondo una diversa tesi, invece, il rigore dell’impostazione appena illustrata andrebbe stemperato, in quanto essa trascura di considerare «la strutturale vocazione delle nullità protettive a un uso selettivo, ancorché non arbitrario, in quanto correlato alla operatività a vantaggio esclusivo di uno dei contraenti». Sicché, sul presupposto dalla legittimità dell’azione di nullità selettiva, l’intermediario dovrebbe vedersi riconosciuta l’eccezione di dolo ove l’esercizio del diritto da parte dell’investitore sia espressione di un comportamento connotato da mala fede o frode, ovvero sia preordinato alla produzione di un pregiudizio per l’intermediario.

Sennonché, parte della giurisprudenza ragiona in termini parzialmente difformi, ritenendo che, per paralizzare un’azione selettiva di nullità, non sia sufficiente limitarsi a una valutazione della buona fede in senso soggettivo, ma si renda necessario accertare un vero e proprio abuso del diritto da parte dell’investitore, come accade quando questi eserciti il suo diritto per conseguire risultati diversi e ulteriori rispetto a quelli per i quali quella facoltà gli è stata attribuita (cfr. Cass., n. 15885/2013; Cass., n. 10568/2018).

Ebbene, come accennato, anche le Sezioni Unite ritengono di valorizzare il principio di buona fede e correttezza, ma lo assumono in modo non del tutto coincidente con le declinazioni dell’exceptio doli generalis e dell’abuso del diritto appena illustrate.

I giudici affermano l’ammissibità dell’uso selettivo della nullità, in relazione alla conformazione bifasica dell’impegno negoziale nei contratti di investimento (così come nei contratti bancari), reputandolo del tutto coerente con lo statuto normativo delle nullità di protezione. Alla luce di quest’ultimo – come risultato anche dalla elaborazione giurisprudenziale in tema di legittimazione relativa, rilevabilità d’ufficio e parzialità necessaria (cfr. Sez. Un., n. 26724/2014) – negare la selettività del rimedio significherebbe realizzare una sostanziale abrogazione di quel regime giuridico protettivo.

L’uso selettivo della nullità, dunque, non può essere considerato di per sé contrario al canone di buona fede, ferma restando, tuttavia, la necessità, ad avviso dei giudici, di modulare e conformare l’operatività del rimedio da quel principio. A tal fine, l’azione di nullità deve essere sottoposta a un vaglio volto a verificare non solo la mala fede dell’investitore, ma anche l’esistenza di un oggettivo pregiudizio per l’intermediario, alla luce degli investimenti complessivamente eseguiti. Se, all’esito di questo esame, risulta che gli ordini non colpiti da nullità abbiano prodotto un rendimento economico superiore al pregiudizio lamentato dall’investitore, allora, l’intermediario può tutelarsi con l’eccezione di dolo, al fine di non subire un ingiustificato sacrificio economico. Se, invece, gli ordini non colpiti da nullità hanno prodotto risultati positivi, ma di entità inferiore al pregiudizio determinato dal petitum, l’effetto paralizzante dell’eccezione di dolo opera nei limiti del vantaggio ingiustificato conseguito.

Sicché, «entro il limite del pregiudizio per l’investitore accertato in giudizio, l’azione di nullità non contrasta con il principio di buona fede» ed è, quindi, ammissibile.

Il bilanciamento tra le due istanze di tutela sopra menzionate viene, dunque, fondato sui principi costituzionali di solidarietà e di uguaglianza sostanziale, filtrati dalla buona fede contrattuale concepita in senso trasversale: così come l’intermediario deve adempiere correttamente agli obblighi informativi a suo carico, allo stesso modo, sull’investitore grava un obbligo di lealtà in funzione di garanzia della posizione del primo. Sicché, quei principi, posti a fondamento delle nullità di protezione, «operano anche in funzione di riequilibrio effettivo endocontrattuale quando l’azione di nullità, utilizzata (…) in forma selettiva, determini esclusivamente un sacrificio economico sproporzionato nell’altra parte».

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