ISSN 2239-8570

Locazione e possibile nullità dell’accordo traslativo di imposta per contrasto con l’art. 53 della Costituzione, di Chiara Sartoris


DOCUMENTI ALLEGATI

Il tema della locazione ad uso non abitativo è di nuovo oggetto di attenzione da parte della giurisprudenza di legittimità. La terza sezione civile della Corte di Cassazione ha rimesso gli atti al Primo Presidente per valutare l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite in ordine alla questione della nullità di un accordo di traslazione palese di imposta patrimoniale, inserito in un contratto di locazione a uso non abitativo, per violazione dell’art. 53 Cost..

Si tratta di stabilire se sia ipotizzabile un limite alla autonomia contrattuale, presidiato dalla nullità dell’accordo traslativo, anche nei casi in cui siffatto accordo rimanga estraneo al sinallagma contrattuale locatizio. È dibattuto, infatti, “se l’obbligo costituzionalmente rilevante di concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva abbia un significato esclusivamente oggettivo – nel senso di obbligo di adempiere a quanto è giustificato dalla capacità contributiva – oppure anche soggettivo – nel senso che l’adempimento debba essere compiuto non solo oggettivamente in modo completo, ma altresì dal soggetto che per legge ne ha l’obbligo, escludendosi quindi il trasferimento dell’obbligo a un soggetto diverso”.

Torna, dunque, a sottoporsi alla attenzione dell’interprete il delicato tema della efficacia diretta od orizzontale dei principi costituzionali, in particolare, della diretta precettività dell’art. 53 Cost., quale norma da tempo riconosciuta come imperativa, concretizzando uno dei “doveri inderogabili di solidarietà” di cui impone l’adempimento l’art. 2 Cost..

La questione in esame costituisce oggetto di un risalente dibattito giurisprudenziale e dottrinale. Secondo un primo orientamento, siffatti accordi traslativi del soggetto passivo di imposta sarebbero nulli per contrasto con l’art. 53 Cost. e ai sensi dell’art. 1418, primo comma, c.c., poiché il “principio del concorso di tutti alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva” ha un “immediato valore vincolante” e si traduce nel divieto, inderogabile per il debitore di imposta, di traslare il relativo onere su un altro soggetto, e cioè “su un patrimonio diverso da quello rispetto al quale è contemplato il prelievo fiscale” (Cfr. Cass., 5 gennaio 1985, n. 5). Anche perché, diversamente ragionando, secondo parte della dottrina, finirebbe per essere ridimensionata la ratio stessa dell’art. 53 Cost., riducendo quel principio a una regola meramente formale; nel contempo, si abbandonerebbe alle libere regole del mercato l’individuazione del sacrificio economico effettivo dei singoli contribuenti.

Secondo una diversa impostazione – prevalente in dottrina e avallata delle Sezioni Unite in relazione a un contratto di mutuo (Cfr. Cass., Sez. Un., 18 dicembre 1985, n. 6645) – la clausola traslativa in esame non violerebbe norme imperative, poiché rientra nel sinallagma contrattuale e “non implica che l’imposta afferente un reddito venga corrisposta al fisco da un soggetto diverso dal suo percettore, obbligandosi a pagarla in sua vece e conto, ma configura una mera traslazione convenzionale di imposta, da ritenersi in via generale consentita in mancanza di una specifica diversa disposizione di legge”. Secondo le Sezioni Unite, dunque, la violazione di una norma imperativa, come l’art. 53 Cost., può certo comportare la sanzione della nullità dell’accordo, ma solo se risulti con essa confliggente, come accade quando il patto di traslazione comporti effettivamente che l’imposta non venga corrisposta al fisco del percettore del reddito.

In quest’ultima prospettiva – seguita dal giudice d’appello nel caso di specie – la possibilità di ricondurre l’accordo traslativo nel sinallagma del contratto in cui è inserito lo rende compartecipe della liceità del contratto stesso, legittimandolo rispetto all’art. 53 Cost..
A sostengo di questa tesi si richiamano due argomenti. In primo luogo, lo stesso diritto comunitario considera la traslazione delle imposte un fenomeno giuridicamente legittimo, ed anzi si tratta di questione non annoverabile tra quelle che “sortiscono dal diritto comunitario nel suo rapporto con il diritto interno”. In secondo luogo, si osserva che l’art. 53 Cost., se, da un lato, mira ad assicurare che la ricchezza venga colpita in capo al soggetto dotato di adeguata capacità contributiva, dall’altro, si disinteressa dei modi in cui il contribuente che ha pagato recupera la ricchezza in misura corrispondente.

Giova ricordare che l’impostazione di fondo alla base della tesi da ultimo esaminata è rappresentata dall’assunto, oggi prevalentemente superato, della impermeabilità o non interferenza tra diritto privato e diritto tributario, atteso che l’accordo traslativo di imposta viene considerato come “una pattuizione di carattere privatistico che non incide sul rapporto pubblicistico contribuente-fisco” (in tal senso si vedano: Cass., 3 giugno 1991, n. 6232; Cass., 25 marzo 1995, n. 3577).
L’ordinanza in esame, inoltre, nell’evidenziare l’illustrato contrasto giurisprudenziale, arricchisce la riflessione anche alla luce del dato – oggi ineludibile – del diritto europeo. In particolare, la giurisprudenza europea, pure di recente, ha affermato che una clausola di traslazione fiscale non possa essere considerata necessariamente abusiva. Ciò in quanto il significativo squilibrio richiesto dall’art. 3, parag. 1, della direttiva 93/13 non può esaminarsi solo in relazione ad una valutazione quantitativa di valore; bensì può “risultare dal mero fatto di un pregiudizio sufficientemente grave alla situazione giuridica in cui il consumatore, quale parte del contratto, viene collocato in forza delle disposizioni nazionali applicabili”. Spetta, dunque, ai giudici nazionali valutare l’eventuale abusività della clausola in relaziona alla disciplina interna (Cfr. CG, 16 gennaio 2014, n. 2226, causa C-226/12; CG 6 settembre 2011, n. 398, causa C-298/09).
Si evidenzia, infine, che un ulteriore dato di cui le Sezioni Unite dovranno tenere conto, è rappresentato dal nuovo art. 10 bis, introdotto nel 2015 all’interno dello Statuto del contribuente, che ha tipizzato la figura dell’abuso del diritto in materia fiscale. A parere della terza sezione, infatti, il tema dell’abuso del diritto appare tutt’altro che eccentrico rispetto alla questione considerata: esso condurrebbe a ritenere contrario a buona fede trarre benefici da operazioni, magari anche volute e valide, volte indirettamente a perseguire un indebito vantaggio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili, diverse dalla mera aspettativa di vantaggio fiscale.
In tal modo, la Cassazione sembra fornire il fianco a una possibile soluzione interpretativa che prescinda dal discusso tema della nullità del contratto per contrasto con un principio costituzionale, e ragioni, invece, sulla altrettanto dibattuta tesi della rilevanza della buona fede come regola di validità.

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