La sentenza segnalata torna nuovamente a occuparsi della questione della trascrivibilità di un provvedimento giurisdizionale straniero recante l’accertamento del rapporto di filiazione tra un minore nato all’esterno mediante ricorso alla maternità surrogata e uno dei membri di una coppia italiana.
Nel caso di specie, l’ufficiale dello stato civile rifiuta di trascrivere il provvedimento canadese con cui è stata riconosciuta la cogenitorialità dei due partner italiani. Conseguentemente, la coppia propone ricorso alla Corte d’Appello di Trento, la quale ritiene di accogliere la domanda. Nell’escludere la contrarietà all’ordine pubblico del provvedimento canadese, i giudici di appello richiamano la nozione di ordine pubblico avallata dalla recente giurisprudenza di legittimità, secondo la quale, essa si identifica con il «complesso dei principi fondamentali caratterizzanti l’ordinamento interno in un determinato periodo storico, ma ispirati ad esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo comuni ai diversi ordinamenti e collocati ad un livello sovraordinato sovraordinato rispetto alla legislazione ordinaria» (cfr. Cass., n. 19599/2916).
Una volta chiarito che, differentemente dalla legislazione canadese, in cui si ammette il ricorso alla maternità surrogata, purché a titolo gratuito, la nostra legge sulla procreazione medicalmente assistita vieta questa possibilità, la Corte d’Appello ritiene che tale divieto non precluda, nondimeno, il riconoscimento dell’efficacia del provvedimento straniero di accertamento del rapporto di filiazione tra i minori generati con tale tecnica e il genitore intenzionale. Tale conclusione viene affermata, da un lato, valorizzando l’interesse superiore del minore, dall’altro, rilevando che il nostro ordinamento non prevede un modello di genitorialità fondato esclusivamente sul legame biologico.
Sennonché, l’ordinanza in parola viene impugnata davanti alla Corte di Cassazione sia dal Pubblico Ministero, sia dal Ministero dell’Interno e dal Sindaco di Trento.
Tra i motivi di impugnazione degni di nota, si menziona la denuncia di eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera delle attribuzioni del legislatore. A fronte di tale censura, la I sezione della Suprema Corte ritiene di rimettere la causa alle Sezioni Unite, anche in considerazione della particolare complessità della questione che, oltre agli aspetti procedurali, implica delicatissimi profili di diritto sostanziale.
Nella prima parte della decisione, le Sezioni Unite risolvono, preliminarmente, la questione procedurale nel senso che, trattandosi di una controversia di stato (da risolvere mediante apposito procedimento ex art. 67 legge n. 218/1995), il giudizio debba svolgersi in contraddittorio con il Sindaco, in qualità di ufficiale dello stato civile, ed eventualemente con il Ministero dell’Interno, legittimato a spiegare intervento, quale titolare della competenza in materia di tenuta dei registri dello stato civile, e a impugnare la decisione. Diversa è, invece la posizione del Pubblico Ministero, il quale, pur rivestendo la qualità di litisconsorte necessario ex art. 70, comma 1, n. 3, c.p.c., non ha legittimazione a impugnare la relativa decisione, non essendo titolare del potere di azione.
Ciò chiarito, le Sezioni Unite passano a esaminare nel merito la questione, offrendo un importante chiarimento circa la nozione di ordine pubblico. L’orientamento oggi consolidato presso la giurisprudenza di legittimità ha abbandonato la precedente concezione difensiva della clausola, quale limite all’ingresso nell’ordinamento di norme e atti provenienti da altri sistemi e ritenuti in contrasto con i valori sottesi alla vigente normativa interna (cfr. Cass., n. 3881/1969; Cass., n. 2441/1980; Cass., n. 1680/1984). Al suo posto, si è delineata una nozione avente una funzione eminentemente promozionale, che circoscrive l’ambito del giudizio di compatibilità ai valori tutelati dalle norme fondamentali in collegamento con quelli riconosciuti a livello internazionale e sovranazionale, dei quali mira a favorire la diffusione (cfr. Cass., Sez. Un., n. 16601/2016 in tema di riconoscimento di un provvedimento straniero di condanna ai danni punitivi).
Tale rinnovata concezione dell’ordine pubblico trova espressione nella ricorrente affermazione secondo cui «i principi di ordine pubblico vanno individuati in quelli fondamentali della nostra Costituzione o in altre regole che, pur non trovando in essa collocazione, rispondono all’esigenza di carattere universale di tutelare i diritti fondamentali dell’uomo, o che informano l’intero ordinamento in modo tale che la loro lesione si traduce in uno stravolgimento dei valori fondanti dell’assetto ordinamentale» (cfr. Cass., n. 22332/2004; Cass., n. 4040/2006; Cass., sez. lav., n. 13547/2008).
Alla luce di questo excursus sulla nozione di ordine pubblico, le Sezioni Unite risolvono la questione affermando che nei casi in cui si discuta del riconoscimento della efficacia di un provvedimento giurisdizionale straniero, è necessario che la compatibilità con l’ordine pubblico venga valutata «alla stregua non solo dei principi fondamentali della nostra Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, ma anche del modo in cui gli stessi si sono incarnati nella disciplina ordinaria dei singoli istituti, nonché della interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria, la cui opera di sintesi e di ricomposizione dà forma a quel diritto vivente dal quale non può prescindersi nella ricostruzione della nozione di ordine pubblico, quale insieme e dei valori fondanti dell’ordinamento in un determinato momento storico». Ciò premesso, le Sezioni Unite ritengono di discostarsi dal precedente del 2016 a cui l’ordinanza impugnata si richiama, senza tenere conto delle profonde differenze intercorrenti con il caso di specie, le quali impongono di valutare il diverso modo di atteggiarsi di quei principi. Le due fattispecie hanno in comune il fatto che il concepimento e la nascita del minore riguardano una coppia omosessuale, con l’apporto genetico di uno solo dei partner. Tuttavia, mentre nel caso del 2016, ciascuna delle due donne era legata al minore da un rapporto biologico (una forniva gli ovuli, l’altra lo aveva partorito), nel caso di specie, invece, uno degli uomini non ha alcun rapporto biologico con il minore, che è stato generato mediante i gameti forniti dall’altro con la cooperazione di due donne (una che ha donato gli ovociti, l’altra che lo ha partorito).
La fattispecie in esame, dunque, viene ricondotta a pieno titolo tra le ipotesi di maternità surrogata, per l’esistenza di un accordo intervenuto con una donna estranea alla coppia genitoriale, la quale ha provveduto alla gestazione e al parto, rinunciando a qualsiasi diritto nei confronti del nato.
Per questo motivo, le Sezioni Unite ritengono di fondare la propria decisione sugli stessi principi di diritto affermati in un precedente non del 2016, ma del 2014 (Cass., n. 24001/2014), in cui è stato dichiarato contrastante con l’ordine pubblico il riconoscimento di efficacia dell’atto di nascita formato all’estero, in cui erano indicati come genitori due coniugi italiani, i quali si erano avvalsi della maternità surrogata senza fornire alcun apporto biologico.
In considerazione di tale ultima decisione, le Sezioni Unite affermano che la sentenza impugnata contrasta con tale orientamento nella parte in cui esclude che il divieto di surrogazione di maternità costituisca un principio di ordine pubblico, pur svolgendo una funzione essenziale di tutela degli interessi costituzionalmente rilevanti. Tale conclusione troverebbe conferma, peraltro, nella giurisprudenza costituzionale, secondo la quale, il divieto di surrogazione della maternità va annoverato tra i limiti necessari all’esercizio della libertà di diventare genitori e formare una famiglia, essendo posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità umana della gestante e l’istituto dell’adozione (cfr. Corte Cost., n. 162/2014).
Alla luce di tali principi, le Sezioni Unite ritengono – sorprendentemente – che, all’esito di un bilanciamento effettuato dallo stesso legislatore, la tutela di tali valori possa prevalere anche sull’interesse del minore, che ben può costituire oggetto di contemperamento con altri valori essenziali e irrinunciabili dell’ordinamento.
A sostegno di tale affermazione viene richiamata, altresì, quella giurisprudenza della Corte Edu in cui si riconosce un ampio margine di apprezzamento agli Stati sia ai fini della decisione di autorizzare la pratica della maternità surrogata, sia ai fini della determinazione dei relativi effetti giuridici (Corte Edu, 26/06/2014, Mennesson e Labassee c. Francia; Corte Edu, 24/01/2017, Paradiso e Campanelli c. Italia).
Pertanto, la sussistenza di un legame genetico o biologico con il minore rappresenterebbe, secondo i giudici, il limite oltre il quale è rimessa alla discrezionalità del legislatore statale l’individuazione degli elementi più adeguati per conferire rilievo giuridico al rapporto genitoriale (come l’adozione). Nel contempo, tuttavia, le stesse Sezioni Unite indicano una strada alternativa, al fine di contemperare gli interessi in gioco. Invero, i giudici non escludono la possibilità di conferire rilievo al rapporto genitoriale mediante altri strumenti giuridici già contemplati dall’ordinamento interno, come l’istituto dell’adozione in casi particolari (art. 44, comma 1, lett. d), legge n. 184/1983), che parifica la posizione del figlio adottivo allo stato del figlio nato nel matrimonio. Si tratta, infatti, di una «clausola di chiusura del sistema, volta a consentire il ricorso a tale strumento tutte le volte in cui è necessario salvaguardare la continuità della relazione affettiva ed educativa». Per tale via, l’ordinamento potrebbe, comunque, consentire adeguata tutela all’interesse del minore.
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