ISSN 2239-8570

Protezione internazionale e tutela dello straniero omosessuale, di Chiara Sartoris


DOCUMENTI ALLEGATI

Con la sentenza che qui si segnala la Corte di Cassazione torna ad occuparsi del delicato problema della protezione internazionale, che l’attualità sottopone quotidianamente alla attenzione di tutti, sotto molteplici profili, non solo strettamente giuridici.

Si tratta del caso di un cittadino pakistano, il quale propone ricorso in Cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello di Cagliari con cui i giudici avevano confermato la decisione di primo grado, rigettando la domanda di riconoscimento della protezione internazionale o di un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Tale richiesta era stata avanzata in quanto il ricorrente, a causa della sua omosessualità, punita con la detenzione a vita nel Paese d’origine, si trovava esposto al rischio di persecuzione.

In entrambi i gradi del giudizio, la prospettazione del ricorrente è stata considerata non credibile, cioè non idonea a integrare i requisiti necessari per accedere al programma di protezione internazionale. I giudici hanno ritenuto, infatti, che nel corso del procedimento egli avrebbe riferito circostanze generiche, contraddittorie e inverosimili.

La Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso rinviando ai giudici di merito, richiama la propria giurisprudenza e, in particolare, il principio enunciato nel precedente Cass., Sez. VI-1, ordinanza n. 15981 del 20 settembre 2012), secondo cui “ai fini della concessione della protezione internazionale, la circostanza per cui l’omosessualità sia considerata un reato dall’ordinamento giuridico del Paese di provenienza è rilevante, costituendo una grave ingerenza nella vita privata dei cittadini omosessuali, che compromette grandemente la loro libertà personale e li pone in una situazione oggettiva di persecuzione, tale da giustificare la concessione della protezione richiesta”. Anche occasione della sentenza qui segnalata, la Corte evidenzia in modo chiaro le particolari regole che presiedono all’accertamento dei presupposti per l’acceso al programma di protezione internazionale.

Si sottolinea, innanzitutto, come le regole probatorie subiscano una necessaria attenuazione in questa materia. Ciò, peraltro, è stato più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità, a causa della difficoltà nel reperire le prove in cui si trova il richiedente che sia in fuga da una situazione di pericolo. La dimostrazione, infatti, può anche essere indiziaria, secondo quanto previsto dall’art 3, comma 5, del d.lgs 251/2007 (cf. Cass., Sez. Un., 17 settembre 2008, n. 27310, secondo cui l’acquisizione delle prove avviene in modo “disancorato dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario e libero da preclusioni o impedimenti processuali, oltre che fondato sulla possibilità di assumere informazioni ed acquisire tutta la documentazione necessaria”).

In particolare, costituisce presupposto necessario e sufficiente per l’accoglimento della richiesta la prospettazione del fatto che l’omosessualità costituisca un reato punito con la pena della detenzione a vita nel Paese d’origine. Si tratta, infatti, di una grave ingerenza dello Stato nella vita privata dei cittadini omosessuali, idonea a ledere la loro libertà personale, ponendoli in una situazione di oggettiva persecuzione.

A tal fine, si rende necessaria l’acquisizione nel processo delle prove necessarie a dimostrare tre presupposti fondamentali: in primo luogo, occorre dimostrare la circostanza della omosessualità del richiedente; in secondo luogo, va dimostrata la condizione dei cittadini omosessuali nella società del Paese di provenienza; infine, deve essere prospettato lo stato della legislazione di quel Paese.

Si ricorda, peraltro, che la materia è regolata dal criterio direttivo dettato dalla normativa comunitaria (direttiva n. 95/2011) e italiana (d.lgs 251/2007) in materia di istruzione ed esame delle domande di protezione internazionale.

In particolare, tanto l’art. 4 della direttiva n. 95/2011, quanto l’art 3 del d.lgs 251/2007, contemplano il dovere di cooperazione del giudice con il richiedente. Quest’ultimo deve spiegare i motivi per i quali è fuggito dal Paese d’origine, allegando tutti i fatti costitutivi della sua domanda, mentre il giudice interviene nella parte di offerta della prova, supplendo alle eventuali carenze probatorie, e verificando, altresì, se nella fase amministrativa del procedimento davanti alle preposte commissioni territoriali siano state rispettate tutte le garanzie procedurali.

Questi procedimenti, difatti, si caratterizzano per un particolare ed evidente sbilanciamento tra le posizioni delle parti, quella del rifugiato e quella della autorità amministrativa competente: il che impone una disciplina ad hoc, che tenga conto delle peculiarità di tali procedimenti, come avviene anche nei procedimenti in materia di tutela del minore, in materia di lavoro o nel contenzioso discriminatorio.

In tale ottica, si inquadra anche il riconoscimento, in capo al richiedente, del diritto di essere ascoltato. Alla luce delle statuizioni della Corte di Giustizia in ordine al diritto di difesa e al diritto di essere ascoltato, quali principi generali del diritto europeo, il giudice è tenuto a organizzare un secondo colloquio orale tutte le volte in cui l’ascolto del richiedente sia indispensabile per decidere con cognizione di causa sulla richiesta: tale esigenza si pone quando i documenti acquisti non forniscano le indicazioni necessarie al riscontro dei presupposti di legge ovvero quando sopraggiungano nuovi elementi da valutare.

Solo rispettando siffatte garanzie procedurali l’ordinamento nazionale è in grado di assicurare il diritto di difesa e più in generale quel diritto al rimedio effettivo enunciato dall’art 47 della Carta di Nizza.

Taggato con: , , ,
Pubblicato in News, Note redazionali, Persona e diritti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Newsletter a cura di Giuseppe Vettori